«Mi preoccupa che il dolore diventi una tessera per guadagnarsi l’accesso al club delle donne»: una riflessione di Jessa Crispin sul (presunto) legame tra genere e dolore. L’articolo è apparso originariamente sulla Boston Review; ringraziamo l’autrice e la testata.
di Jessa Crispin
traduzione di Giuliano Velli
Nel maggio 2014, dopo che il manifesto del cecchino di Isla Vista ha svelato la sua profonda misoginia, in rete molte donne hanno cominciato a raccontare la reazione violenta degli uomini che avevano respinto, a descrivere la sensazione di essere intimidite o perseguitate. Presto queste esperienze personali hanno acquisito un senso di universalità. E così è nato #yesallwomen – già, tutte le donne, in un modo o nell’altro, sono state vittime di violenza maschile.
Sono stata infastidita da questa campagna hashtag. Non dalla reazione degli uomini, che spaziava dal cinico e indignato al paternalistico, né dal modo in cui ci si sono tuffati i media. Mi sono chiamata fuori dalla connessione tra genere e dolore, dall’innesto del vittimismo nella definizione di femminilità, e dal modo in cui si è fatto del dolore una polemica.
La campagna ha superato i confini di Twitter. Su riviste online come Impose, The Hairpin e The Toast, scrittrici che vanno da Emma Aylor a Roxane Gay hanno raccontato storie simili in 2500 parole invece di 140 caratteri. Improvvisamente le scrittrici venivano valutate per le loro storie di sopravvivenza alla violenza e al trauma. Bestseller come The Empathy Exams di Leslie Jamison hanno dipinto le donne come intrinsecamente vulnerabili. Recentemente la New York Times Book Review ha decretato che era «il momento» delle autrici di personal essays.
Non sono più i notiziari, o i commentatori maschi, a dirci che noi donne siamo in pericolo in questo mondo grande e cattivo, uno stratagemma vecchio di decenni per tenerci «al sicuro» a casa, il posto che ci spetta. Sono le donne stesse a ripetere questa storia, per dimostrare una tesi diversa: cioè che siamo una razza a parte, unite nelle nostre esperienze e reazioni, distinte da quelle degli uomini.
Questa segregazione emotiva non ci fa bene. Mi preoccupano le implicazioni derivanti dall’etichettare le sofferenze individuali come «dolore femminile», e mi sento ancora più a disagio quando alcune donne si sentono autorizzate a parlare in nome di tutte le donne. Mi preoccupa che il dolore diventi una tessera per guadagnarsi l’accesso al club delle donne. E mi preoccupa che l’ipotesi della vulnerabilità minacci di rafforzare gli stessi mali sessisti che si propone di combattere, esigendo che stia agli uomini proteggerci.
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Nella raccolta bestseller The Empathy Exams (2014), Jamison torna ripetutamente su un episodio che risale ai suoi viaggi in Nicaragua. Un uomo le ha rotto il naso. L’ha avvicinata per strada e l’ha colpita. L’autrice descrive l’aggressione come qualcosa che si avvicina a un crimine d’odio: «Mi ha vista e mi ha squadrata […] qualsiasi cosa abbia visto [in me] – qualsiasi cosa abbia pensato di aver visto – è stata abbastanza».
Più avanti capiamo che l’uomo le ha rubato il portafoglio e la macchina fotografica, ma ormai stiamo già osservando l’aggressione con i suoi occhi, come un episodio particolare di violenza di genere.
«Ti ha rubato il portafoglio?», mi ha chiesto qualcuno. «Anche la macchina fotografica?»
Ho annuito. Volevo rispondere: Mi ha rubato la faccia.
Attribuiamo al nostro dolore un significato, e questo significato modifica la nostra esperienza. Qualcun altro avrebbe vissuto il dolore del naso rotto come una rapina, una cosa che a volte capita quando si viaggia in un paese povero con indosso soldi e oggetti costosi. Jamison vive il dolore come una violenza sessista. Il significato che attribuisce al dolore non si limita a modificare la sua esperienza, ne modifica l’intenzione. Secondo Jamison – che, dopo tutto, è l’unica che può raccontare questa storia e quindi definirne i parametri – l’intenzione dell’aggressore non era di rubare i suoi beni per un guadagno materiale. La sua intenzione era rubarle la bellezza di donna.
