In passato, vi abbiamo presentato sul blog varie voci tratte dal Diccionario de autores latinoamericanos di César Aira. Pubblichiamo oggi quella dedicata a Gabriel Mistral, scrittrice e poetessa cilena, Premio Nobel nel 1945.
di César Aira
traduzione di Raul Schenardi
Gabriela Mistral. Il suo nome era Lucila Godoy Alayaga. Costruì il suo pseudonimo con il nome dell’arcangelo Gabriele e il cognome del poeta Frédéric Mistral, che ammirava. Nacque nel 1889 a Vicuña, nella provincia di Coquimbo, figlia di un umile maestro di campagna che aveva scritto poesia. Diceva che la nonna paterna era ebrea (secondo Eduardo Barrios, la Mistral fu uno “spirito essenzialmente ebraico”). Anche lei divenne maestra, in seguito a una vocazione che si manifestò fin dall’infanzia. Fra il 1904 e il 1922 esercitò il magistero, prima in scuole di campagna, poi nelle medie in tutto il paese. Esordì come poetessa con i “Sonetos de la muerte”, con cui vinse i Juegos Floreales di Santiago nel 1914. Si dice che la sua poesia sia nata da un’esperienza tragica: il suo fidanzato, Romelio Ureta, un impiegato delle ferrovie, si suicidò nel 1909 poco dopo che aveva rotto il fidanzamento. Indebolisce questa leggenda il fatto che lei nel 1910 avesse un altro fidanzato, un giovane “moro e obeso” con il quale fu sul punto di sposarsi, ma poi si tirò indietro all’ultimo momento, mentre era già in viaggio per la città dove sarebbero state celebrate le nozze, considerando che era troppo brutto. (Parecchi anni dopo vi fu un altro suicidio misterioso nella sua vita, quello di un ragazzo che lei chiamava Yin-Yin, che forse era suo figlio, o un figlio adottivo, o un nipote.) Nel 1922 l’Instituto de las Españas di New York pubblicò il suo primo libro, Desolación. Nel 1924 si recò in Messico, assunta da Vasconcelos per collaborare alla riforma dell’istruzione. Da allora viaggiò costantemente; il governo cileno la nominò console vitalizio senza sede fissa. Diede conferenze, assistette a congressi, lottò per migliorare la condizione delle donne e dei bambini e collaborò con quotidiani e riviste cileni e del continente. Nel 1925 apparve il suo secondo libro, Ternura, e nel 1938 Tala, e con il ricavato delle vendite volle aiutare i bambini baschi orfani di guerra. Continuò a viaggiare, e i premi e gli omaggi – il più importante dei quali fu il premio Nobel nel 1945, non le diedero pace. Nel 1954 pubblicò Lagar e visitò il Cile per l’ultima volta. Morì negli Stati Uniti nel 1957, a sessantotto anni.
Gabriela Mistral scrisse una prosa eccellente, un po’ strana come tutte le sue cose; chiamava i suoi articoli e i suoi saggi “messaggi”, perché erano sempre rivolti a qualche persona – ne scrisse anche in versi, e nella parte finale di Tala ce ne sono diversi, il più memorabile dei quali dedicato a Victoria Ocampo. Ma l’apice della sua originalità sta nelle sue poesie. Come in Gerard Manley Hopkins, c’è in lei un orrore per i luoghi comuni, ai quali sfugge correggendo ogni verso fino a dargli quella disarticolazione da collage sonoro che caratterizza la sua prosodia e la rende tanto bella. Il suo prestigio letterario soffrì un po’ nel confondersi con la sua notorietà sociale; già nell’importante Antología de poesía chilena nueva (1935) di Anguita e Tetelbaum la sua assenza è un deliberato atto provocatorio (che riprende la celebre frase maliziosa di Mark Twain: «Una biblioteca che non contenga libri di Jane Austen sarà sempre superiore a una biblioteca che contenga libri di Jane Austen»). Esistono diverse edizioni della sua opera; nel 1978 furono pubblicate in Cile le sue lettere d’amore, fino a quel momento inedite.
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