Con la pubblicazione di Per una tomba senza nome torniamo a immergerci nell’universo di Santa María, la città immaginaria creata da Juan Carlos Onetti, metà Buenos Aires e metà Montevideo. Pubblichiamo oggi un saggio di Juan José Saer apparso come prefazione a Il pozzo, che ci apre le porte sul mondo di Onetti e dei suoi romanzi brevi.
di Juan José Saer
traduzione di Giulia Zavagna
Intorno al 1960, tra i giovani narratori che si affacciavano al lavoro letterario, la forma che incarnava la massima aspirazione estetica, il modello di ogni perfezione narrativa, non era il romanzo né il racconto, ma il romanzo breve. Equidistante dall’impetuosa trascrizione del racconto, simile a quella della poesia, e dall’elaborazione lenta del romanzo, che sembrava avvalersi di una serie di mediazioni considerate un po’ indegne a causa del carattere tecnico e vagamente innecessario che gli si attribuiva, il romanzo breve aveva l’attraente specificità di nascere da una concezione intuitiva e repentina e allo stesso tempo permettere un certo sviluppo narrativo, e perfino, quanto al tempo materiale di esecuzione, di concedere una rapidità utile a preservare la freschezza esaltante dell’ispirazione. E per quanto la difficoltà di concretizzare prospettive tanto esorbitanti fosse evidente, il fascino che esercitava il romanzo breve tramontò solo quando, a metà degli anni Sessanta, il genere «grande romanzo latinoamericano», patetica sovrapposizione di stereotipi latinoamericani destinata a conquistare il mercato anglosassone sottomettendosi nel contenuto e nella forma alle sue norme commerciali, rimpiazzò nelle librerie i discreti e ammirati volumi di circa cento pagine che immortalavano tanti capolavori.
Le norme di estensione che circolavano allora – da venti a centoventi pagine più o meno – erano ovviamente convenzionali, ma avevano il vantaggio di essere sufficientemente ampie da lasciare all’immaginazione molte opzioni costruttive e allo stesso tempo ridurre al massimo la tirannia del genere, la cui frequentazione, a dire il vero, stimola nei narratori una certa libertà formale non solamente con il romanzo breve, ma anche con qualunque altro genere per il quale si avventurino. Eppure è ovvio che non erano né l’estensione né il tema a stimolare l’immaginazione dei narratori, ma alcuni attributi propriamente poetici e retorici, come il ritmo, la cura verbale, il laconismo, la suggestione, in opposizione alla discorsività, la prosaicità, le convenzioni strutturali, il concettualismo del romanzo. Il romanzo era un po’ il parente povero della creazione narrativa, e la tradizione romanzesca latinoamericana esisteva solo grazie a due o tre eccezioni. È vero che, stando ai manuali, i romanzi pullulavano, ma i modelli estetici a cui facevano riferimento erano ormai di un’altra epoca, e se analizziamo in retrospettiva, fino al 1960, la mappa della narrativa latinoamericana, si salvano pochissimi romanzi nel senso convenzionale, ed esiste invece un’abbondante produzione di racconti e romanzi brevi che costituisce una collezione di ricchezza indiscutibile. Mariano Azuela, Quiroga, Arlt, Borges, Bioy, Silvina Ocampo, Rulfo, Onetti, Di Benedetto, Felisberto Hernández, ecc., sono la prova più che sufficiente del fatto che, con la doppia eccezione di Arlt e di Juan Carlos Onetti (e forse anche di Alejo Carpentier), la creazione narrativa della prima metà del ventesimo secolo era stata capace di prescindere dal romanzo.
