Pubblichiamo un saggio di Ben Gabriel sul maestro del cinema horror Wes Craven. Il saggio è apparso per la prima volta sul New Inquiry; ringraziamo l’autore.
di Ben Gabriel
traduzione di Sara Sedehi
I critici affermeranno, senza ombra d’ironia, che per infrangere le regole bisogna prima conoscerle. Questa regola è solo un modo carino per dire che la sperimentazione dovrebbe essere riservata a chi possiede la padronanza tecnica di un determinato mezzo. Questo è un buon consiglio per i giovani artisti, ma prima di tutto è un metodo di filtraggio. Le cosiddette «regole», infatti, stabiliscono e salvaguardano il canone critico e i suoi interessi consolidati. Se un artista le rispetta, e possiede una buona dose di competenza tecnica nonché una certa visibilità, finirà con l’ottenere una serie di valutazioni critiche sulle opere che ha prodotto. Segui la regola sul come s’infrangono le regole e potrai ritagliarti uno spazio (sia pure piccolo e passeggero) all’interno del dibattito; infrangila e, nel migliore dei casi, verrai considerato un artista «fuori dagli schemi» ed elevato a feticcio da una piccola nicchia, altrimenti verrai bellamente ignorato da tutti.
Wes Craven ha seguito questa regola per tutta la sua carriera, a partire dal film d’esordio L’ultima casa a sinistra e fino all’ultima pellicola di cui ha firmato anche la sceneggiatura, Il cacciatore di anime, uscita quando quelle regole erano già cambiate da un pezzo. Del resto era stato lui a cambiarle. Malgrado ciò, si ha l’impressione che Craven, diversamente dai contemporanei Carpenter, Cronenberg, De Palma e Hooper, non sia mai riuscito a garantirsi lo status di regista canonico. I suoi contributi sono troppo disomogenei per aderire a un’unica forma narrativa, e la sua carriera troppo clamorosamente altalenante per ricondurre il regista a uno stile specifico (come Dario Argento per il giallo). Craven ha diretto due tra i più straordinari film di exploitation degli anni Settanta, creato uno degli slasher movies più iconici degli Ottanta, e negli anni Novanta ha ridefinito completamente il rapporto tra il genere horror e il suo pubblico. E non ha mai smesso di seguire quella regola, giungendo infine a smascherarne tutta la ridicolaggine. Per come la vedo io, già solo per questo dovrebbe meritarsi il suo bel posto a tavola.
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I primi due film di Craven, L’ultima casa a sinistra (una coppia di coniugi che si vendica sugli assassini della figlia; la pellicola contiene la famosa scena di una donna che stacca a morsi il pene di un uomo) e Le colline hanno gli occhi (una famiglia sperduta nel deserto che si scontra con una comunità di cannibali), non solo hanno sancito quello che sarebbe stato l’interesse primario del regista, cioè la violenza dentro la famiglia e contro la famiglia (con la figura della casa come metonimia), ma hanno anche prefigurato il secondo ruolo che Craven avrebbe interpretato nel corso della sua intera carriera: quello del gentrificatore.
L’ultima casa a sinistra, ottimo adattamento in salsa exploitation della Fontana della vergine di Ingmar Bergman, è uscito nel 1972, inserendosi a pieno titolo in un genere che era sempre stato considerato «non bianco». La Blaxploitation, consolidatasi solo l’anno precedente, raccoglieva il testimone dei progenitori, prevalentemente italiani, dell’exploitation. Quello degli spaghetti western e dei Mondo movies, infatti, non sarà stato un territorio molto battuto dai registi di colore, ma di certo non era nemmeno una prerogativa dei registi bianchi americani. Il successo del film di Craven però è stato la prova tangibile che, se il terreno circostante era fertile, allora anche in America era possibile fare soldi così.
