Purgatorio di Tomás Eloy Martínez è in libreria: una storia d’amore, sparizione, dittatura. Una storia sulla Storia. Ne pubblichiamo oggi un estratto: la traduzione è di Francesca Lazzarato.
Arrivarono all’aeroporto poco prima del volo delle quattro. La madre convinse Emilia che Simón la stava aspettando a Buenos Aires, non poteva essere altrimenti. Perché non risponde al telefono, allora?, chiese Emilia, che chiamava San Telmo ogni quarto d’ora. Magari sta tornando in autobus, rispose la madre. Il viaggio dura venti ore, arriverà domani mattina. Senza lasciarmi un biglietto, senza chiedere di me? Non è da lui, disse Emilia. La paura cambia le persone, figlia mia, osservò il padre. Se ha paura, adesso sarà in fuga da tutto, anche da sé stesso. Mentre si imbarcavano, Emilia si rese conto che non c’era un quarto biglietto. Le sembrò che fosse meglio non dire niente, e trascorse le due ore successive guardando le nuvole dal finestrino.
Anni dopo, quando Simón continuava a non ricomparire, lesse sulla rivista Gente che i mariti argentini hanno l’abitudine di andarsene all’improvviso, senza dare spiegazioni. Soffrono della sindrome di Wakefield, spiegava uno psicanalista, alludendo al racconto di Nathaniel Hawthorne in cui un brav’uomo londinese un giorno lascia la moglie senza motivo e si trasferisce in una casa dell’isolato accanto, da dove osserva la vita familiare finché non diventa vecchio. Emilia aveva sempre saputo che Simón non era un tipo del genere. Sarebbe tornato appena poteva.
A quei tempi le persone sparivano a migliaia, senza ragione apparente. Sparivano ambasciatori, amanti di capitani e ammiragli, proprietari di imprese che facevano gola ai generali. Sparivano operai all’uscita dalla fabbrica, contadini che lasciavano i trattori col motore acceso, morti che erano stati sepolti il giorno prima e le cui tombe venivano trovate vuote. Sparivano bambini dal ventre delle madri e sparivano madri dalla memoria dei figli. Alcuni ammalati che arrivavano in ospedale a mezzanotte, la mattina dopo non c’erano più. Capitava spesso che dai supermercati uscissero donne disperate, in cerca dei figli perduti tra i buchi neri degli scaffali. Alcuni, pochi, sarebbero riapparsi molti anni dopo, ma non erano gli stessi. Avevano altri nomi, altri genitori, e una storia che non era più la loro. E non sparivano solo le persone: fiumi, laghi, stazioni ferroviarie, città mezzo costruite svanivano nell’aria come se non fossero mai esistiti. Il saccheggio di quello che non c’era più e di quello che avrebbe potuto esserci non aveva mai fine.
In un’intervista concessa a dei corrispondenti giapponesi, l’Anguilla dovette rispondere in merito all’epidemiadi sparizioni. «Prima bisognerebbe verificare se quello che secondo voi è esistito, si trovava proprio là dove dite. La realtà può essere ingannevole. Molta gente fa di tutto per farsi notare, e scompare solo per non essere dimenticata». Emilia lo vide alla televisione, mentre scandiva le sillabe muovendo su e giù la testa simile a un teschio luccicante.
Un desaparecido è un’incognita, non ha identità, non è né vivo né morto, non c’è. È un desaparecido. E dicendo «non c’è» alzava gli occhi al cielo.
Non ripetete mai più questa parola, continuò. Non ha fondamento. Pubblicarla è proibito. Che scompaia e venga dimenticata.
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