Che cosa significa essere scrittori in Messico oggi? Pubblichiamo la seconda parte della conversazione tra i due autori messicani Antonio Ortuño – che avremo il piacere di pubblicare nel 2017 – e Julián Herbert. Il pezzo è tratto da Letras Libres, che ringraziamo. La prima parte è disponibile qui.
traduzione di Alice Piccone
[Leggi qui la prima parte della conversazione]
Riletture di letteratura messicana
Antonio Ortuño: Vorrei ritornare su García Ponce. Non è solo il fatto che dettasse i suoi testi ciò che ha «snaturato» la sua prosa, ma anche la necessità che aveva di ricorrere sempre a riferimenti diretti delle sue letture, a citazioni su citazioni che, sebbene coltissime (di scrittori tedeschi o austroungarici che a volte non leggeva più nessuno in Messico), rischiano di risultare molto pesanti. E la prosa dettata… È difficile scorrere con facilità le sue pagine, perché viene da dire «quando finirà questa frase? Quanto devo leggere ancora?» In altre parole, quello che dà fastidio è un certa aria di pedanteria: troppe citazioni, troppi passi di altri inseriti nel testo. Ad altri piacerà molto proprio per questo: anticipava alcuni postmoderni.
Julián Herbert: A me fa paura rileggere gli scrittori messicani, perché ho come la sensazione che poi li distruggerei. Nel caso specifico della letteratura messicana, ogni rilettura significherebbe una delusione. La lettura che si fa a diciassette anni della narrativa messicana è un’importante scoperta perché permette di comprendere le possibilità di questa lingua, di questo paese, di questa miriade di riferimenti; ma con il tempo si diventa lettori più critici. Fuentes, per esempio, mi ha deluso molto presto, perché già a diciassette anni ero un fedele lettore della sua opera. Dopo un paio d’anni di lettura vorace, quasi in ordine cronologico, dei suoi libri, ero giunto alla conclusione che fosse autore di un paio di titoli straordinari, ma anche di un’enorme quantità di pagine che la lingua spagnola poteva benissimo risparmiarsi. Di Fuentes riscatterei molti suoi racconti, che sono ancora molto efficaci, e, sebbene non si ala parte migliore della sua opera, anche l’ambizione con cui ha affrontato alcuni progetti. Terra nostra è stato un fiasco totale perché parte da un’ambizione delirante.
AO: Con Fuentes accade la stessa cosa che ha detto una volta Gide a proposito di Balzac: devi spostare tonnellate di paglia prima di trovare due o tre chicchi, ma se scrivi in francese senza aver letto Balzac, si nota. È sempre meglio leggere che vivere nell’ignoranza.
JH: C’è qualcosa che noi scrittori contemporanei non abbiamo riconosciuto a Carlos Fuentes: se noi oggi non siamo obbligati ad avere un’opera di tale portata, è perché nel nostro paese c’è già stato uno scrittore che ha realizzato un progetto monumentale, seppur con i suoi difetti, anche per liberarci da questa responsabilità.
La critica
AO: Adesso che abbiamo toccato il tema della lettura che «castiga» certi libri, mi piacerebbe affrontare anche il tema della critica letteraria in Messico. Mi sembra che l’idea di critica in questo paese sollevi molte questioni: prima di tutto, la confusione tra un pezzo critico e una recensione, come se la recensione delle novità sia il sottogenere di punta della critica letteraria. Mi piacerebbe leggere più testi che confrontino e definiscano più libri contemporaneamente, o cerchino di dare una visione temporale più ampia, o recensiscano più libri di uno stesso autore per cercare dei punti di contatto. Tutto questo praticamente non esiste nella nostra critica letteraria (da cui non escludo blog e social). Il secondo punto di conflitto è che per uno scrittore giovane è più facile pubblicare un articolo di critica che un suo racconto o romanzo, ed è sorprendente come, senza aver ancora dimostrato niente di niente – né delle sue letture né della sua scrittura –, la prima cosa che proponga nella sua vita sia una recensione devastante. È come fare irruzione in campo dalla panchina e rompere la tibia a un altro giocatore. È un’assurdità. Penso che un critico diventi migliore con il tempo perché legge di più, perché può vedere le cose in prospettiva. Oltre al fatto che non è mosso da un’immediatezza del tipo: «Visto che questa è la prima e probabilmente l’ultima cosa che dichiarerò al mondo, dico che qui ti rompo le tibie e da qui non ti rialzi».
JH: È complicato il modo in cui si è costruita, da entrambi i lati, la cultura critica in Messico. Da un lato c’è questo giovane critico letterario convinto di fare una scortesia al lettore se non distrugge quel determinato autore, ma dall’altro c’è anche un eccesso di sensibilità da parte dell’autore nei confronti della critica. Si ha l’impressione che dinanzi a un semplice commento, come «si poteva fare diversamente», l’autore pensi già che lo stiano maltrattando.