Per Jamison e molte scrittrici della sua generazione, da Sheila Heti a Kate Zambreno, la vulnerabilità è determinata biologicamente nel corpo femminile, in modo del tutto separato dagli effetti di una società sbilanciata e prevenuta. «Avere il ciclo è un altro tipo di ferita», scrive Jamison, al che ho urlato «Cara, ma vai a farti fottere!» nel mio appartamento vuoto. Qual è il valore, o la validità, di immaginare le mestruazioni, l’avere un corpo di donna, come un tipo di trauma? Jamison lo fa diventare il nostro peccato originale. Siamo nate nel dolore semplicemente per essere nate in corpi di donna, e nessuna penitenza ci libererà mai dalla nostra maledizione.
Questa vulnerabilità si estende in seguito alle nostre interazioni con i maschi. Gli uomini reagiscono alle nostre vulnerabilità o facendoci ancora più male o desiderando di proteggerci. Nel saggio di Jamison «Grand Unified Theory of Female Pain», gli uomini le spezzano il cuore, la prendono a pugni in faccia, aggrediscono le sue amiche. Quando cerca di descrivere alla polizia l’uomo che l’ha picchiata, non è in grado di rievocare la sua immagine; è semplicemente un uomo. Tutto quello che riesce a dire è: «Aveva le sopracciglia». Similmente, nella sua raccolta di saggi gli uomini non hanno tratti distintivi. Il loro unico ruolo è infliggere dolore o alleviarlo. Dopo essere stata colpita, Jamison desidera che arrivi un uomo, le presti attenzione, le dica quanto è stata ingiusta l’aggressione. Va in un bar dove ci sono dei ragazzi che conosce; nemmeno loro hanno un nome. «Mi hanno vista e hanno capito subito di cosa avevo bisogno». Gli uomini danno dolore, gli uomini lo tolgono. Forse anche loro avevano le sopracciglia.
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«Le persone affrontano il dolore in modi diversi», scrive Joanna Bourke in The Story of Pain (2014). Un modo è raccontare a noi stessi delle storie. È una punizione divina, una diagnosi medica. Il dolore che deriva dall’adempimento dei nostri doveri – una ferita subita prestando soccorso a qualcuno, magari – è più sopportabile di una ferita causata da un incidente imprevedibile. Indubbiamente, agli uomini e alle donne viene insegnato a reagire al dolore in modo diverso – tenerselo dentro o sfogarsi – quindi non può sorprenderci se è quello che fanno. Ma altri fattori, come il retroterra religioso o la storia medica, possono influire altrettanto sull’esperienza.
Per testare l’influenza dell’apprendimento sociale sul dolore, lo psicologo Ronald Melzack condusse un esperimento sui cani. Isolò dei cuccioli alla nascita, proteggendoli da qualsiasi stimolo doloroso, finché non cominciò a sottoporli a ustioni o punture. Non individuò nessuna delle vocalizzazioni che si aspettava, e i cani sembravano incapaci di comprendere l’origine di quelle sensazioni. Faticavano a trovare un modo di proteggersi da attacchi e aggressioni. Melzack concluse che provando dolore in un gruppo, impariamo come reagire e come riconoscere chi ci fa del male.
Effettivamente «uno degli aspetti che caratterizzano il dolore», scrive Bourke, «è la misura in cui porta le persone a unirsi in comunità».
La storia ce lo dimostra, dalla formazione dei gruppi di supporto al raccoglimento della famiglia intorno al capezzale. E oggi, donne che condividono storie di molestie e violenza su Twitter al fine di creare un senso di comunità.
Sotto l’insegna di #yesallwomen, le donne hanno raccontato di essere state stuprate, di aver affrontato molestie per strada, di essere state toccate contro la loro volontà. Altre hanno parlato di come non vengono prese sul serio a scuola o sul lavoro. Le storie hanno preso una certa forma. Alcuni tweet sono stati considerati più rappresentativi delle esperienze delle donne, e così sono stati condivisi e preferiti di più, e altre donne hanno cominciato a confezionare i loro in conformità. Ne è venuta fuori una specie di gara al rialzo, con lamentele che si facevano sempre più drammatiche. E quando un osservatore ha fatto notare che i tweet più visibili erano di donne bianche, mentre le donne delle minoranze etniche subiscono molte più violenze, alcune di loro hanno risposto ai critici: state zitti, tutte le esperienze delle donne sono valide, non cercate di metterci a tacere.
