Riprendiamo da Vulture un profilo della poetessa Eileen Myles apparso sulla rivista New York il 21 settembre 2015. Ringraziamo la testata per la gentile concessione.
di Rachel Monroe
traduzione di Simone Orsello
È solo quando arriviamo davanti a quei dieci metri di scala a pioli, con la testa rivolta all’insù verso il cielo limpido del Texas occidentale, che Eileen Myles mi comunica con nonchalance che soffre di vertigini. La scala arrugginita è l’unica via per arrivare alla nostra destinazione, un vecchio carro cisterna riempito d’acqua di fonte su una strada di campagna. Myles ha da poco acquistato una casetta a Marfa, a una trentina di chilometri da qui, e si divide tra le campagne del Texas e l’appartamento dell’East Village in cui ha passato gli ultimi quattro decenni. Fortunatamente, la poetessa sessantacinquenne non sembra intenzionata a lasciarsi dissuadere dalla paura. Afferra la ringhiera e comincia ad arrampicarsi. Una volta in cima, si tuffa in acqua e riemerge con un sorriso ampio e soddisfatto.
Dopo quattro decenni di carriera letteraria trascorsi risolutamente e provocatoriamente nella scena underground, Myles sta vivendo un inaspettato momento di popolarità. I Must Be Living Twice: New and Selected Poems 1975–2014, la prima antologia che spazia temporalmente su tutta la sua opera, è uscita per HarperCollins il 29 settembre scorso; lo stesso giorno l’editore ha ripubblicato Chelsea Girls, significativo romanzo del 1994 che era finito fuori catalogo.
L’influenza di Myles si sta facendo sentire anche altrove. Nella seconda stagione di Transparent, Cherry Jones interpreta una poetessa ispirata alla sua figura (nella serie sono state utilizzate anche due poesie scritte da lei), e Myles stessa appare persino in un cameo. Grandma, l’ultimo film di Paul Weitz, nel quale Lily Tomlin interpreta un’irascibile poetessa lesbica ultrasessantenne, si apre con una sua citazione: «Time passes. That’s for sure» [«Il tempo passa. Questo è sicuro»]. «È una tosta», ha risposto Weitz quando gli ho chiesto un parere su Eileen Myles. «Non voglio sembrare irrispettoso, ma è una con due palle così. È incredibilmente colta, e ha un che di punk. È quello che ho cercato di esprimere con il personaggio di Lily Tomlin: che una sessantenne può essere più avanti di una ragazzina».
Il suo primo libro di poesie ciclostilato è uscito nel 1978; da allora ne ha pubblicati diciannove tra racconti, romanzi, poesie e saggi critici. Nel 1992 ha partecipato alla campagna presidenziale come candidata write-in «apertamente donna». Ha viaggiato per il paese insieme alle Sister Spit, un gruppo di artiste lesbiche e femministe specializzate in performance art e spoken word. La continuità dell’interesse nei suoi confronti è dovuta anche al fatto che Myles è una sperimentatrice nel vero senso della parola: non ci si può distrarre un attimo che si sta già dedicando a qualcos’altro. «Provo sempre a fare delle cose che vadano bene con tutto», mi spiega, nuotando sul posto. «Ma poi il mondo cambia e mi ritrovo a doverne fare altre completamente nuove». Ha appena finito di scrivere il suo primo libro di fantascienza, parla di un cane che viaggia nel tempo. Lo considera autobiografico.
Nell’opera di Myles, le voci narranti hanno spesso alcuni elementi biografici in comune con lei, ma con una prospettiva leggermente sghemba. «An American Poem», uno dei suoi lavori più famosi, comincia così:
I was born in Boston in / 1949. I never wanted / this fact to be known
[Sono nata a Boston nel / 1949. Non ho mai voluto / che questa cosa si sapesse]
Poi, a metà, prorompe in «Yes, I am, / I am a Kennedy» [«Sì, è così / sono una Kennedy»]. Myles non è una Kennedy. (A quanto pare questa poesia continua a creare un po’ di confusione).
Chelsea Girls è stato il suo primo romanzo. Come in quelli successivi, la storia si sviluppa attraverso una serie di brevi episodi raccontati per schizzi rapidi e immersivi («Li immaginavo come dei film oltre che dei racconti», dice Myles, «o errori, o situazioni imbarazzanti… cose che avevo bisogno di esorcizzare») su un personaggio chiamato Eileen: l’infanzia turbolenta in Massachusetts; il trasferimento a New York, nel 1974, per diventare una poetessa; i primi anni, alcolici e romantici; la presa di coscienza del suo essere queer e i problemi con la droga. C’è un brano in cui Eileen si fa fotografare da Robert Mapplethorpe. In un altro assiste James Schuyler, poeta della scuola di New York malato che vive al Chelsea Hotel in una sorta di squallore glamour.
