Pubblichiamo oggi la seconda parte di un lungo saggio di Francesco Varanini dedicato allo scrittore cubano José Lezama Lima e al “barocco americano”. Qui la prima parte dell’articolo.
Ondate in successione / 2
di Francesco Varanini
A questo punto riappare nel testo l’autore, Lezama, quasi non riuscisse ormai più a nascondersi dietro Cemí: «Sé que esas son las palabras más hermosas que Cemí oyó en su vida», so che quelle sono le parole più belle che Cemí sentì in vita sua, dopo quelle cha aveva letto nei vangeli, e che non ne sentirà mai altre che lo mettano tanto decisivamente in camino…
E questo potrebbe bastare, Lezama-Cemí si è fatto carico della responsabilità implicita nell’essere poeta.
Sembra impossibile, a questo punto, aggiungere ancora qualcosa alla successione di ondate, al sovrapporsi di piani. Già così l’intensità del testo dà le vertigini.
Eppure, c’è un ulteriore soprassalto del dettato, un’ultima escrescenza della materia narrativa – barroco, perla irregular – un ultimo ricciolo, un’altra spirale, un altro rilevo nel profilo della cattedrale, un’altra ondata.
Il senso si sposta e si arricchisce – anche questo è il barocco –, le immagini si moltiplicano, cercano l’infinito. L’autore si mette da parte, ci dice che la poesia travalica sempre i limiti del testo, la poesia è sempre oltre il testo, ha a che fare con la vita. Rialta, personaggio del romanzo, che è Rosa, madre del poeta che scrive, si rivolge al figlio, e al contempo direttamente a noi lettori. Dice: qualche impostore penserà che io non ho mai detto queste parole, e che tu, José, te le sei inventate, ma quando tu darai la risposta attraverso la testimonianza, tu ed io sapremo che le hai dette davvero, e che le dirò finché sarò viva e che tu continuerai a dirle dopo la mia morte.
Qui, nel luogo della poiesis, poco contano il dato storico e la cronologia degli eventi. Nel romanzo le parole della madre sono rivolte al figlio ventenne. Lezama ricorda che la madre in punto di morte gli chiese di scrivere la storia della famiglia. Paradiso è l’impresa di Lezama dopo i quarant’anni. Lezama scrive il capitolo nel 1960 o 1961. Rosa non vedrà il romanzo pubblicato: muore il 12 settembre 1964, Paradiso esce nel 1966. Ma poco conta la cronologia. José, anche dentro il testo, perché così è fuori dal testo, nella vita, nell’eterno presente, rende grazie alla madre, e a lei attribuisce tutto il merito: aver indicato quello che è il nodo della sua poesia – sólo lo difícil es estimulante. Ben oltre il tributo, l’omaggio, la dedica, José rinuncia alla paternità dell’opera, dichiarandosi lui stesso opera della madre. Non scrive para ella, ma scrive por ella.
Non a caso ritroviamo qui, nelle parole di Rosa-Rialta la sucesión del oleaje, che ora è metafora della vita, successione di ondate più o meno violente, diversa da persona a persona, da madre a figlio, da artista a artista. Ma al di là delle differenze, madre o figlio, donna o uomo, giovane o anziano, poeta o semplice abitante del mondo immerso nella quotidianità, chi ha accettato di vivere il pericolo, chi ha tentato lo más difícil, sa che arriverà il momento della trasfigurazione, e vedrà «no los peces dentro del fluir, lunarejos en la movilidad, sino los peces en la canasta estelar de la eternidad», non i pesci nel loro fluire, screziati come sono nella loro mobilità, ma i pesci nel cesto stellare dell’eternità.
Il poeta mette i bocca alla madre una metafora tutta sua. Gliene fa dono, potremmo dire: le attribuisce la mirabile immagine che vedremo tornare in altre conversazioni, altri versi: pesci, bellezza fluente, libertà di movimento, bagliori di luce nell’acqua; pesce antico simbolo cristiano; pesce moltiplicato nutrimento evangelico. Immagini tese a cogliere l’istante originario, con il difficile coraggio di si sforza di sostare lì dove la poesia emerge: il cesto stellare dell’eternità.
Solo dopo esserci affacciati sul difícil ed estimulante privato, personalissimo nucleo generatore della poesia, luogo del barocco originario, possiamo avvicinarci, con Lezama, al barocco letterario.