Questa reazione alle critiche non dovrebbe sorprendere. L’hashtag #yesallwomen è stato creato d’istinto perché gli uomini ascoltassero la versione delle donne, perché ascoltassero le loro storie, perché fosse avvalorata la loro realtà. Ma la sua veemenza ha chiuso le possibilità di comunicazione, in particolar modo con quelli che dicevano: «Non tutti gli uomini si comportano in questo modo».
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Nei post dedicati alla violenza sulle donne, la sezione dei commenti segue uno schema prevedibile. Alcuni critici mettono in dubbio la validità del post o contestano le azioni dell’autrice. Se, ad esempio, una donna scrive di una relazione con un partner violento, qualche uomo chiederà inevitabilmente: «Be’, perché non lo hai lasciato?» A quel punto altri commentatori, una cricca che segue tutti i post del sito, partirà all’attacco e accuserà il primo di colpevolizzare l’autrice (dandole della puttana, rimproverandola di fare la vittima, ecc.). Si è messa allo scoperto davanti al mondo e va sostenuta per aver mostrato tanto «coraggio». In genere l’autrice farà una comparsata per ringraziare i suoi lettori di averla difesa dall’aggressione.
Quando ho criticato pubblicamente il libro di una scrittrice per quello che ritenevo essere un errore madornale, lei non si è limitata a inviarmi una serie di email sempre più deliranti in cui pretendeva delle scuse, ma a stretto giro mi ha sguinzagliato contro anche i suoi follower di Twitter. Quando il suo libro ha ricevuto una recensione negativa su una rispettata testata online, lei ha twittato il link, e la sezione dei commenti si è riempita velocemente di amici e fan che chiedevano la testa del critico.
L’atteggiamento difensivo, che ho osservato esclusivamente in reazione a scritti di donne, si è insinuato nei libri stessi. L’autrice si aspetta di ricevere un certo tipo di critica e costruisce preventivamente una versione distorta del dissenziente, in modo da deviare facilmente qualsiasi critica. In Bad Feminist (2014), Gay immagina pretestuosamente un tipo di femminista priva di humor e con i peli sulle gambe, che troverebbe inaccettabile il suo femminismo meno rigido. È facile, dunque, far ricadere chiunque critichi il libro in quel ruolo stereotipato. In The Empathy Exams, Jamison elude le critiche immaginandosi che le sue detrattrici rifiutino di ammettere la loro vulnerabilità. Per Jamison le donne che non credono di essere ferite sono «post-ferite»: «Diffidano del melodramma quindi ostentano indifferenza o superiorità».
Se sei ferita, qualsiasi cosa fai è coraggiosa e ineccepibile. Se sei ferita, puoi permetterti di dire che qualsiasi ritratto di donna bugiarda o manipolatrice è nocivo per la cultura e per tutte le future donne ferite. Se sei ferita, puoi controllare quello che si dice e si pensa di te, e puoi provare a creare un mondo libero dalle critiche.
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Il mondo non è un posto sicuro. Ci fa male, ci prende a spintoni, ci sottopone a ustioni e punture. Così raccontiamo a noi stessi e agli altri delle storie che ci aiutano a capire i come e i perché. Se non lo facessimo saremmo tutti come i cani di Melzack, incerti su cos’è a farci male o su come difenderci.
Ma è facile cadere in una diagnosi errata del problema, e a quel punto ci sfuggirà anche la terapia appropriata. Universalizzare il nostro dolore sfida la cultura a difenderci, ma riduce la responsabilità individuale. Queste storie trovano riscontro perché avvalorano le nostre sensazioni – ci sentiamo vulnerabili, scosse – e ci spiegano semplicisticamente come mai ci sentiamo così. Se rivendichiamo la vulnerabilità come nostro stato naturale, non c’è niente che dobbiamo cambiare. È il mondo che deve cambiare per noi.
Sostenere che ci distinguiamo dagli uomini per via della nostra vulnerabilità è una storiella facile e confortante. Gli uomini sono il nemico e possono riscattarsi stravolgendo la loro natura a nostro beneficio, proteggendoci. Ma così finiamo per alienarci dalla nostra umanità. Così non siamo membri attivi della società, ma ne siamo semplicemente in balia.
© Jessa Crispin, 2015. Tutti i diritti riservati.
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