Riceviamo e pubblichiamo la “lettera aperta” indirizzata da Francesco Varanini ai suoi amici cileni in occasione dell’ultima Fiera del libro di Torino.
di Francesco Varanini
Avrei voluto scrivervi, cari amici cileni, nel novembre scorso, e poi un mese fa. Ci provo ora, sperando di arrivare alla fine.
Vi prego di immaginarvi in uno dei luoghi più prestigiosi della città dove vivo, il 15 novembre 2012. La Triennale è lo spazio espositivo che simboleggia l’incontro, tipicamente italiano, tra arte contemporanea, design, architettura. All’interno della Triennale, il Teatro dell’Arte.
Milano, forse sapete, ha da qualche anno una nuova Amministrazione Comunale. Un noto avvocato penalista, che è anche un sincero uomo di sinistra, a capo di un’ampia coalizione, ha sconfitto il sindaco in carica, donna manager, sodale di Berlusconi, conservatrice, espressione di interessi costituiti. Ci si aspetta dal nuovo sindaco e dalla sua amministrazione uno scatto, uno scarto, un cambiamento di passo anche nella politica culturale.
In questo contesto si apre Bookcity, una manifestazione promossa e realizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano insieme a Fondazione Rizzoli Corriere della Sera, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri, Camera di Commercio e Associazione Italiana Editori. L’iniziativa gode del sostegno di Eni e Intesa Sanpaolo. Insomma, fondazioni che esprimono la miglior cultura editoriale italiana. Il supporto delle maggiori imprese italiane.
La partecipazione è riservata ad invitati accuratamente selezionati. La sala è strapiena, il brusio si spegne al suono del gong.
È l’inizio ufficiale della manifestazione, un inizio non privo di solennità. È stato scelto quindi con cura l’ospite d’onore. Deve trattarsi di un grande scrittore, un autore adatto a rappresentare gli intellettuali che illuminano la scena letteraria internazionale. Luis Sepúlveda.
Partecipo all’evento perché mi invitano ad andare con loro due miei amici, manager di vertice di una delle più importanti aziende private italiane. Loro, come gran parte del pubblico presente, fidandosi delle scelte degli organizzatori, credono di essere al cospetto di un illustre letterato.
Accolto da un caldo applauso del pubblico, ecco salire sul palco, sotto la luce dei riflettori, Luis Sepúlveda. Si siede sulla poltrona a lui riservata. Accanto a lui l’intervistatore, Bruno Arpaia.
Dovete sapere, cari amici, che noti giornalisti italiani si sono mostrati campioni di un certo tipo di intervista che potrei chiamare “l’intervista inginocchiata”. Il giornalista inginocchiato davanti al potente. Classico del genere – forse qualcuno di voi lo ricorda, perché il libro è uscito anche in spagnolo, con prologo di García Márquez – è Habla Fidel, intervista di Gianni Minà a Fidel Castro.
Si può ben aver un atteggiamento critico nei confronti di Fidel Castro e anche di García Márquez, si può di conseguenza sorridere del tono succube di chi si inginocchia di fronte a loro. Ma sarete d’accordo con me nel dire che inginocchiarsi di fronte a Fidel Castro e a García Márquez è una cosa, e inginocchiarsi di fronte a Luis Sepúlveda è cosa ben diversa.
Ora, dovete sapere anche che Bruno Arpaia si era già inginocchiato di fronte a Luis Sepúlveda nel 2003. Da quelle conversazioni uscì il libro pubblicato qui da noi con il titolo Raccontare, resistere. Conversazioni con Bruno Arpaia. Ed ecco qui di nuovo Sepúlveda e Arpaia insieme.
Scopro che l’incontro che sta per cominciare è anche l’occasione del lancio dell’ultima fatica di Sepúlveda, presentata come opera di rilievo capitale, ritorno alla scrittura dopo un periodo di pensosa pausa: Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico. Forse conoscete l’opera con il suo titolo spagnolo: Historias de Mix, de Max, y de Mex.
