César Vallejo è riconosciuto come uno dei più significativi poeti e intellettuali peruviani di sempre. In attesa dell’uscita di Tungsteno, pubblichiamo oggi un approfondimento che ripercorre tutte le sue opere in prosa, meno conosciute ma altrettanto brillanti e innovative. L’articolo è di Carlos Eduardo Zavaleta, che ringraziamo.
«César Vallejo nella narrativa peruviana di oggi»
di Carlos Eduardo Zavaleta
traduzione di Claudia Tebaldi
Credo che si possa parlare di César Vallejo come di un autore importante e attuale all’interno della narrativa peruviana contemporanea. Il suo lascito non è antiquato, né vetusto; è recente, e man mano che viene studiato come prosatore, da più di venticinque anni, Vallejo si sta rivelando uno dei pochi scrittori peruviani con un progetto totalizzante, vale a dire che si cimentò in svariate forme e generi, in seguito a ben delineati periodi di prove e sperimentazioni in ogni campo, e per questo, non solo il suo enorme valore artistico è già un lascito per il lettore, ma degno di nota è anche il suo amore per la letteratura come successivo strumento di riflessione, di confronto linguistico e d’inalterata ricerca del valore estetico.
Dunque, percorrendo passo dopo passo le sue fasi, fu dapprima scrittore d’istantanee, cioè di prose statiche, senza dinamismo, e poi, pian piano, imparò a “narrare”, a “raccontare”, a rispettare gradualmente la forma dell’argomento. Imparò a non imporsi sempre come un invasore poetico della prosa, e così scrisse racconti emotivi, oscuri, poi un romanzo breve psicologico e ugualmente cupo, dopodiché un romanzo andino come il precedente, ambientato in un giacimento minerario, nel quale confluiscono al tempo stesso gli interessi degli indios primitivi e quelli degli operai nel momento di una presa di coscienza umana e sindacale e di una possibile e prossima liberazione sociale. E ancora più avanti riuscì a unire la poesia alla prosa in modo geniale – stile visto poche volte in lingua spagnola –scrivendo ciò che ora viene chiamato racconto-saggio e le famose “poesie in prosa” che precedono i Poemas humanos (1938).
Il suo primo libro in prosa Escalas (1923) è composto da sei istantanee e da sei racconti. Pur essendo un principiante nel nuovo genere, Vallejo conosce molto bene la differenza tra istantanea e racconto, tra ciò che significa darci un’impressione e cosa vuol dire, invece, raccontarci una storia. Queste tre istantanee, che si potrebbero immaginare fredde, statiche, sono anche amare, laceranti, poiché affrontano il duro tema dell’uomo ingiustamente incarcerato, che freme in prigione, come un uccello ferito in gabbia. La metafora vale per tutti; l’uomo comune sa cosa significa una reclusione interminabile, sa che l’ingiustizia e la povertà sono le prigioni naturali di gran parte della nostra popolazione, e lì, dentro, il narratore rivive la sua storia personale, che non è molto diversa da quella pubblica. Per vivere, per proteggersi, per resistere, il prigioniero si avvale dei sogni, del ricordo della casa familiare, dove è stato felice con sua madre e i suoi fratelli, e così sogna che è già stato fucilato, ma la sua angoscia non ha termine, perfino la morte è falsa, in quanto non conduce alla libertà, e scopre che i suoi compagni di cella, al di là della loro apparenza mite, sono assassini, ciò che lui non sarà né potrà mai essere.
Con questa angoscia passiamo ai racconti, che a loro volta sono quadri drammatici, acqueforti in cui si mescolano la vita e la morte, la luce e l’ombra, il ricordo con la realtà attuale, l’uomo con la scimmia suo simile, e altresì, il mondo come giocatore d’azzardo con un senso di soffocamento.