Così, seguiamo José Cemí, studente ventenne, nei giorni successivi a quell’intimo, indimenticabile colloquio con sua madre.
Le lezioni all’università sono «tediosas y banales», le materie sono esposte in «grandes cuadros semplificadores». Al termine di quelle spiegazioni, «los obligados a remar en aquellas galeras, levantaban como un aleluya al llegar a las nuevas arenas de su liberación, y salían al patio».
Lì, nel cortile, gli studenti conversano a gruppi. Una mano si alza per richiamare l’attenzione di José. È Ricardo Fronesis. La loro amicizia è agli albori. Fronesis è attorniato da un capannello di giovani. José si avvicina. La lezione aveva fatto apparire Don Quijote come fine della scolastica, fine dell’Amadís, fine del romanzo cavalleresco, il cavaliere dalla triste figura è scheletro coperto da una celata di cartone, in mano un’arma di latta, che cavalca un asino perso nella pietrosa pianura…
«Me parece insensato opinar, como el vulgacho profesoral, que Cervantes comienza el Quijote con las conocidas frases, que lo hace por haber estado preso… En mi opinión Don Quijote es un Sinbad , que al carecer de circunstancia mágica se vuelve grotesco…» En la Cárcel Real, continua Fronesis, senza che si noti stanchezza in chi lo sta ascoltando, dopo un’ora abbondante di lezione, Cervantes si incontra con Mateo Alemán, che ha già scritto la prima parte di Guzmán de Alfarache. Dall’inizio, in questa opera, si allude a un ambiente carcerario, «escribe su vida desde las galeras, donde queda forzado al remo». Ragione di più perché Cervantes non cominciasse con la stessa allusione. Mentre Cervantes è intento a scrivere il Quijote, vicino a lui Mateo Alemán sta scrivendo la vita di un santo, Antonio da Padova, che lotta con il drago. Ed è una tontería da professori pensare che Cervantes volesse scrivere contro i libri di cavalleria. Non è un romanzo picaresco il suo, «lo que hace es un San Antonio de Padua grotesco, que ni siquiera conocen los bultos que lo tientan». Una mistura di Sinbad senza circostanze magiche e di Sant’Antonio da Padova senza tentazioni, che si svolge nel deserto castigliano…
È allora che Cemí prende al balzo il respiro di Fronesis per intromettersi, e «colocar su banderilla».
Ed ecco riprendere il discorso di Fronesis e portarlo oltre: un Sant’Antonio grottesco che è anche Sinbad: ecco il Quijote. Ecco il barocco.
Con tutta evidenza, e ai nostri occhi con piena ragione, per Cemí, e per Fronesis, e per Lezama, non servono gli schemi di accaniti professori, non serve lo spirito specioso di Menéndez y Pelayo, non servono i seminari tedeschi di filologia. Il barocco si nutre di incontri, il segno invisibile di una allegria non manifestata si legge comunque sui visi di coloro che conversando alimentano reciprocamente il pensiero creativo, la ricca oralità genera illuminazione reciproca. La stessa segreta consonanza lega, uno riprendendo il discorso dell’altro, Cemí e Fronesis, così come Cervantes e Mateo Alemán, Góngora e Villamediana, Góngora e l’Inca Garcilaso.
Góngora e Villamediana: come Don Luis conobbe il fascinoso e labirintico amico? Le vere relazioni tra i due sono velate dalla reticenza, «se desconocen o se silencian», sono misconsociute dai professori, nonostante le costanti allusioni di Quevedo, anzi: più che allusioni, eruzioni. Eppure, ci dice Cemí, che è Lezama, che ricchezza d’immagini: il desengaño e la temerarietà del Conte, la sua ironia feroce, il suo complesso edipico, le sue amanti, i pubblici scandali, gli esili, il lusso, le pietre preziose, i cavalli, le carte, il gioco, il fatalismo testimoniato dal mito ovidiano di Faetón, il clamoroso assassinio pubblico («Mataron al señor Villamediana. /Dúdase con cuál arma fuese muerto». Góngora, Octavas, III, datata 1622). Un linguaggio poetico essenzialmente culterano, quello di Villamediana, che però introduce cultismos nuovi, che vanno oltre lo stesso orizzonte di Góngora.
© Francesco Varanini. Tutti i diritti riservati.
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