Ognuno è libero di scrivere quello che gli pare. E mi pare una buona cosa che Sepúlveda si preoccupi dell’educazione del proprio figlio. Mi pare una buona cosa che Sepúlveda, traendo spunto dall’amore del figlio per il suo gattino, cerchi di fargli comprendere cosa sia l’amicizia.
Ma trovo insopportabile, cari amici cileni, che l’operina sia presentata ad un pubblico ignaro, in una occasione importante, come un gran libro. Trovo insopportabile che Sepúlveda sia presentato come un maestro. Trovo insopportabile che la sua opera sia presentata come vertice di quella letteratura –ispanoamericana in generale, e cilena in particolare – che ogni italiano colto dovrebbe conoscere.
Non è questo, cari amici cileni, l’ambasciatore che vi meritate.
Le domande vuote e superficiali di Arpaia si susseguono. Sepúlveda risponde a tono. Siccome i posti in sala sono riservati e numerati, sono finito seduto lontano dai miei amici manager. Loro inizialmente credevano di essere al cospetto di un grande autore. Ma la noia cresce e si finisce per riaccendere il cellulare. Mi arriva così un sms dal mio amico, seduto all’altro lato della sala: “Mi pare uno sfigato. Superficiale”.
Arpaia, intanto, visto il tema dell’opera al centro della serata, non può esimersi da una domanda: “Quali sono i tuoi amici?”. E intende: amici scrittori. Forse vi immaginerete già, o forse sarete contenti di sapere, cari amici cileni, che Sepúlveda, a suo dire, non ha amici tra gli scrittori cileni. Finge di nicchiare, finge di resistere alla cortese insistenza dell’intervistatore, e poi eccolo snocciolare i nomi. Soriano. Galeano. Il terzo è un po’ più imprevedibile. Sepúlveda arriva a farne il nome al termine di una complicata narrazione che chiama in gioco la sua produzione poetica, i suoi primi racconti, i suoi esordi editoriali. È Julio Cortázar, con il quale Sepúlveda solidarizzò, a quanto pare, pisciando accanto a lui nei servizi igienici di un hotel.
Mi direte, cari amici, ma perché te la prendi tanto, perché ti accanisci, meglio lasciar perdere. Me la prendo perché salvo qualche meritoria eccezione le case editrici italiane lasciano pochissimo spazio agli autori ispanoamericani in generale, e agli autori cileni in particolare. Me la prendo perché i pochi spazi lasciati ad autori ispanoamericani nei cataloghi delle case editrici italiane sono filtrati, salvo rare eccezioni, da pochi pretesi esperti, che finiscono per influire in modo pesante sulle scelte di ogni casa editrice. Ho scritto pochi pretesi esperti, ma potrei forse ridurre il novero a due nomi, Paco Ignacio Taibo II e, indovinate un po’, Luis Sépulveda.
Per questo vi racconto questa storia.
Il fatto che Sépulveda sia preso in Italia come grande autore va ad esclusivo discredito dei lettori italiani. Colpa nostra, e peggio per noi. Ma la sua autorevolezza finisce per danneggiare gli autori cileni, ed ispanoamericani in genere, che meriterebbero di essere tradotti. A lui va bene Coloane, Rivera Letelier non lo disturba. Oltre non va. Per voi, cari amici cileni, lo ripeto ancora, non è un buon ambasciatore.
Ora, cari amici, salto da metà novembre dell’anno scorso a metà maggio di quest’anno. Qualcuno di voi ricorderà qual era quest’anno il paese ospite d’onore del Salone Internazionale del Libro di Torino, di gran lunga il più importante appuntamento editoriale nel mio paese. Il Cile, appunto.
Il mondo editoriale è piccolo, anche in Italia è giunta qualche eco del dibattito attorno alla scelta dei membri della delegazione ufficiale. Qualcuno si è rifiutato di farne parte. Anche sui temi al centro delle conferenze e degli eventi si possono avere opinioni diverse. Ogni scelta è opinabile. Ma con sollievo ho osservato che tra gli autori chiamati a rappresentare il Cile non c’era in nessun modo, e mi pare giusto, Sépulveda.
