Il libro di Emma, la storia in cui Emma Reyes racconta la sua infanzia attraverso ventitré lettere indimenticabili, è in libreria. In Colombia è stato per molti il libro più importante del 2012, al punto che Diego Garzón, direttore della rivista colombiana SoHo, ha deciso di mettersi sulle tracce di Emma, per indagare come si è conclusa la storia di questa donna indimenticabile. Il risultato è una splendida crónica, che gli è valsa il Premio Nazionale di Giornalismo Simón Bolivar, di cui oggi pubblichiamo la prima parte, ringraziando l’autore e la testata.
«Cosa è successo a Emma Reyes?» / 1
di Diego Garzón
traduzione di Francesca Signorello
Mi è capitato tra le mani un libro che non sono riuscito a posare finché non l’ho finito. L’ho letto in poco più di due ore e, dopo averlo letto, non ho potuto fare a meno di rimuginarci sopra. A distanza di giorni, era sempre lì, che mi girava per la testa. Il libro è Memoria por correspondencia (Il libro di Emma), e secondo la critica specializzata – La Semana, per esempio – è il libro migliore del 2012 e degli ultimi anni in Colombia. Il tema è semplice: l’infanzia infelice di una donna, raccontata senza risentimenti né rancori attraverso ventitré lettere scritte a un amico, l’intellettuale Germán Arciniegas. Le lettere ricordano la tristezza pacifica, la nostalgia pacata di Le ceneri di Angela. Il libro di Emma è stato scritto da una donna che è rimasta analfabeta fino a diciott’anni, una donna che non ha mai messo piede né a scuola né all’università. In queste lettere racconta la sua vita a partire dal ricordo più remoto della sua infanzia – quando viveva in una casa senza né luce né bagno né finestre, nel quartiere San Cristobal di Bogotá, nei primi anni Venti – finché non fu abbandonata insieme alla sorella, e finirono tutte e due rinchiuse in un convento per quasi quindici anni. Se Rilke diceva che la patria di ogni uomo è la sua infanzia, quella di Emma Reyes è una patria eterna per i suoi lettori. La sua infanzia è nostra ormai, ci appartiene per sempre.
Dopo la sua fuga dal convento, si sa per sommi capi che viaggiò per il Sudamerica in autostop fino ad arrivare in Argentina. Si sposò in Uruguay. Visse in Paraguay. Diventò un’artista. Ottenne una borsa di studio e andò a Parigi, dove finì a braccetto con l’élite culturale europea, tra cui Alberto Moravia, Jean-Paul Sartre, Pier Paolo Pasolini, Enrico Prampolini, Elsa Morante e tanti altri, e in Francia diventò la madrina dei pittori colombiani fino alla sua morte, avvenuta a Bordeaux nel 2003. Ma chi era Emma Reyes, quella donna che mi aveva fatto leggere tra le lacrime la storia della sua infanzia? Ne sono rimasto ossessionato e, non appena ho finito il libro, ho giurato che lo avrei scoperto. Che fine hanno fatto gli altri personaggi citati nelle sue lettere? Da dove viene il cognome Reyes? Seppe mai chi erano i suoi genitori? Andò forse a cercarli? Ecco qui tutto quello che successe a Emma Reyes, a sua sorella, e all’incredibile vita che l’aspettava.
Emma Reyes era una Figlia di Maria Ausiliatrice. Nel 1909 nacque il Laboratorio “Maria Ausiliatrice” dove le bambine «per diversi anni, si occupano di cucire la fascia del Presidente, vista la relativa vicinanza, amicizia e collaborazione permanente con il Palazzo Presidenziale», proprio quello che fece Emma negli anni trascorsi lì. Nel 1920 – quattro anni prima del suo ingresso al convento – il Laboratorio si trovava nella calle 8 n° 10-65, il santo patrono era Giovanni Bosco e il direttore generale, María Carolina Mioletti, come emerge anche dalle sue lettere. Oggi questo indirizzo non esiste più: il Parque Tercer Milenio ha cancellato il ricordo peggiore della vita di Emma.
