Cresce l’interesse dell’editoria italiana per le nuove voci della letteratura argentina. Per l’editrice romana Caravan esce «Opendoor», opera prima dello scrittore argentino Iosi Havilio. Ce ne parla il suo traduttore, Vincenzo Barca, in un post scritto espressamente per il blog.
di Vincenzo Barca
Si fa tardi e non ci sono emozioni che ci mantengano svegli. Mi chiedo fin dove cammineremo. Saranno ormai le due passate, non si sente un’anima. L’alba in campagna può spaventare chiunque.
La protagonista – e voce narrante – di Opendoor, il romanzo d’esordio del giovane argentino Iosi Havilio, compare «in medias res» senza la minima dotazione di identità di un personaggio, per quanto negoziata nel patto con il lettore. Non ha nome, luogo d’origine, famiglia di appartenenza. Sappiamo che ha studiato veterinaria e che lavora, con scarso entusiasmo, in un negozio di animali. Da poco tempo ha conosciuto una ragazza che invece un nome ce l’ha (Aída) e, apparentemente, una vita movimentata da impegni. Si è trasferita a casa di lei, per una scelta quasi casuale, in cui il sesso è più una forma di vicinanza e di conforto. Senonché (ed è questo l’evento che dovrebbe, almeno in teoria, far virare il racconto) Aída scompare e, contemporaneamente, la nostra protagonista assiste al suicidio di una persona che si getta nel fiume dal ponte de La Boca (una donna? giovane? Aída?).
Cose che accadono nella città di Buenos Aires, in un tempo che assomiglia al nostro. A un centinaio di chilometri, in campagna, un cavallo morente e il suo laconico padrone attirano la ragazza in un posto senza tempo, dove la noia, se uno ci si abbandona, può quasi confondersi con un sentimento di pace. In questo paesino, l’Opendoor del titolo, la ragazza finisce per fermarsi, in uno stato di sospensione tra una relazione svogliata con il ruvido buttero cinquantenne e una serie di roventi incontri sessuali con una adolescente disinibita. Opendoor è però anche l’eponimo di una colonia psichiatrica (intorno alla quale il paese è sorto), fondata sul finire dell’Ottocento dall’illuminato psichiatra argentino Domingo Cabred (1859-1929) e ispirata ai principi della cura dei folli attraverso il lavoro. A questa vicenda (vera) l’indolente protagonista sembra appassionarsi: ne studia le fonti storiche, conosce gli stralunati abitanti della colonia, che cominciano a occupare le sue fantasie. Tra una puntata e l’altra all’obitorio giudiziario di Buenos Aires, dove un commissario goffamente innamorato di lei la convoca di tanto in tanto a riconoscere cadaveri che, di solito, non sono quello giusto, c’è modo di scorrazzare in moto per bar di paese non dissimili da quelli di città, di ubriacarsi e farsi di droghe varie (ketamina, preferibilmente), di partecipare a sedute spiritiche improvvisate, di vedere apparire ufo che poi si rivelano set di pubblicità pacchiane. C’è modo persino di restare incinta e di avere un figlio, perché no? Tutto vissuto con un fondo di apatia che non arriva a essere smarrimento, ma un’adesione parziale tanto alla realtà quanto alle fantasie, una precarietà che non diventa un programma, una sollecitazione dei sensi con parossismi (orgasmi, vomiti) che si alternano a lunghe pause di sonno ed estenuazione.
Gli adulti, quella strana specie di individui più o meno equilibrati e convinti, a proprio agio nella loro pelle e nel loro ruolo, sembrano esiliati da questo paesaggio. È come se il sottotesto del romanzo fosse una lettera che ci giunge da un mondo compresente e tuttavia parallelo – forse il mondo irrisolto di tanti giovani che, a ogni latitudine, trovano sbarrato l’accesso a ogni forma di garanzia o forse, in una visione ancora più dilatata, l’inquietudine globale dei nostri tempi, su cui aleggia un’aura di follia, né allegra, né triste. Sopravvivenze emotive, rimanenze di desiderio, toni smorzati sull’orlo del non-si-sa-che.
Vincenzo Barca ci segnala anche due recenti recensioni comparse su «The Indipendent» e su «The Economist»:
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