Il remake di Bergman aveva aperto una strada, ma non erano molti i registi (inclusi gli europei) per i quali questo tipo di operazione rappresentasse una strategia avversa al rischio. Ci è voluto Le colline hanno gli occhi (1977) per portare il giovane regista all’attenzione del grande pubblico. Gli aspetti tecnici del film erano più curati e le scene d’impatto (in particolare l’esplosione del camper nelle scene finali) molto più riuscite. Ma la vera innovazione di quel film era un’altra: era facilmente riproducibile. Le colline hanno gli occhi aveva uno scenario generico, dei mostri stereotipati e una struttura filmica elementare, per cui bastava sostituire un singolo elemento per realizzare nuovi sequel o semplici remake. Le colline hanno gli occhi II (1985), per la regia dello stesso Craven (che vi lavorò sotto coercizione), ne è un esempio calzante; una cospicua parte della pellicola è costituita da materiale di riciclo del primo film, e anche le scene restanti potrebbero tranquillamente esserlo.
Benedizione mortale, il film che seguì Le colline hanno gli occhi, è la dimostrazione di come Craven seguisse le regole prima di infrangerle. Uscito nel 1981, Benedizione mortale è uno slasher incentrato su un culto religioso tecnofobico. Ben recitato, in grado di produrre tensione nelle dosi e nei momenti giusti, e con una giovanissima Sharon Stone nel cast, Benedizione mortale rimane però un lavoro minore nel corpus filmico del regista. Il mostro della palude, l’altro suo film degno di menzione risalente a quegli anni, è invece un gran pasticcio. Primo di una sorta di trilogia ombra (le pellicole non horror firmate da Craven), Il mostro della palude è così gonfio di sentimentalismi e così smanioso di raccontare una storia commovente che alla fine risulta privo di qualsiasi senso cinematografico.
La seconda di queste pellicole non horror, Dovevi essere morta (1986), è più interessante, non da ultimo perché le aspettative che Craven riponeva nel film naufragarono in seguito alle ingerenze degli studios: la sua idea di girare una commedia romantica con due adolescenti e un amico robot si perde un po’ a vantaggio delle scene horror, ben più memorabili (la testa di una donna che esplode all’impatto con una palla da basket o la sequenza onirica a tinte splatter). Tali ingerenze rendono il film molto più interessante perché gli conferiscono un velo di surrealismo ed enfatizzano le tematiche famigliari già viste nei precedenti film di exploitation di Craven come non sarebbe mai più successo. La giovanissima Samantha, uccisa per sbaglio dal padre violento, viene riportata in vita e trasformata in robot da un ragazzo del college con cui si era baciata una volta, e si mette a cercare vendetta. Uccisa dalla violenza intrinseca della famiglia e risorta in nome di quella stessa violenza che ne fonda le basi, Samantha diventa a sua volta agente di violenza nei confronti della famiglia. L’aggiunta tardiva di buona parte dell’ultima sezione del film risulta davvero evidente, ma la maestria di Craven nel dare forma all’orrore fa sì che la scena in cui la rediviva Samantha trascina suo padre in cantina e infierisce ripetutamente su di lui sia la più sconcertante di tutta la sua filmografia. Difatti, la figura di Samantha è la dimostrazione che, nel film di Craven, per quanto il regista si sforzi di sfumare il concetto mescolandolo ad altre tematiche più generali, la violenza non è semplicemente associata alla famiglia: le due cose semplicemente coincidono.
Il film che avrebbe definito gli anni Ottanta di Craven è stato, ovviamente, Nightmare – Dal profondo della notte (1984), che ci ha fatto conoscere uno dei mostri cinematografici più famosi dai tempi della Hammer: Freddy Krueger. La concezione del personaggio di Krueger, con gli artigli e il logoro maglione a righe, era una bomba, ma ciò che lo rendeva davvero unico era il volto sfigurato. Fino a quel momento, tutti i mostri più iconici degli slasher (Leatherface di Non aprite quella porta, Michael Myers di Halloween – La notte delle streghe e Jason di Venerdì 13, saga che in quegli anni era giunta al terzo capitolo) avevano sempre indossato una maschera. Krueger, invece, mostrava il suo vero volto. Il personaggio di Myers rappresentava una minaccia decisamente materiale – con tanto di storia delle sue origini e approfondimento psicologico – e la sua maschera avrebbe permesso al regista di concedersi l’improvviso lampo sovrannaturale che chiude Halloween. L’intera esistenza di Jason nel primo episodio di Venerdì 13 era relegata a quello stesso lampo finale. Krueger però, diversamente da Myers e Jason, non viveva in un limbo sospeso tra il materiale e il sovrannaturale. Lui non aveva bisogno di maschere. Krueger era sovrannaturale e basta, era un fantasma che viveva nei sogni di una città colpevole; solo gli effetti delle sue azioni erano materiali. Il suo scopo era fare di tutto per non nascondersi. La sua era la storia di un uomo morto che rifiutava di passare inosservato.