Nel Centro Storico Salesiano del collegio Leone XIII sono conservati documenti che parlano di alcuni personaggi tra cui il prete tedesco «Bacaus», che andava tutti i giorni a recitare la messa alle bambine, e che forse fu uno dei pochi personaggi che lasciarono in Emma un dolce ricordo. Lei non seppe mai come si scriveva il suo cognome: in realtà era Backhaus, «l’unico uomo e l’unica persona del mondo esterno che avevamo il diritto di vedere». Sulla rivista Voz Amiga, delle ex alunne di Maria Ausiliatrice, del 1940, vengono citate tre monache che compaiono anche nelle sue lettere: suor Dolores Castañeda, «la direttrice»; suor Inés Zorrila, «quella che dirigeva la lavanderia», e suor María Ramírez, «la monaca a cui volli più bene», che dirigeva la stireria. Ma il resoconto più commovente, la testimonianza più vicina alle parole di Emma sulla sua permanenza in quel luogo, sul suo lavoro di cucito e sulla povertà in cui vivevano è un articolo di La Crónica, uscito nel 1924, quando lei fu costretta a iscriversi in quella scuola all’età di cinque anni. Il testo Las hijas de María Auxiliadora dice che l’istituto «si pone l’obiettivo di proteggere e educare i bambini poveri, come si legge sull’opuscolo ufficiale Protezione dell’infanzia». Segue poi il resoconto di un tale che decise di firmarsi Polídoro: «In certi momenti si sentono provenire dai dintorni canti melliflui, grida assordanti di bambine durante ricreazioni vivaci, preghiere devote; in altri, il silenzio è così assoluto come se in quella casa non esistesse nulla; ma se ci fermiamo un attimo ad ascoltare, possiamo percepire il suono cadenzato delle macchine Singer o degli arpeggi al piano».
Il narratore dice che un giorno entrarono nell’istituto – parla al plurale – spinti dalla curiosità. «Fin dal primo momento la nostra attenzione è stata attratta da una vetrina in cui campeggiano alcuni copriletti ricamati con estrema cura e altri lavori di lino e seta, così perfetti da far venire voglia di comprarli». Poi Polídoro descrive i cortili in modo simile a Emma e parla anche di un’ampia sala in cui decine di giovani cuciono e ricamano. La suora dice che lì «fanno ricami di ogni tipo, in bianco, in seta e in oro, e confezionano ornamenti per le chiese. Con i loro prodotti sostengono molte bambine povere e orfane». Il giornalista conclude così il suo resoconto: «Quando uscimmo in strada, avevamo gli occhi lucidi».
«Emma, com’è stata la tua infanzia?»
«A volte mi sembra un’infanzia tristissima, altre privilegiata».
«Be’, sei molto ambigua, cerca di essere un po’ più precisa. Com’è stata la tua infanzia?
«Ho trascorso l’infanzia in un convento, senza mai uscire. In un mondo che era un sogno, un’astrazione, perché tutto quello che succedeva fuori lo chiamavamo il mondo, come se noi ci trovassimo su un altro pianeta. Com’è ovvio, questa condizione ha suscitato in noi un’immaginazione enorme, che ha finito per dare i numeri, facendoci immaginare perfino che gli alberi fossero di un altro colore e le persone dall’aspetto diverso, e a un certo punto l’angoscia per quello che c’era fuori fu tale che un giorno decisi di scappare».
Comincia così l’intervista che Gloria Valencia de Castaño fece a Emma Reyes nel 1976 per il programma televisivo Gloria 9:30 – quando l’artista aveva cinquantasette anni –, e che oggi il produttore Rodrigo Castaño conserva gelosamente. Nel video di ventisei minuti, in bianco e nero, la giornalista, dopo una commovente introduzione, lascia spazio a una donna dai folti capelli crespi che non si è ancora girata verso la telecamera, intenta com’è a dipingere a olio una natura morta mentre si prepara a rispondere alle domande. Dopo che Gloria Valencia glielo chiede, lei si volta di modo che i telespettatori la vedano: è una donna meticcia, dagli zigomi prominenti, magra, è elegante nei gesti, delicata, indossa un vestito a righe scure e porta al collo una collana di perline. Da giovane era stata di certo una bella donna. Non sembra affatto strabica, anche se nel libro si racconta che da bambina lo era. Ha una voce rauca, ruvida, imponente, e in certi momenti sembra che biascichi le erre. Il suo accento non sembra di Bogotà, ma neppure di nessun’altra provincia colombiana. Ha una cadenza argentina, e mentre parla infila nel discorso parole francesi e italiane per integrare quello che lo spagnolo, a quanto pare, non dice bene.
