Dopo la Fiera del libro di Guadalajara, uno sguardo all’attività degli autori e delle case editrici nella regione mostra una vasta gamma di opzioni estetiche e tematiche senza un progetto letterario comune.
L’articolo è comparso originariamente su La Nación e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della rivista.
di Edgardo Scott
traduzione di Chiara Gualandrini
Guadalajara. Per prima cosa ciò che tutti sanno, ciò che si è sempre detto, l’assertivo, l’inesatto, la rappresentazione: che la Fiera del libro di Guadalajara è la fiera più grande e più importante della regione. Quale regione? L’America Latina, anche se per varie ragioni naturalmente sia il Brasile sia la Spagna vengono inseriti. Questo grande evento, quindi, quest’enorme fiera del libro ha festeggiato in questi giorni i suoi trent’anni. E ha deciso, in parte a ragion veduta e in parte perché era inevitabile, che l’invitato o invitata d’onore del programma non fosse un paese specifico ma l’America Latina stessa. Vale a dire che gli autori, i libri e gli stand (2000 case editrici, 650 autori) vengono considerati come ambasciatori di questo vasto territorio, di questa letteratura e di questa idea o rappresentazione immaginaria, tra l’altro abbastanza confusa ed elusiva, anacronistica e forse indifferente.
Non sembra che la morte di Fidel Castro, avvenuta durante l’inaugurazione, abbia cambiato qualcosa o che abbia scatenato qualche discorso o intervento (di fatto e come contraltare, è stata quasi uno scherzo della storia che lo scrittore premiato e incaricato di inaugurare la sezione dedicata all’America Latina quel giorno fosse Vargas Llosa). Ma anche questo azzardo si rivela una prova del fatto che le rappresentazioni politiche e ideologiche per gli scrittori di questa regione si trovino ad anni luce dalla ricerca, perfino dalla discussione o dalla polemica, di un progetto politico comune ai diversi paesi che compongono la regione.
Oggi la rappresentazione letteraria dell’America Latina sembra a malapena trovare il suo anemico fondamento nell’idioma. Non nella lingua, nemmeno nel linguaggio. Così, priva di una discussione o di un conflitto politico comune, alla FIL 2016 si è percepito che l’America Latina – o ciò che a volte viene denominato e compreso e studiato come America Latina – è una regione del pianeta dove si scrive fiction, con leggere differenze accessibili al castigliano, e si ricreano problemi endemici, sempre vagamente folcloristici e perfino pittoreschi: la povertà ammessa e consensuale, la violenza come dinamica sia dei criminali sia della polizia, lo stretto legame tra potere e corruzione, ma anche la progressiva e a quanto pare irreversibile acquisizione e adattamento delle caratteristiche tipiche della cultura statunitense.
Gli scrittori latinoamericani saranno allora latinoamericani, o almeno verranno visti in questo modo, otterranno quel passaporto se non per loro stessi almeno per uno sguardo o una catalogazione esterna. E partendo da questa attribuzione, si proporrà un’agenda, una lista di «temi» che saranno auspicabili per la scrittura di fiction in ogni paese. Narcotraffico, miseria, assassinii e ora più che mai il femminicidio. E da questo enunciato, da questa posizione ci si porrà domande strutturali.
Due sponde
«Ho l’impressione – dice Eduardo Rabasa, scrittore messicano e editore di Sexto Piso – che tanto a livello letterario quanto editoriale ci siano due grandi movimenti piuttosto diversi (che ovviamente talvolta si incrociano o si crea un collegamento fra l’uno e l’altro). Da una parte c’è la presenza opprimente dei grandi gruppi editoriali, fortemente incentrati nella promozione dei grandi nomi già consacrati attraverso fiere, festival, interviste, premiazioni, e tutto ciò che in generale potremmo definire come una macchinosa inclinazione alla quantità e all’omogeneità (di nuovo, con notevoli eccezioni). Dall’altra, c’è un panorama vibrante ricco di case editrici indipendenti come Eterna Cadencia, Godot, Caja Negra, Hueders, la Diego Portales, Sexto Piso, Almadía, Tumbona e molte altre, dove curiosamente si pubblicano, tra l’altro, libri più lontani dalle usanze stilistiche, narrative e tematiche del canone dominante».
Rabasa vede in queste case editrici, «forse in parte per necessità, ma anche per convinzione, una chiara vocazione a provare ad arrivare ai lettori tramite vie alternative. È molto difficile penetrare in larga scala gli spazi mediatici, che in linea di massima vengono coperti da quello che possiamo pensare come una sorta di establishment del mondo dei libri, che secondo me si mostra particolarmente verticale, snob, e davvero implacabile al momento di mettere in pratica i meccanismi che assicurano che le cose continuino ad essere identiche».