Il discorso inaugurale del Salone è stato tenuto da Jorge Edwards. Due personaggi non paragonabili. Edward è uno scrittore, Sepúlveda è una barzelletta. Se proprio non mi sbaglio, in nessuno degli incontri che si sono svolti a Spazio Cile ha parlato Sépulveda. Di ciò rendo merito alla delegazione cilena. Ma tutto questo, purtroppo, poco importa. Il grande cileno presente al Salone era lui. Lui era il Grande Ospite. Lui, che si permette di dire proprio in questa occasione che si sente cileno “per molti motivi”, e che non si sente cileno “per molti altri”.
Cari amici, sappiamo bene che dobbiamo evitare di asservirci passivamente alla gran macchina dell’industria editoriale. Sappiamo bene che dobbiamo combattere quello svilimento della letteratura che i mass media tendono ad imporci.
Ma non possiamo nemmeno limitarci a sdegnare il mondo che c’è. Perché così facendo lasciamo campo libero a quei simulacri di cui Sepúlveda è campione. Lo so che non vi sentite rappresentati da lui, ma dobbiamo fare i conti con il fatto che il mondo vede in lui il vostro rappresentante, il cileno esemplare. Eccolo così al centro di una narrazione giornalistica che replica una volta di più lo stereotipo, il luogo comune, la vuota retorica. Eccolo al centro di una narrazione che in Europa, e in Italia in special modo, accompagna suo malgrado ogni scrittore ispanoamericano, velandone l’immagine.
Leggo in un qualsiasi giornale. “Poco prima delle quattro del pomeriggio fuori dalla porta della Sala Gialla c’è già, sabaudamente ordinata, una fila lunga qualche decina di metri”. “Lo scrittore cileno è così, in Italia sposta le folle, la gente compra i suoi libri e sgomita per andarlo a sentire, ogni volta”. “Lui, Lucho, arriva insieme al padrone di casa Ernesto Ferrero e a una piccola corte fatta di amici, addetti stampa e fotografi, e prima di iniziare si concede agli scatti e a qualche autografo”. “Di fronte ha una sala ormai stracolma, oltre seicento persone che pendono dalle sue labbra. ‘Una volta’, dice, ‘io e Osvaldo Soriano ci dicemmo che il nostro rapporto coi lettori era insolito, perché si trattava di un rapporto di amicizia autentica. E che quindi avevamo il dovere, tra un romanzo e l’altro, di condividere con loro le nostre contraddittorie visioni del mondo, la nostra percezione della realtà’.”
Di questa narrazione, di questa retorica, di questa volgare riduzione della letteratura, siamo vittime. Dobbiamo combatterla insieme. Autori ed editori non succubi, cileni ed italiani. Per questo mi rivolgo a voi con questa lettera.
Credo che il punto da cui partire sia questo: riconoscere che siamo un po’ tutti Sepúlveda. La sudditanza alle mode, ai luoghi comuni, alle opinioni consolidate, ai vezzi e alle aspettative dei giornalisti: una malattia dalla quale non possiamo dichiararci immuni. Perciò dobbiamo aiutarci reciprocamente a tener desta l’attenzione. Non deflettere. Curare anche i dettagli.
Aspettavo un amico cileno, lì nel padiglione del Cile. Osservavo intanto i libri negli scaffali. Come è inevitabilmente opinabile la scelta dei membri della delegazione, ancor più lo è – lo capisco – la scelta dei libri esemplari da esporre allo sguardo ignaro del lettore italiano. Ma secondo me, troppo Neruda, e poco Huidobro, Rojas, Pablo de Rokha. Niente, mi pare, di Enrique Lihn, niente di Juan Emar. Parlo come vedete di classici, autori che i lettori italiani dovrebbero conoscere. Escludo di dire degli autori viventi, rispetto ai quali le scelte sono ancor più difficili, la lacuna è inevitabile. Però, vi faccio notare, Sepúlveda non mancava. Mezzo ripiano era riservato a lui. Questo potevate risparmiarvelo.
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