Zama, di Antonio Di Benedetto, è in libreria. Pubblichiamo oggi un estretto del prologo al romanzo a firma di Juan José Saer.
«Di Benedetto e il significato della letteratura»
di Juan José Saer
traduzione di Giulia Zavagna
Invano si tenterà di collocare Zama nelle categorie canoniche utilizzate dai nostri critici e storici della letteratura. Una recente enciclopedia, che ha dedicato pagine e pagine ad autori che una settimana dopo l’apparizione della loro consacrazione enciclopedica stavano già cadendo a pezzi, prodiga a Di Benedetto, prima di passare ad altro, un’etichetta lapidaria: «Pratica la letteratura sperimentale». Discriminazione che risulta curiosa, se si considera che la letteratura non ha modo di continuare a esistere se non essendo sperimentale – condizione sine qua non che la mantiene in vita dai tempi di Gilgamesh.
L’anonimo giornalista autore di tale frase senz’altro distingue la letteratura sperimentale con il fine preciso di far notare che non vale la pena di occuparse. Né fantastico né realista, né urbano né rurale, né classico né avanguardista, né escapista né engagé, Zama, precisamente poiché non rientra in nessuna casella preparata in precedenza dai copisti nelle nostri riviste e delle nostre università, è destinato a brillare di luce propria e a mostrarci, a raffiche, a ogni nuova lettura, zone segrete di noi stessi che l’abitudine a queste false classificazioni adombra. Questa narrazione, che sembra raccontarci fatti trascorsi quasi due secoli fa, racconta invece noi stessi, i suoi lettori.
Zama è, non il nostro specchio, ma un nostro strumento – nel senso musicale e operativo del vocabolo. Imparando a suonarlo sentiremo, dopo un istante, la nostra stessa canzone, che non è altro che un torbido brusio, soggettivo, continuo e universale e che, pieno di suono e di furia, non significa propriamente nulla, ma qualcosa di preciso, previamente determinato, dato una volta e per sempre e che possa esimerci dallo stato di difficile lucidità, un insieme di insonnia e sonnolenza, in cui si dibattono le nostre vite. Si dirà che tutto ciò non è altro che irrazionalità ed escapismo. Io vorrei far notare, tuttavia, che se accettiamo per un momento la vuota catagoria di romanzo americano, astratto e sciovinista, e adottiamo il punto di vista di chi la utilizza, tra tutti i romanzi che hanno preteso quel titolo negli ultimi trent’anni Zama sarebbe il primo a meritarlo, nonostante il folklore, nonostante gli aneddoti e nonostante il furbo accademicismo che pullulano nell’attualità e che si pretende di far passare come un nuovo romanzo.
Zama non si abbassa alla demagogia del meraviglioso né all’illustrazione di tesi sociologiche; non si ostina a ripeterci vecchie cronache familairi che marciscono nei romanzi borghesi dalla fine del XIX secolo; non divide la realtà, che è problematica, in nazioni; non pretende di essere la summa di alcun gruppo o luogo; non dà al lettore ciò che il lettore si aspetta, perché i pregiudizi dell’epoca non hanno condizionato il suo autore inducendolo a scrivere ciò che il suo pubblico gli impone; non onora rivoluzioni né eroi di dubbia provenienza, e tuttavia, nonostante la sua austerità, il suo laconismo, nonostante sia il romanzo dell’attesa e della solitudine, non fa altro che rappresentare a suo modo, obliquamente, la condizione profonda dell’America, che trema, fragile, in ognuno di noi. Nulla di più lontano da Zama che l’esaltazione patriottica, la falsa storicità, il colore locale. L’agonia oscura di Zama è solidale a quella del continente in cui quell’agonia ha luogo.
Un’ultima osservazione: esiste uno stile Di Benedetto, riconoscibile anche visualmente, nello stesso modo in cui esiste uno stile Macedonio, o Borges, o Juan L. Ortiz. Tale merito può senz’altro essere secondario; ma che io sappia non lo troveremo, in Argentina, in nessun altro narratore contemporaneo di Di Benedetto.
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