Per quanto possa essere scomoda o eccessivamente categorica la diagnosi o il punto di vista di Rabasa, questo non la priva di acume e verità. Il settore editoriale si trova oggi scisso e in tensione fra quelli che vengono definiti «grandi gruppi» e quelle che vengono chiamate «case editrici indipendenti».
Questa realtà si riscontra in tutta la regione. Non a caso, durante questa edizione della Fiera, Víctor Malumían e Hernán Lopez Winne, editori argentini del marchio Godot, hanno presentato ¿Independientes de qué?, un libro in cui rilevano ed elencano le esperienze di decine di editori indipendenti latinoamericani che hanno fondato le loro case editrici all’inizio del nuovo secolo. La convivenza, tesa o meno, tra case editrici indipendenti e «grandi» case editrici in verità riporta alla scena letteraria non solo, o non tanto, politiche o estetiche differenti ma una riflessione su quanto incidono le dinamiche nazionali, le tipicità di un paese o la somiglianza e le strategie internazionali. Le grandi case editrici sono società che hanno sede in diversi stati della regione, mentre le indipendenti sono solite a nascere e svilupparsi soprattutto nel paese d’origine, cercando al contempo una proiezione internazionale.
Una delle autrici invitate, l’argentina Ariana Harwicz, spiega che «più che guardare all’idea di letteratura latinoamericana o un’idea comune in termini estetici, ciò che percepisco sono alcune linee politiche e di intervento comune. Per esempio il movimento #NiUnaMenos e il suo rapporto con il femminismo; anche se non so come questo riecheggi negli scrittori uomini. D’altra parte è ancora presente l’immaginario del boom latinoamericano, che continua a essere un riferimento, un orizzonte di lettura per i lettori europei, quando c’è stata o sembrava esserci un’unione, un’utopia, un progetto letterario e al tempo stesso politico».
Dal suo canto, il paraguayano José Pérez Reyes osserva questo panorama con un certo ottimismo: «È una grande mostra d’insieme di fiction, in cui la frammentarietà e la confusione generano buona letteratura. Questo si può confermare sia nelle diverse antologie sia in qualunque conversazione alla FIL; c’è diversità e vitalità nella regione», dice.
Il «non boom»
Per festeggiare, o per la ricorrenza dei suoi trent’anni, la FIL ha organizzato tavole rotonde su due grandi temi che abbiamo anticipato: «Viva América Latina» e «Ochenteros». Gli «Ochenteros», ovviamente, sono autori nati negli anni Ottanta. Nel programma della FIL si legge:«Scrittori senza etichetta, né nipoti del boom, né del postboom, né discepoli del crack, diremo semplicemente che sono giovani che sperimentano, che osano, che sono attenti alla drammatica realtà del loro paese, voci alla scoperta della nuova letteratura latinoamericana».
Quindi non solo la denominazione ma anche le ragioni che raggruppano autori che vanno da Carlos Fonseca a Mauro Libertella, da Paulina Flores a Camila Fabbri o Arnoldo Gálvez, si affermano per sottrazione, si manifestano con un sentimento straniante dal punto di vista storico. Così, ciò che potrebbe o meno segnare una generazione, i suoi limiti, le sue condizioni di esistenza e visibilità, diventa un vuoto dato generazionale non troppo diverso nell’intenzione e nell’espressività da una compilation o dalle hit musicali che le radio raggruppano in base ai decenni.
E al di fuori della FIL? Lo struttura espositiva si trova di fronte all’Hilton e altre catene alberghiere internazionali. L’incrocio fra i viali, specialmente la sera, mostra uno dei problemi tipici di qualsiasi città latinoamericana contemporanea: un traffico irritato, violento e pericoloso. Non bastano né i semafori né la polizia a cercare di dargli un senso. A sua volta per entrare alla FIL, oltre a pagare il biglietto d’ingresso, si deve passare un controllo fatto da guardie identiche a quelle di un qualsiasi aeroporto. Infine se si cammina un paio di isolati, allontanandosi dallo stabile, oltre i locali che vendono cibo da strada così tipici e importanti in Messico, ci sono un grande magazzino e un quartiere residenziale, dove praticamente ogni lato delle case è corredato da recinzioni elettrificate e filo spinato.
Guadalajara è nello stato di Jalisco, l’arida regione dove è nato Juan Rulfo. Di fatto la rivista della sua università si chiama Luvina, come il racconto mitologico, quell’indimenticabile città fantasma da cui non si torna. La FIL ha compiuto trent’anni. Trent’anni che ci obbligano a ricordare nuovamente che i numeri tondi e le ricorrenze non bastano a definire un evento e che le ricorrenze, oltre a essere celebrate, dovrebbero sempre essere occasioni di indagine, lettura e analisi alla luce imprescindibile della storia.
© Edgardo Scott, 2016. Tutti i diritti riservati.
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