AO: È impossibile che non si instauri una relazione sentimentale tra l’autore e la sua opera, che non si abbia una specie di relazione filiale con quello che si è scritto, e poi, quando si vive di letteratura, ci si gioca la testa nel momento stesso in cui si è pubblicati. Tuttavia, riporto un esempio: richiama la mia attenzione il dibattito – secondo me falso – sul romanzo. Una quindicina di individui vogliono esaminare il romanzo al punto da farlo implodere e in modo che tutti noi, scrittori di romanzi, procediamo in fila come lemming verso il suicidio in mare, ma non si preoccupano di esaminare cose più immediate, come l’effettiva validità di certi «esperimenti» discutibili e pomposi. D’altra parte, si deve riconoscere che la recensione garbata, acritica, è uno dei mali del nostro tempo: quella che cita i risvolti del libro e dice dov’è in vendita, di che colore è la copertina, quanto costa, e dove non c’è spazio per la critica né per il giudizio; si tratta in questo caso di note informative e promozionali.
JH: Da sempre i poeti hanno dedicato molto tempo alla critica della poesia; direi che è una parte essenziale della poesia stessa. Quando leggi la critica che un poeta fa a un libro di poesia stai leggendo la critica di quel libro e del contesto della poesia messicana e mondiale. Cioè, non è una recensione a slegare il libro dal suo contesto. Ti racconto una cosa che mi succede con un critico che leggo da tempo: Geney Beltrán Félix. Tralasciando il fatto che io sia d’accordo o meno con le sue singole recensioni, la questione è che leggendo i suoi articoli di critica non capisco quale sia la sua visione generale della letteratura. Non dico che sia un suo dovere lasciarla intendere, ma penso a un personaggio come Emmanuel Carballo, con cui si può essere in disaccordo su moltissime cose, che quando scriveva una recensione costruiva anche una panoramica della letteratura messicana. Quello che adesso sta accadendo alla critica di narrativa è che non si capisce fin dove si spinge questo sguardo. Se sei un critico letterario e l’elemento che hai per esprimerti è la recensione, dovresti utilizzarla per costruire il tuo punto di vista e non farti annientare dalla recensione in quanto tale.
AO: Faccio un altro esempio, il caso di Ignacio Sánchez Prado. Lui, in veste di accademico messicano all’estero, ha la possibilità di porsi ai margini dei dibattiti sul nazionalismo, forse perché non teme di non guadagnare più se qualcuno si dovesse offendere… È interessante perché ha una visione più ampia della recensione. Non è l’unico, chiaramente, ma è un caso particolare.
JH: Una cosa mi interessa particolarmente di Sánchez Prado: il fatto che prova a mettere in relazione lo studio accademico con il giornalismo culturale. A volte sembra che l’ambito del giornalismo culturale stia da una parte e quello dell’accademia dall’altra, e che non si sia dialogo trai due ambiti. Credo che Sánchez Prado provi a creare un legame tra le due prospettive, e non tutti lo fanno. Credo anche che, nell’ambito dell’accademia, ci sia un’altra voce che adesso si sta costruendo uno spazio proprio: Roberto Cruz Arzabal, che si occupa di letteratura e arte concettuale, ma anche di uscire dal circolo dell’accademia. Quest’anno al Congreso de Literatura di El Paso, ci sono stati nove interventi dedicati ai miei libri. Sarei curioso di leggerli, ma non l’ho ancora fatto perché non si trovano da nessuna parte. Questo mi fa pensare alla dimensione reale di questo tipo di critica, perché è molto lusinghiero sapere che sono stati scritti nove interventi sulla propria opera, ma dove sono? Qual è il peso culturale specifico di questi studi? Quindi, se parliamo di critica accademica, è molto più importante porsi il problema della disponibilità di questi testi che gli studiosi accademici hanno dedicato a uno qualsiasi tra noi o a un qualsiasi autore.
AO: Nella letteratura messicana sono diffuse sicuramente anche delle fobie gratuite: da una parte la fobia del giornalismo e l’altra la fobia dell’accademia. Entrambi, va ricordato, sono rifugi in cui si ripara lo scrittore per sopravvivere. È curioso come alcuni autori, penso a Cristina Rivera Garza, scrivano tendendo un piede nell’accademia. Allo stesso modo in cui io ho scritto letteratura tenendo un piede nel giornalismo – e senza rinnegare il giornalismo, nemmeno per le sue mancanze –, credo che gli scrittori che sono anche accademici non vogliano corrispondere al luogo comune del maestrino che recita conferenze a pappagallo. Alla fine si deve capire che, oltre ai disaccordi personali, la critica è importante e necessaria. I dibattiti che si possono instaurare con i critici, indipendentemente dalle fissazioni o dalle fobie, sono fondamentali perché obbligano a pensare il motivo per cui noi scrittori prendiamo queste o quelle decisioni estetiche e perfino queste o quelle decisioni personali; obbligano addirittura a riconsiderare il proprio sviluppo sociale e politico. E questo secondo me è fondamentale: avere la possibilità di confrontarsi con il pensiero di qualcun altro e razionalizzare al massimo una posizione estetica e anche pubblica. La teoria letteraria non è solo un manuale o una precettistica da salotto. Penso che questo dibattito sia implicito nella creazione e gli scrittori dovrebbero riconoscerne l’importanza e non vedere il critico letterario come un rivale senza meriti e con nulla da dire. In questo senso mi sembrerebbe sano che fossero di più gli scrittori di narrativa che si cimentano con la critica.