Nel complesso, è un libro innovativo nella nostra letteratura, sperimentale nelle mani di Vallejo, il quale si lancia subito in un’altra avventura, quella del romanzo breve Favola selvaggia (1923) – pioniere di destrezze psicologiche – per descriverci una storia morbosa, ma in qualche modo immaginaria; in altre parole, ci trasmette un retroterra mentale del modo in cui sorgono idee ed emozioni oscure, e il piccolo libro è realmente una vera eredità per il romanzo peruviano, dato che prima di lui solo Abraham Valdelomar aveva ottenuto descrizioni psicopatologiche che ricordano a loro volta atmosfere e personaggi di Edgar Allan Poe.
In questo nuovo ambito, il narratore s’interessa al paesaggio della sierra peruviana, cercando una radice emotiva che lo mostri nell’indole del protagonista; e allo stesso tempo, s’impegna seriamente a descriverci ritratti fisici e comportamenti di personaggi ibridi che assimilano e rappresentano in qualche modo questo ambiente. Insomma, a prima vista, senza una grande esperienza previa, il narratore si è cacciato nei guai, si è circondato di ombre che offuscano la coscienza, e allo stesso tempo ha il dovere di descrivere queste ombre nel miglior modo possibile. In questo suo primo tentativo, al fine di descriverci la confusione mentale, cosa molto difficile da fare, il narratore ricorre anche alle ultime tendenze della pittura e del disegno, saccheggia il cubismo e le sue audaci rappresentazioni, e ci suggerisce immagini divise da una specie di abisso, o sogno, o disperazione. È certo un romanzo con contesto e personaggi andini e contemporaneamente con un tema cupo, triste, là nelle alture montanare, tra montagne ciclopiche e una profonda orfanità, ma che a tratti ci concede una pace agreste e forse beata.
Il romanzo Tungsteno (1931) offre un’altra novità per il Perù, un romanzo nel quale contadini, operai, reclute e uomini di classe media, riescono, nonostante le umiliazioni e gli abusi, a intuire la necessità di organizzarsi in un gruppo ribelle, in un sindacato promotore, magari, di un impeto popolare e di un cambiamento sociale autentico.
Anche se Vallejo fu sempre un rivoluzionario della parola e della poesia, i suoi progressi sperimentali nella narrativa non lo soddisfecero; si spinse ancor più in là e toccò il culmine con un piccolo libro di pensieri intitolato Contra el secreto profesional, scritto tra il 1928 e il 1929, il cui maggior successo letterario è quello che ora possiamo chiamare racconto-saggio, genere nel quale fu poi un maestro Jorge Luis Borges, ma che qui, in un libro concluso prima del 1930, mette in risalto Vallejo con una lucentezza autentica.
E come se nemmeno questo risultato gli fosse bastato, Vallejo proseguì con la sperimentazione della prosa e, in questa nuova direzione, scrisse i famosi Poemas en prosa, che costituiscono la prima parte del libro Poemas humanos (1938).
In tutti questi titoli, l’aspetto più rilevante continua a essere l’interrelazione tra i due stili, il barocco e il colloquiale. Il barocco implica l’artificio, l’ornamento, l’ombra, il piano sonoro al di sopra del tema, a volte la trascuratezza della linea argomentativa: questo è un atteggiamento poetico più che narrativo; mentre il secondo stile è diretto, colloquiale, è la variante nord peruviana dello spagnolo, la lingua materna di Vallejo nella sierra di Santiago de Chuco. Molte volte i due stili si trovano in contrasto – e i due registri appaiono evidenti – quando la catena di avvenimenti viene messa in secondo piano a causa della verbosità del poeta, il quale ha invaso la prosa con i suoi abiti linguistici; ma a volte c’è anche una certa forza del dialogo. Come esemplificazione, il racconto «Más allá de la vida y la muerte»rappresenterebbe l’eccesso verbale, la descrizione fantasmagorica di una specie di “mondo alla rovescia”, senza spiegazione logica; e un altro racconto, il più noto di tutti, Cera, rappresenterebbe invece l’equilibrio tra i due stili, forse concedendo però un leggero vantaggio a quello colloquiale.
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