Ecco lì Emma Reyes, mi emoziona profondamente vederla, sapere per qualche breve minuto com’era, come parlava o come si vestiva quella donna che non aveva mai pensato di diventare scrittrice. L’intervista segue il suo corso e Gloria Valencia le domanda ciò che tutti i lettori del Libro di Emma vorrebbero sapere oggi: che cosa è successo subito dopo la sua fuga dal convento? Emma risponde in modo piuttosto simile alle parole del suo libro: dopo essere entrata in cucina in cerca di un incensiere, prese le chiavi da dietro la portineria e fuggì; solo che stavolta aggiunge un’informazione che non ha rivelato nelle sue lettere: «Sono uscita con l’uniforme che avevo addosso, e tutto quello che vedo mi attraversa la mente come un sogno finché non arrivo davanti a un treno su cui in pratica mi costringono a salire, ed è tutto così irreale perché non avevo mai visto un treno prima di allora, né un tram, né un’automobile, puoi immaginare come si sente uno che ha solo una descrizione di queste cose».
«E dopo cos’è successo? Hai preso quel treno, e poi?»
«Be’, è una storia lunghissima. Ti dico solo che dopo mille peripezie sono arrivatra a Parigi», risponde Emma con un sorriso.
«In quel momento, quando Emma sale su quel treno, a piedi nudi e con le trecce, comincia la leggenda Emma», commenta l’intervistatrice quasi tra parentesi, senza soffermarsi su quello che successe in realtà. E l’intervistata, non appena sente pronunciare «la leggenda Emma», aggiunge subito: «Sì, anche troppo. Non è che voglio che la gente se la dimentichi, però a volte ho l’impressione che la mia vita conti più del mio lavoro».
Gloria Valencia chiarisce che non è questo il punto, ma è anche vero che tutto quello che le è successo fino a quel momento esercita un fascino enorme.
«E lì ti facevano studiare qualcosa?»
«No, toccava a noi decidere, chi voleva leggere o scrivere la domenica andava a lezione».
«E tu ci andavi?»
«No, non ne vedevo la necessità. In fondo, perché avrei dovuto?»
«Questo significa che quando sei uscita dal convento non sapevi né leggere né scrivere?»
«Esatto, proprio così».
«Da chi hai ricevuto affetto nella tua infanzia?»
«Non credo che questo fosse un problema per noi, la nostra preoccupazione principale era il peccato, la salvezza dell’anima, la bontà e il timore del diavolo…»
Al critico d’arte Álvaro Medina, con cui condivise una lunga amicizia in Francia, Emma Reyes raccontò che qualche settimana dopo essere fuggita dal convento si verificò l’incidente aereo del 24 luglio 1938, nell’aeroporto di Santa Ana, a Usaquén. Durante un’esibizione aerea – ma perché le organizzano se capitano sempre incidenti? – un aereo andò a schiantarsi contro la tribuna in una cerimonia a cui erano presenti il presidente uscente, Alfonso López Pumarejo, e quello in carica, Eduardo Santos. A quei tempi Emma aveva diciannove anni. La data è confermata da doña Clara Arias, una signora novantenne che, nel suo appartamento nella zona nord di Bogotà, mi racconta che suo marito, ormai scomparso, Manuel Arias Restrepo, era stato fidanzato co Emma poco prima del 1940.
A Gabriela Arciniegas – i cui genitori e la sorella erano già morti – raccontò invece che, una volta uscita dal convento, lavorò in un’emittente radiofonica e in un albergo di Bogotà frequentato da numerosi diplomatici che le insegnarono a leggere e scrivere. Accennò anche a un sacerdote con cui aveva viaggiato fino a città come Medellín e Cali, per poi raggiungere la costa atlantica. A Baranquilla, Santa Marta e Cartagena, Emma conobbe non solo il mare, ma anche una donna che leggeva il tabacco e che le augurò, come avrebbe raccontato spesso in seguito, un futuro pieno di viaggi e avventure. Così Emma avrebbe intrapreso la sua traversata per il Sudamerica in autostop, vendendo «Emulsione Scott» all’olio di fegato di merluzzo e lavorando in alcuni alberghi, dandosi alle pulizie o alla cucina. A seconda di come andavano le cose, prolungava la permanenza in alcune città oppure riprendeva il cammino. In questo modo arrivò fino in Argentina, e fuggì dalla Colombia.
Leggi la seconda parte della crónica
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