La rinuncia all’antagonista mascherato a favore di un personaggio che rivendicava di essere guardato in faccia provocò una profonda trasformazione nello slasher. Dopo il successo di Nightmare, un genere che abbondava di oggetti scenici dozzinali e spazi vuoti studiati a tavolino, all’improvviso iniziò a richiedere interi dipartimenti dedicati al trucco e agli effetti speciali.
Nell’economia del film, il racconto dell’antefatto di Krueger – un maniaco pedofilo che sfugge alla giustizia ma viene bruciato vivo da un gruppo di madri – risulta quasi del tutto superfluo. Il modo in cui viene ritratto il mostro (in particolar modo la sua irriverenza) insieme all’immagine delle bambine che cantano e saltano la corda, bastano già a suggerire l’idea di un personaggio completamente sviluppato; è difficile considerare la spiegazione del perché Krueger sia diventato quello che è come qualcosa di più di un semplice riempitivo. Dal punto di vista della filmografia di Craven, tuttavia, il racconto di quell’antefatto acquista un senso. Krueger non è solo una minaccia esistenziale per un gruppo di adolescenti, lui è sia una vittima simbolica sia l’esecutore materiale della violenza della famiglia. Il suo volto presenta i segni delle ustioni: i segni della violenza perpetrata dalla sineddoche della famiglia, come forma di castigo attuato nei confronti di una violenza perpetrata ai danni della famiglia stessa.
In altre parole, a guardare le cose attraverso la lente di Dovevi essere morta, il volto di Krueger non è niente di meno che una raffigurazione della famiglia stessa. Il suo habitat viene immaginato come un ventre molle della società industriale, brulicante di tubature e dai colori freddi. Tuttavia, i suoi omicidi più elaborati (specialmente quello di un giovanissimo Johnny Deep) si consumano tutti all’interno di quell’altra raffigurazione della famiglia e della violenza alla quale Craven aveva fatto ritorno: la casa.
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Se è vero che l’interesse di Craven nei confronti delle dinamiche famigliari non è mai stato più manifesto che in Dovevi essere morta, è anche vero che nella Casa nera, del 1991, il regista ha trasportato l’immagine della casa, di cui si era sempre servito per conferire una forma visiva a queste dinamiche, su un livello nuovo.
A ben guardare però, la raffigurazione più folgorante del concetto di «casa» nella filmografia di Craven è quella di un veicolo in panne. Nelle Colline hanno gli occhi un’automobile si guasta all’improvviso e lascia un’intera famiglia a piedi in una landa desolata, in balia di una comunità di cannibali. Questa vettura inaffidabile costituirà la casa-base della famiglia per l’intera durata del film. Spingendo con uno stratagemma i mutanti a entrare in macchina e usando una serie di trappole esplosive per farla saltare in aria, i sopravvissuti sigleranno da una parte la loro salvezza, e dall’altra la loro condanna definitiva. Rimarranno ancora bloccati lì, ma da quel momento in poi non avranno nemmeno più un rifugio. Sequenze di questo tipo, in cui i nemici vengono spinti con uno stratagemma a entrare in una casa disseminata di trappole esplosive, sono diventate un motivo ricorrente nella filmografia di Craven. Nella stragrande maggioranza dei suoi film il culmine della tensione si raggiunge nella scena dell’inseguimento tra le mura domestiche, che ha finito col diventare la cifra stilistica del regista. La casa per Craven non è soltanto un setting: è un personaggio progettato per rispondere agli attacchi.