«Pensavo che Chelsea Girls mi avrebbe cambiato la vita», dice Myles. Non gliel’ha cambiata. È rimasta un’outsider, sebbene influente e molto citata. Anche quando il libro è andato fuori catalogo, il suo modo di giocare con la propria biografia ha continuato a risuonare nei romanzi pseudoautobiografici di Teju Cole, Sheila Heti e Ben Lerner. E ha guadagnato ancora nuovi ammiratori: sulle quarte di copertina dei suoi ultimi libri compaiono gli elogi di Lena Dunham, Kim Gordon e Maggie Nelson. Contribuisce il fatto che Myles se la cava molto bene con Twitter e Instagram. «Instagram aggiunge una didascalia a un momento», spiega. «Twitter è la didascalia senza l’immagine. E anche se c’è, le parole vengono prima».
Parte del fascino che esercita sulle generazioni più giovani nasce dal fatto di essere riuscita a incarnare quello stile di vita newyorkese che oggi non sembra più possibile: una vita spartana, qualche contatto con le maggiori istituzioni accademiche di tanto in tanto, mantenendosi scrivendo quello che voleva scrivere. «Mi ha aiutata il mio essere queer, così come la provenienza da una famiglia working class», dice. «Non ero spaventata dalla povertà. Non volevo vivere in una casa grande. Sono della misura perfetta per la poesia. Mi ci muovo bene».
Negli ultimi tempi, spiega Myles, qualcuno ha cominciato a usare la parola leggenda parlando di lei e della sua opera. Non è strano ritrovarsi in questa sorta di canone del ventunesimo secolo dopo esserne stata al di fuori per tutta la vita? «Ho sempre aspirato a diventare una leggenda», mi dice, sorridendo. «Nella New York degli anni Settanta, Allen [Ginsberg] era considerato una leggenda. Ma continuava a essere impegnato, ed era bellissimo quando si presentava ai tuoi reading, era quasi un’investitura. Ci sono persone per la cui opera provi rispetto, e cerchi di seguire la loro strada». Le 368 pagine di I Must Be Living Twice sono un tentativo di raggiungere quello status leggendario. «Le antologie delle poetesse in genere sono più corte di quelle degli uomini», mi fa notare. «E di solito vengono pubblicate postume. È bello che il mio editore abbia voluto pubblicarne una tanto ampia». E poi: «Sono contenta che stia uscendo tutta questa roba insieme, così posso andare avanti. È come se mi fossi liberata di tutto quel lavoro».
Il passaggio a un grande editore non è stato privo di intoppi. I redattori hanno cercato di correggere alcune delle sue esuberanze in fatto di punteggiatura e grammatica. E lei ha passato intere settimane a discutere con l’editore delle copertine dei due libri. Alla fine hanno trovato un accordo: sulla riedizione di Chelsea Girls campeggia una fotografia di Myles scattata nel 1980 da Mapplethorpe; per I Must Be Living Twice ne è stata usata una scattata da Catherine Opie. Nella prima, Myles si affaccia da dietro una folta massa di capelli, con uno sguardo che pare astuto e un po’ sospettoso (stava smaltendo una sbronza). Nella seconda è invecchiata e non più diffidente. È seduta su uno sgabello davanti a un fondale rosso scuro, lo sguardo dritto davanti a sé, una postura autorevole da manuale.
Mentre nuotiamo e chiacchieriamo, mi accorgo che nonostante la sincera inclinazione avanguardista di Eileen Myles c’è qualcosa al limite dell’antiquato nella sua dedizione alla vita romantica dell’artista con la V maiuscola e a tutte le incertezze economiche ed emotive che essa comporta. Da giovane si è trasferita a New York con l’intento dichiarato di fare la poetessa, senza mai decidere di rinunciare all’idea e archiviarla come infantile. Ed è diventata una poetessa.
Di tanto in tanto ricarica le batterie, come dice lei, «fuggendo». «Mi piace Marfa, perché mi sembra diversa da qualsiasi altro posto», dice. Si augura anche che la casa che ha qui possa servirle come rifugio dall’iperstimolazione della vita newyorkese. Mi racconta di una recente serata passata tra aperture di gallerie, performance art e ravioli cinesi a poco prezzo, durante la quale ha incontrato Kim Gordon e Sofia Coppola. Serate che rendono New York una città in cui vale la pena vivere, dice. E che ti lasciano ancora affamato: «Finisce che ne vuoi di più», spiega. «Sempre di più». Ma benché si sia lasciata tante volte la città alle spalle – per il New Mexico o San Diego o, adesso, il Texas occidentale – continua a tornarci. «New York è come una catena», spiega. «Ti ricordi Gertrude Stein quando scriveva “Io sono io perché il mio cagnolino mi conosce”? A volte mi sembra di essere io perché New York mi conosce».
© Rachel Monroe, 2015. Tutti i diritti riservati.
Condividi