Una delle caratteristiche più interessanti dell’opera di Onetti è proprio che le varie narrazioni che la compongono non corrispondono a nessun formato fisso, e che ognuna si cristallizza grazie a una necessità interna che governa l’estensione, la struttura, la voce narrativa. Questi elementi, che potremmo definire «universali» del racconto, sono sempre utilizzati in modo innovativo e complesso, adeguato a ogni caso concreto: ne risulta che, oltre la monocorde elegia onettiana, l’insieme delle sue opere offra un’abbondante varietà formale. Il che è valido anche per i suoi romanzi, ma si verifica in modo palese nei racconti e nei romanzi brevi. Tra i più riusciti, o per lo meno tra i più ambiziosi, se tutti hanno il marchio inconfondibile della sua inconfondibile personalità artistica, non ce ne sono due che, per la costruzione, si assomiglino. Così stimabile, esatto e sottile nella maggior parte delle sue pagine, Barthes tuttavia si sbagliava quando applicava il dogma strutturalista all’analisi del racconto: questa supposta struttura soggiacente, questo repertorio di invarianti può esistere in ogni tipo di narrativa, ma non ha più valore di quello che possiedono il cavalletto, la tela e il telaio o l’argomento sul quale l’artista lavora – il nudo o il ritratto di famiglia, per esempio – all’interno della superficie dipinta, rispetto all’opera irripetibile e singolare che esce dalle sue mani. Ognuno dei grandi testi brevi di Onetti offre la conferma di quell’unicità vivida che giustifica ogni opera d’arte.
Il narratore, per esempio, in quasi tutti i suoi testi, al di là delle accademiche attribuzioni del punto di vista, ha sempre una posizione, una distanza, una capacità di percepire e comprendere quanto narrato che è ogni volta differente e valida soltanto per il racconto a cui si applica. Il celebre «Cosa ci vedete in quel tizio?» (Henry James), proferito da Onetti al bar La Fragata di fronte alle facce scandalizzate di Borges e Rodríguez Monegal,[1] potrebbe spiegarsi con la costanza – ammirevole – di James nell’utilizzo rigoroso di uno stesso punto di vista per ogni racconto, che forse Onetti, lettore di Conrad, Joyce e Faulkner, considerava già di un’altra epoca (probabilmente come il pudore jamesiano non meno corrosivo, tuttavia, della crudezza dei suoi successori). L’opacità del mondo sociale di cui Henry James suggerisce in molti dei suoi testi la difficile lettura, e da cui deriva l’incapacità di ricavare dai vari comportamenti un senso e una morale, è diventata per Onetti un pantano vischioso e labirintico, patria oscura di logoramento, fallimento e perdizione. D’accordo con la strategia di ogni racconto, i diversi narratori intuiscono, verificano e a volte perfino suscitano la catastrofe prevista fin dal principio. La sconfitta è ciò che sempre raccontano o presuppongono i narratori di Onetti, sebbene alcuni racconti, come «Jacob e l’altro» per esempio, fingano di finire bene. Tuttavia, una delle caratteristiche esemplari della sua narrativa è che, nonostante l’intenso patetismo delle tematiche e delle situazioni, l’organizzazione formale supera il rischio del melodramma. Il vocabolario dei sentimenti e delle passioni è perfettamente naturale in Onetti, grazie al lavoro stilistico che distribuisce le parole ormai trite a causa dell’uso indiscriminato che ne fa il commercio melodrammatico, in una costruzione verbale che le relativizza, le pulisce e restituisce loro il significato originario.