Cinque anni fa osservavo che nelle scene d’inseguimento di Craven «gli interni domestici diventano un’interiorità, mentre le trappole esplosive diventano un modo consapevole per lasciar interagire/modellare le traiettorie degli oggetti (umani) nonché le reazioni implacabili agli stimoli sensoriali». In altre parole, la casa come personaggio prende vita attraverso questi inseguimenti, «il che determina, dal punto di vista strutturale del film, l’oggettivazione di tutti i partecipanti, finalizzata al fare spazio alla tensione generata dalle connessioni tra l’interiorità e il paesaggio circostante». Un casa che risponde agli attacchi è, quindi, una casa che pensa, ma soprattutto dev’essere un luogo di violenza (patriarcale). La casa è una raffigurazione della famiglia; la famiglia è violenza. Per Craven, la casa è l’oggettivazione della violenza, che reagisce ai suoi stessi attacchi trasformandosi a sua volta in un’arma.
Se è vero che l’inseguimento tra le mura domestiche rappresenta il tipico climax ascendente di Craven, allora La casa nera, almeno dal punto di vista strutturale, è un climax ascendente lungo quasi due ore. Il film si apre con un’ingiunzione di sfratto in un ghetto di Los Angeles a opera dei due padroni di casa: una coppia di immobiliaristi semi-aristocratici e in odore d’incesto che, ovviamente, maltrattano la loro unica figlia, nonché una dozzina di altri figli sbagliati che tengono segregati in cantina, sotto le scale. Uno stereotipato «militante nero» convince un ragazzino chiamato «Matto» a rapinare la villa dei padroni di casa, che, a suo dire, possederebbero una favolosa collezione di monete d’oro. Dopo aver rubato alcune monete, il Matto penetra nuovamente nella villa per cercare di liberare la figlia dei proprietari, trova altro denaro e, in una scena davvero anomala nella filmografia di Craven, fa saltare in aria la villa, lasciando che le banconote piovano giù dal cielo sugli abitanti del ghetto e si distribuiscano a tutta la comunità.
Già prima che il Matto riesca a fuggire dalla villa, dopo la prima incursione, la casa ci appare come l’unico protagonista del film: tutti i personaggi che la abitano – soprattutto il cane da guardia – sembrano mere estensioni della stessa, materializzazioni delle azioni che essa intraprende. Il padre la crivella di colpi d’arma da fuoco; un fuggitivo del sottoscala la fa sorridere e bofonchiare; la presenza del cane fa sì che persino le intercapedini tra i muri si trasformino in armi letali. Il finale del film, che riecheggia quello delle Colline hanno gli occhi, sembra una manifestazione della volontà della casa stessa. Dopo l’uscita di scena dei due psicopatici, non restava che espellere le loro riserve monetarie e radere al suolo tutto in allegria.
Se è vero che il genere horror è caratterizzato dal cosiddetto «ritorno del represso», questo è il punto in cui per Craven la vita cominciò a imitare l’arte. Il gentrificatore divenne una figura esplicitamente assente nel suo film, ma lo stesso ruolo di gentrificatore del regista (che ha affrontato un genere «non-bianco», l’ha reso redditizio e infine ha trasformato un sottogenere storicamente dozzinale in un terreno vitale, caratterizzato dall’incisività dei personaggi e dalla minuziosa progettazione visiva) non fu mai preso in considerazione.
Certamente La casa nera porta avanti il motto «Uccidi il tuo padrone di casa» al punto che la figura della padrona di casa/madre sembra riecheggiare quella di Margaret Thatcher. Ma nella trama c’è un buco grosso così: i padroni di casa sperano di guadagnare un mucchio di soldi trasformando i loro fabbricati in una serie di condomini ma Craven non ci dà alcuna indicazione su chi dovrebbe andarci ad abitare. Persino nel suo film più palesemente incentrato sul tema della gentrificazione, i gentrificatori risultano assenti.