JH: Credo che la mancanza di scrittori che scrivono anche di critica letteraria non sia assolutamente un problema di strumenti teorici. Conosco scrittori molto intuitivi che possono arrivare a certe soluzioni formali, ma la maggior parte dispone degli strumenti per fare critica. Se te ne intendi di narratologia, ti rendi anche un po’ conto di dove va a parare un romanzo. Credo che la parte più complicata per lo scrittore – che non sempre è così marcata come nel poeta – sia la questione delle pubbliche relazioni. Nell’ambito della poesia, litigare è in voga, mentre in quello della narrativa, no. Mi sembra che la cosa più difficile per gli scrittori di narrativa, quando si trovano a scrivere un pezzo di critica su un’opera analoga alla loro, è che ciò implica inevitabilmente dei confronti. Noi autori messicani siamo molto rispettosi e spesso non ci facciamo delle critiche a vicenda. E posso capirlo, nessuno vuole fare il guastafeste. Ti trovi alla Feria internacional del Libro di Guadalajara ed è tutto bellissimo; siamo tutti grandi scrittori quando ci beviamo una birra insieme alla Feria del Libro, ma è necessario trascendere questa condizione, per fare il passo avanti che deve fare ogni narrativa che si consideri matura. Quella messicana è una narrativa dai libri seri, ma quali sono le domande sul contesto e chi fa queste domande? Dove collochi, per esempio, un romanzo come Morte improvvisa di Álvaro Enrigue? Siamo entrambi d’accordo sul fatto che si tratti di un romanzo importante, ma dove lo posizioni rispetto a Nessuno mi vedrà piangere o al resto dell’opera di Cristina Rivera Garza? Come lo metti in relazione con Jorge Volpi?
AO: Morte improvvisa è una lettura scettica di alcuni personaggi storici e tradizioni straniere, ma che alla fine tende al Messico, eccetera. Così, raccontato, potrebbe sembrare un romanzo della Generación del crack; ma se lo leggi, ti rendi conto che non lo è: è un esercizio di virtuosismo, un assolo di chitarra di trecento pagine.
JH: La stessa cosa accade con La città che il diavolo si portò via, di David Toscana. Raccontato è un romanzo del Crack, ma letto è un romanzo con idee completamente diverse. Ma torniamo alla domanda: dove collocare questo libro? Credo che siano questi i problemi che dobbiamo iniziare a sollevare. Forse il miglior modo di approcciarsi a una conversazione come questa sarebbe sederci a un tavolo, in quattro o cinque autori, a parlare dei nostri libri, dei libri dei nostri colleghi e di quanto brillante sia l’epilogo di questo o quel romanzo, ma anche di come si relazionino questi libri con il contesto in cui sono stati scritti. Solitamente le recensioni si occupano delle novità, e questo è un bene, perché ti danno una visione generale di quello che succede in questo momento. Ma può accadere che due anni fa tu abbia trascurato un romanzo che adesso si guadagna un’altra lettura con la pubblicazione di un nuovo libro. Credo che sarebbe un gran cosa fare queste letture complementari sulle riviste.
AO: Non mi interessa definire un canone. Ma so che, oltre agli autori già menzionati, mi interessa anche ciò che scrivono, tra gli altri, Herrera, Miklos, Velázquez, Nettel, Melchor, Monge, Espartaco, Nicolás Cabral. C’è una gran quantità di voci importanti in gioco, ci sono testi di spessore, ci sono idee. E gli studiosi discuteranno di quello di cui siamo stati – o non siamo stati – capaci di fare.
Julián Herbert (Acapulco, 1971) è poeta e scrittore di narrativa. Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesia Pastilla camaleón (Bonobos) e nel 2011 il romanzo Ballata per mia madre (gran vía).
Antonio Ortuño (Guadalajara, 1976) è scrittore di narrativa. Tra i suoi ultimi romanzi, La fila india (2013), di prossima pubblicazione per SUR, e Méjico (2015).
© Julián Herbert, Antonio Ortuño, 2014. Tutti i diritti riservati.
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