Questa caratteristica è forse la più personale della sua letteratura: una presa di distanza non solo ironica o scettica ma soprattutto formale rispetto all’universo tragico che è la sua materia narrativa. nei suoi racconti tutto conduce alla catastrofe: la disperazione, per esempio in «Triste come lei», ma anche, come avviene nel «volto della disgrazia», meno prevedibile, e forse per questo più crudele, irragionevole, la speranza. L’osservazione di Gilbert Murray secondo cui «nella tragedia greca, quando un uomo si dice felice, lo aspetta un futuro oscuro», sembra esser stata pensata per i personaggi di Onetti, molti dei quali sono coscienti della situazione, come il bottegaio degli Addii che, nel magnifico primo paragrafo del romanzo che tutti gli aspiranti scrittori della nostra generazione sapevano a memoria, annuncia l’ineluttabile sconfitta. E una delle trovate più importanti di quel romanzo, per non dire la principale, è proprio la distanza e la posizione del narratore rispetto a ciò che narra. La distanza e la posizione, che sono letteralmente spaziali, trascendono quel significato letterale e traducono la frammentarietà della conoscenza, l’essenza ambigua dell’accadere e allo stesso tempo, mostrandocelo da lontano, attraverso i segni esteriori del suo comportamento, danno al protagonista l’aria di un insetto che, con un miscuglio di spudoratezza e pietà, vediamo dibattersi nella sua agonia. Derivano dalla posizione del narratore anche certi eventi che potremmo definire ipotetici, che non accadono nello spazio-tempo empirico della narrazione, ma nell’immaginazione un po’ erratica del narratore, ingarbugliato in fantasticherie e congetture.
A proposito di spazio-tempo, sarebbe forse necessario soffermarsi su Santa María, il luogo immaginario di Onetti, frapposto in un punto geografico impreciso tra Montevideo e Buenos Aires, per lo meno nel progetto del suo inventore, Brausen, e che non si può definire che con il nome generico di «luogo», a causa del suo statuto e delle sue dimensioni imprecise, cangianti, poiché a volte è solamente una città, alla quale si aggiunge la sua colonia, ma che in altri momenti («Jacob e l’altro») ha le caratteristiche di un piccolo stato dell’America del Sud. Quel luogo, a differenza di altri territori immaginari della letteratura, che mascherano sommariamente una regione reale, ha una serie di strane caratteristiche che esprimono ciò che potremmo chiamare le tendenze barocche di Onetti, già presenti nella Vita breve, e che raggiungono una curiosa esacerbazione in Per una tomba senza nome e La muerte y la niña. In questi due testi, spazio e tempo, finzione e narrazione, esperienza e fantasia, vero e falso, realtà e rappresentazione letteraria, sono sottoposti a diversi sconvolgimenti, nei quali presentiamo che la riflessione sui paradossi della finzione prevalga sulla rappresentazione stessa. In Per una tomba senza nome (1959), le varie interpretazioni di un fatto vanno annullandosi una dopo l’altra man mano che si susseguono, e certi anacronismi seminati nel testo sembrano spiegarsi nella conclusione, dove si suggerisce che niente di ciò che si racconta è successo davvero, e la presunta storia della donna e del capro non è che la giustapposizione di tre o quattro versioni inventate. Se consideriamo che ciò che stiamo leggendo è una narrazione fittizia, costruita secondo i modelli abituali (sebbene stilisticamente singolari di Juan Carlos Onetti) della rappresentazione realista, comprenderemo fino a che punto quella finzione nella finzione sia un ritorno all’infinito del quale risulta impossibile ignorare la derivazione barocca.
In La muerte y la niña (1973), il progetto si complica ulteriormente: Brausen, l’inventore di Santa María, ha la sua statua nella piazza, statua equestre, sia detto per inciso, nella quale il cavallo di bronzo acquisisce poco a poco tratti bovini, allusione sarcastica alla principale fonte di ricchezza della regione; in alcuni momenti, i personaggi del racconto riconoscono Brausen come il fondatore della città, fatto che è già sorprendente, ma d’improvviso lo evocano, non sempre con ironia, come il dio che li ha creati e governa i loro destini: «Padre Brausen che sei nel nulla» o «Brausen può avermi fatto nascere a Santa María con trenta o quaranta anni di passato inesplicabile, ignorato per sempre. È obbligato, per rispetto delle grandi tradizioni che desidera imitare, a uccidermi poco a poco, cellula dopo cellula, sintomo dopo sintomo». L’autonomia del territorio immaginario cambia significato; non si tratta più dell’universo empirico mascherato in modo che il lettore non possa non riconoscervi il modello al quale fa riferimento, ma di una peripezia inedita nell’eterno conflitto che unisce e separa, annulla e completa, sostituisce e prolunga, rivela e tradisce, il reale e la sua rappresentazione.