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Se c’è un’eredità che Wes Craven lascerà sicuramente ai posteri, a parte gli accordi di licenza per lo sfruttamento dell’immagine di Freddy Krueger, questa ha sicuramente a che fare con il suo ultimo, clamoroso cambio di paradigma. La trilogia di Scream è amata in tutto il mondo, e per ragioni molto precise. Intorno alla metà degli anni Novanta, e cioè quando gli slasher e l’horror in generale attraversavano un periodo di stanca, Craven aveva capito come scongiurare la morte all’apparenza inevitabile di quel sottogenere, guadagnandoci anche una montagna di soldi.
Solitamente Scream viene ricordato per i suoi tormentoni: è difficile dire se sia più popolare la battuta «Qual è il tuo film horror preferito?» o le Regole per sopravvivere in un film horror, perché entrambe sono diventate fondamentali per la storia del genere. Quando si parla della trilogia di solito si insiste sull’ironia e sulla metanarrazione, ma le loro modalità di dispiegamento da parte di Craven sono un tema meno discusso.
Il genere horror è un caso più unico che raro nella storia del cinema perché ospita al suo interno molti tra i film sperimentali più fortunati che siano mai stati girati. Dal Gabinetto del dottor Caligari a Psycho a Occhi senza volto a Shining, l’horror ha sempre dato ai registi l’opportunità di spostare un po’ più in là i confini della cinepresa senza rinunciare alla partecipazione del pubblico. Il meccanismo di Scream era quello di confrontarsi non tanto con la sperimentazione di genere, quanto con le formule stereotipate che lo strutturavano. Di base, rivendicava la necessità di un rapporto più rispettoso tra il film e il suo pubblico. Dopo le Regole per sopravvivere in un film horror, nessun regista avrebbe più potuto mettere in scena i soliti omicidi legati alla depravazione morale, se non esplicitando che stava usando consapevolmente quel tòpos. Perché l’aspetto più importante della metanarrazione in Scream è che, nonostante tutta l’ironia che contiene, non scivola mai nella trappola della parodia. Se Scream fosse caduto in quella trappola, sarebbe rimasto comunque un film interessante, ma si sarebbe posizionato a una «distanza ironica» rispetto al genere horror, limitando così le possibilità di provocare un reale impatto sugli appassionati del genere.
Scream rappresenta l’antitesi alla tesi avanzata in Nightmare: se nel film del 1984 non c’era bisogno di maschere perché Krueger era manifestamente soprannaturale, Scream riporta la maschera sulla faccia dei suoi materialissimi assassini. Loro non svaniscono nel nulla dopo essere stati colpiti da una pallottola e caduti dalla finestra; si ripresentano pochi minuti dopo, sanguinanti e in fin di vita. Non sono le incarnazioni di un’aberrazione sessuale o morale o di colpe pregresse. Sono persone comuni che hanno un piano in testa e gli strumenti per realizzarlo. E, cosa ancora più importante, sono in molti. La maschera non è più un modo ingegnoso per renderli diversi e giustificare il loro eterno ritorno. È un modo per far sì che molti personaggi vi si possano nascondere dietro, facendo credere che l’assassino sia uno solo.
Ecco perché gli smascheramenti di Scream raramente indugiano sul tema della violenza domestica come succedeva nei precedenti lavori di Craven. Quello della violenza domestica rimane un tema forte, ma adesso gli assassini sono fidanzati, madri, fratellastri e cugini che commettono specifici atti di violenza, e non più incarnazioni delle diverse forme di violenza inflitte alle famiglie e dalle famiglie.
Ciò che fanno i film di Scream (in particolare Scream 3) è aggiornare l’immagine della famiglia per rimetterla al centro delle nuove regole del genere. In Scream 3 l’inseguimento tra le mura domestiche si svolge nella villa del regista di Stab 3, la finta saga cinematografica presente nell’universo di Scream che mette in scena in forma finzionale gli avvenimenti del film reale. Dal punto di vista visivo, è una delle scene d’inseguimento più interessanti del cinema di Craven, piena com’è di oggetti scenici di ogni tipo, alcuni dei quali dotati di una funzione diegetica. Il fatto che questa sequenza sia stata inserita in apertura del film, all’interno della riproduzione della casa di Scream nel set di Stab, ha un motivo funzionale: la casa è sì un prodotto del rovesciamento delle regole, ma è anche l’unico strumento che garantirà al genere la sopravvivenza futura.
