Dal 15 marzo trovate in libreria La morte ha il permesso del messicano Edmundo Valadés. L’autore, considerato oggi uno dei maestri e dei maggiori promotori della letteratura breve, viene tradotto per la prima volta in italiano.
Pubblichiamo oggi un racconto dalla raccolta. Buona lettura!
«Si richiede una fata»
di Edmundo Valadés
traduzione di Raul Schenardi
Sì, ho già trentaquattro anni. Ormai mi trovo al punto in cui l’età si confonde per gli altri. Per sé stessi. Il sangue è fluito instancabilmente nelle mie vene, e a volte io sono fluito faticosamente nelle vene della vita. Molte cose sono rimaste lungo il cammino. Ma altre dapprima ignorate possono apparire. Ci sono già stati altri momenti in cui mi sono sentito perso, come se fossi morto. Dal poco che so e dal molto che conosco, capisco che per il seme umano che si getta nel terreno non c’è un tempo preciso per dare frutti. La cosa importante è che non un solo uomo vada perduto, che nessuna vita sia di troppo. L’universo interiore di ciascuno di noi possiede riserve quasi inesauribili. L’altro universo, quello che sta fuori, è prodigioso. Potrà finire per me, per te, ma continuerà a esistere per tutti gli altri. E se siamo stati capaci di essere uomini, continuerà ad abitare in noi, anche molto tempo dopo che crediamo sia tutto finito. Adesso però voglio parlare dei miei desideri. Fisserò lo sguardo su quelli che mi avvilupparono in passato, al tempo in cui il mio sogno più accarezzato era riuscire ad avere una fata. Una fata?
Ricorderò quello che mi accadeva tredici anni fa.
Sì, sono uno di quei giovani che hanno potuto raggiungere i ventun anni. Lunghe nottate in caffè di cinesi o in qualche mansarda, il posto più aereo dell’immaginazione. Camminare di notte e scoprire il mondo insieme a un amico. Scoprirlo? No, immaginavamo la vita, gli uomini, le idee, i sentimenti. Altri amici. Il mistico, il comunista, quello che sapeva soltanto picchiare, quello bravo a conquistare le ragazze, il cinico, il poeta. Tutti quei ragazzi erano la mia e la loro giovinezza, come io ero la loro. Tutti soli con la nostra febbre personale, estorcevamo rivelazioni con il sogno e il sangue brioso dei nostri ventun anni. Nessun maestro. Amicizie grandi, fraterne. Impazienza di distruggere, ansia di creare. E questo: ideali. L’impulso: trasformare il mondo. La speranza: fare del Messico un grande paese. L’indigeno. López Velarde. La patria. La borghesia. Il capitalismo. Il Messico. Dubbi. Certezze. Un giovane, due giovani, mille giovani, una generazione. E dentro di noi? Chi può calcolare il caldo impatto della giovinezza? Si vuole tutto, assorbire l’aria, la vita, la fama, l’amore, l’eroismo. Si vorrebbe diventare grandi, arrivare lontano. Essere uomini. Avere un monumento da vivi. Se nostro padre ci avesse domandato, come quando eravamo bambini, «Che cosa vuoi diventare da grande?», avremmo potuto rispondergli con superbia: «Voglio diventare un uomo più alto di te, più alto di chiunque altro».
Ma, e prima? Sei anni prima…
Ricorderò quello che mi accadeva diciannove anni fa.
Sì, compii quindici anni. Ero nella fase della crescita, magro, con la faccia cosparsa di acne e lentiggini. Isolato in una dolorosa timidezza. Leggevo furiosamente. Non avevo mai baciato una ragazza. Vivevo dentro un sogno lancinante, misterioso. Su un altro pianeta. In casa discutevano del mio futuro. «Sarà meglio mandarlo a lavorare, che impari a farsi uomo. Di questi tempi studiare non serve a niente: guarda i figli di Lucita».
Quella notte pregai. Dubitavo già di Dio, ma volevo continuare a credere in Lui. Gli elevai la mia preghiera, disteso a faccia in su, trapassando il soffitto con gli occhi.
«Voglio sprofondare nella terra, Dio. Voglio che mi sia rivelato il mistero della donna. Non voglio che il sangue mi colpisca. Che mi faccia arrossire davanti alle ragazze. Non voglio che i loro sorrisi mi feriscano. Voglio peccare, Dio, senza rimorsi. Arrivare alla rivelazione senza paura, senza angoscia, senza pentimenti. Voglio sapere, provare. Perché mi hanno fatto credere che sia peccato? Se lo desidero tanto, voglio che sia bello, che non mi faccia del male. Che il mistero si trasformi in luce, in gioia. Che tutto ciò che fluisce dentro di me, ciò che mi toglie il sonno e l’appetito, che non mi lascia studiare, che tormenta i miei quindici anni, trovi il suo alveo. Che il mio pensiero non vada mai oltre quello che ignoro. Che possa accoglierlo in modo pulito. Voglio camminare sulla terra, poter guardare le ragazze, poter esprimere le cose che dice il mio silenzio, la mia voce che non sa parlare con loro. Poterle toccare, senza vergogna. Voglio la rivelazione. Voglio che si strappi il velo del segreto. Voglio sprofondare nella terra, Dio, la terra che è primavera, la terra delle ragazze, la terra dove cresce la donna di carne, quella che io non conosco, quella che desidero, quella che amo, che sognano ogni notte la mia anima e il mio istinto, il mio sangue e la mia carne. Dammela, Dio!»
Ma, e prima? Sette anni prima? Ricorderò…
Avevo già otto anni. Leggevo i racconti di Calleja ed ero un cattivo alunno che pativa con l’aritmetica. Un giorno d’inverno mi si avvicinò mio padre, grande, sembrava un signore onnipotente e buono.
«Che cosa chiederai ai Re Magi?», mi domandò.
Avevo già meditato la risposta.
«Voglio che mi portino una fata».
«Una fata?»
«Sì, una fata con la sua bacchetta magica».
Mio padre mi accarezzò la testa sorridendo. Con un tono di voce persuasivo cercò di indirizzarmi: «Non vorresti piuttosto quella bicicletta che hai visto a El Jonuco e che ti è piaciuta tanto?»
«No, papà, la fata mi darà tutte quelle cose».
Mio padre divenne serio.
«Bene», disse mentre mi posava la sua mano paterna sulla spalla, «credo che darai dei grattacapi ai Re Magi. Non sarà facile per loro accontentarti, non sono abituati a portare fate ai bambini. In ogni caso, ti porteranno cose che desideravi avere».
«Voglio soltanto la fata. Ho già un posto dove metterla. E so anche tutto quello che le chiederò quando sarà con me».
Un sorriso curioso spuntò sulle labbra di mio padre. Accarezzandomi i ciuffi ribelli, volle sapere che cosa avrei chiesto alla fata. Non avevo motivo di nasconderglielo. Lui era come una casa grande dove potevo vivere sicuro e felice. Una casa nella quale potevo parlare a voce alta. Glielo dissi: «Per prima cosa le chiederò di raccontarmi favole tutti i giorni; di poter arrivare tardi a scuola nei giorni senza sole; di far apparire il mio angelo custode perché giochi con me e i miei amici ad acchiapparella; di non avere più paura del buio; di non essere mai rapito da un ladro di bambini; di farmi conoscere una principessa e di diventare alto come te, un giorno».
Sì, ho già trentaquattro anni. E forse sto ancora aspettando una fata.
©Edmundo Valadés, 1955. Tutti i diritti riservati.
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