Le grandi tradizioni che desidera imitare: gli abitanti di Santa María si trovano rispetto al demiurgo che gli ha dato vita e li ha collocati nel suo universo secondario in una situazione simile a quella degli uomini che vivono in ciò che potremmo definire realtà primaria che è il mondo di Brausen: vi sono stati gettati e sebbene siano coscienti di quella condizione inequivoca e allo stesso modo inspiegabile, sanno anche che le combinazioni del caso e il capriccio del loro creatore sono indifferenti all’assurdo destino fabbricato per loro, e che consiste nel darli alla luce perché sì, per abbandonarli alla disgrazia (vocabolo ricorrente del lessico onettiano) e infine, come un bambolotto malconcio a causa della crudeltà innocente o distratta di un bambino, per lasciarli cadere nell’oscurità.
Se la tematica definita esistenziale Onetti la ereditò dal suo secolo e dalla tradizione rioplatense – in particolare attraverso l’opera di Roberto Arlt, nelle sue riflessioni sul mondo e la sua rappresentazione, problema inerente a qualsiasi esercizio dell’arte del narrare –, reintroduce attraverso la struttura stessa dei propri racconti, poiché la sua formulazione concettuale, per temperamento, non sembrava interessargli, un repertorio di situazioni e di paradossi che erano scomparsi dal campo di interesse della letteratura dalla fine del Siglo de Oro, probabilmente a causa delle lente e laboriose conquiste del realismo che culminarono nell’opera dei grandi narratori del diciottesimo e diciannovesimo secolo. A modo suo, Onetti partecipa al vasto smantellamento di quel realismo trionfante nel quale è sfociata la letteratura del ventesimo secolo. Per questo, in lingua spagnola, sembra avere un solo inaspettato precursore, Macedonio Fernández, sebbene a causa dell’apparizione postuma, a metà degli anni Sessanta, del Museo de la novela de la Eterna, si produca una curiosa inversione nella cronologia, e Onetti continui a essere il precursore solitario di questi sfoghi contro il sistema realista di rappresentazione. Alcuni saggi di Borges e certi elementi isolati di alcuni dei suoi racconti (la deliberata identificazione dell’autore-narratore-protagonista di «L’Aleph» per esempio) affrontano il problema, ma è Onetti nella Vita breve, all’inizio degli anni Cinquanta, a introdurlo non come mero concetto, bensì nel piano formale del romanzo.
I romanzi brevi di Onetti non si esauriscono, ovviamente, nelle primizie strutturali che offrono al lettore. vi si dispiega un quadro appassionato e vivido; la disgrazia e la crudeltà, la rassegnazione e il fallimento, la rabbia e l’autodistruzione sono i suoi temi prediletti, ma anche l’amore, la colpa, la nostalgia e, soprattutto, la compassione. Un personaggio, mentre sguazza nelle acque inconsistenti e scure della più lucida viltà, si abbandona tuttavia a un ultimo sussulto di pietà non solo per gli uomini ma anche per le forze senza nome che reggono il suo destino: «Pena per l’esistenza degli uomini, pena per chi combina le cose in questo modo balordo e assurdo. Pena per la gente che ho dovuto ingannare solo per continuare a vivere. Pena […] per tutti quelli che non hanno davvero il privilegio di scegliere». Come quelli di tutta la grande letteratura, i personaggi di Onetti hanno un viso che prima o poi finiamo per riconoscere: è quello di ognuno di noi.
[1] Esiste un famoso aneddoto secondo il quale, una sera del 1948, Onetti si trovava in una birreria di Buenos Aires, La Fragata, appunto, con Borges e Monegal. Fu in quell’occasione, pare, che gli chiese: «E ora che ci siete entrambi, ditemi, cosa ci vedete in Henry James? Cosa ci vedete in quel tizio?» [n.d.t.]
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