La casa, specialmente nei film horror, è strettamente legata al tema delle presenze spettrali: l’assunto implicito di Scream non era solo che lo slasher era diventato un genere inflazionato, ma anche che il suo essere inflazionato costituiva un indizio della situazione generale dell’horror. Di conseguenza, dunque, le componenti dell’horror più sorpassate dovevano essere quelle che non venivano esplicitamente citate. Includendo il tropo della casa, e portandolo così al passo con i valori della nuova consuetudine, Craven si assicurava che l’immagine più centrale del proprio immaginario filmico si mantenesse vitale anche nel contesto delle nuove regole.
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Appena prima dell’uscita di Scream 3 Craven è stato vittima di un’inversione di tendenza; proprio lui, che aveva cambiato le regole del genere, è stato tagliato fuori dal mercato. A un certo punto, il suo nome è quasi del tutto scomparso dalle sale, per lo più si limitava a prestare il nome a una serie di titoli destinati all’home video denominati «Wes Craven presenta». I rari film che dirigeva venivano accolti con indifferenza da critica e pubblico. Anche come produttore, gli unici successi che ottenne furono per i remake dei suoi stessi film, poco importa quanto fosse valido Dracula’s Legacy – Il fascino del male.
Prima della fine del 2000 entrambi i suoi film di exploitation erano stati rifatti; seguì un remake di Nightmare nel 2010. Cinque anni dopo, Craven riuscì finalmente a recuperare un po’ di credibilità come produttore, mettendosi al timone dello spin-off televisivo della trilogia di Scream. Craven aveva avuto a che fare con la televisione più volte nel corso della sua carriera (da giovane aveva girato alcuni film per la tv, e aveva diretto qualche episodio del remake di Ai confini della realtà e della serie tv antologica prodotta dalla Disney Disneyland) ma sempre con un approccio sostanzialmente mercenario. Dopo più di un decennio di disastri al botteghino, tuttavia, la sua incapacità di rimanere a galla come regista o produttore, almeno dal punto di vista finanziario, era conclamata. E questo indipendentemente dalle sue qualità registiche, che sotto molti punti di vista erano effettivamente migliorate: Cursed – Il maleficio, del 2004, è una delle sue prove registiche più felici dagli anni Ottanta in poi, Red Eye è magistrale sotto l’aspetto della direzione degli attori, mentre My Soul to Take – Il cacciatore di anime sfoggia una cura sorprendentemente meticolosa per la fotografia.
Il fatto che Craven, l’uomo che dimostrò che l’exploitation era anche un genere «per bianchi», gonfiò i budget degli slasher e ne allargò il pubblico potenziale, finisse con il ritrovarsi tagliato fuori dall’industria stessa, era prevedibile. È raro che i gentrificatori riescano a godersi i frutti delle loro alterazioni; di fatto, o mollano di propria iniziativa, oppure vengono tagliati fuori dal mercato. Craven ha subito questa sorte; il boom dei vari Hostel, Saw e Paranormal Activity che hanno intasato l’industria cinematografica di quegli anni ha fatto sì che lo stile registico di Craven non solo non fosse più avverso al rischio, ma che non riuscisse nemmeno più a rientrare delle spese. Craven aveva aperto una strada, aveva alzato la posta e codificato le regole d’ingaggio, ma poi, quando le sue competenze erano diventate tanto inutili quanto quella regola che lui stesso aveva sempre seguito, aveva preso il volo verso i sobborghi della televisione.
Altrettanto prevedibile è forse il fatto che lui non sia mai stato in grado di mettere in relazione l’idea di fusione tra famiglia e violenza con il proprio ruolo all’interno del suo stesso genere. La risposta, che affiora brevemente nella scena finale della Casa nera (e da nessun’altra parte) alla violenza della famiglia e all’interno della stessa, è sempre stata la creazione o la promozione di nuove comunità, comunità che siano capaci di non riprodurre la violenza patriarcale: comunità che non possano essere unicamente riducibili al concetto di casa.
© Ben Gabriel, 2015. Tutti i diritti riservati.
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