In questi giorni la redazione si è sparpagliata nelle case di tutti noi: ecco allora i dispacci dalle sedi distaccate di SUR, che mai come adesso si sente una CASA editrice. Oggi scrive Giulia Zavagna, editor e redattrice.
Cari lettori,
l’hanno detto tutti, già detestiamo l’espressione eppure non possiamo fare a meno di pensarlo: questo è un tempo sospeso. Vorrei continuare a parlarvi delle uscite che stiamo progettando, dei libri a cui stiamo lavorando, ma non è semplice farlo senza avere alcuna certezza di quando riprenderemo effettivamente le pubblicazioni.
C’è però qualcosa che possiamo fare, che di fatto facciamo ogni volta che ci troviamo a prendere una nuova decisione: tornare al catalogo. La cosa più bella per ogni editore è forse la possibilità di costruire, anno dopo anno, un percorso, una lista dalla quale non ci stanchiamo di attingere, una sorta di punto di riferimento, che rappresenta il nostro lavoro e rimane, si spera, sempre molto oltre la corsa all’ultima novità.
Così ho deciso di affidarmi proprio a quel catalogo, e di parlarvi di uno degli autori SUR a cui sono più legata: Juan Carlos Onetti.
Quando ho letto il suo Raccattacadaveri, ormai più di dieci anni fa, ho subito avuto la sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa che mi sarebbe rimasto in testa a lungo. Chi se la scorda quella scena iniziale con le tre donne che arrivano in treno a Santa María? E come dimenticare la storia di Larsen, la sua parabola di trionfo e declino, i messaggi anonimi che corrono veloci per tutta la città, segnando per sempre la sua sventura? Come dimenticare il profumo dei gelsomini?
Ripensandoci, credo sia stato proprio questo libro a farmi pensare per la prima volta che avrei voluto occuparmi di letteratura latinoamericana: per tutta la vita che ci ho trovato dentro, per la lingua meravigliosa, per il racconto che, dall’Uruguay, Onetti faceva dell’umanità tutta.
È stato uno dei primi autori latinoamericani che ho letto, e da allora non ho più smesso. Né ho smesso di interessarmi a Onetti, al suo occhio infallibile per la miseria umana, alla sua prosa densissima e squarciata a tratti di una luminosità così potente da lasciarti stupefatto. Eccone un piccolo assaggio:
Sono le undici di sera; percorro a occhi chiusi il corridoio buio, ascolto ansiosamente la pioggia, ormai molto leggera. Esco fuori e la riascolto sugli alberi del giardino, tiro in lungo per far passare il tempo, per arrivare tardi all’appuntamento, perché lei possa pensare che mi perderà. Non cerco di aumentare la sua pazzia o la sua freddezza, ho paura che crescano troppo, che lei non le possa sopportare e che arrivi a spiegare tutto, a sostituire con qualcosa di concreto, di permanente, quest’assurdo notturno, rituale, nel quale mi è possibile restarmene comodo, incrostarmi senza capire.
Voglio soltanto farle capire che la sua esistenza non è indispensabile alla mia; che io sono io, Jorge, non lei né il suo gioco. Io sono io, questo essere, questo loro «ragazzino», triste, diverso, incerto e saldo quanto nessuno di loro potrebbe mai sospettare; così discosto e così incombente su tutti loro. Io sono costui che guardo vivere e fare, con simpatia, senza amore eccessivo; io sono costui con la pazienza cortese e inesauribile nei confronti di ognuna delle commedie tediose e senza spirito nelle quali loro si ostinano a complicarsi per far sì che gli riesca intelligibile, per preservarsi dalle novità e dalle diffidenze. Cammino in un giardino curato e umido, mi lascio bagnare il viso dalla pioggia che non spiega nulla, penso oscenità distratte, guardo la luce della finestra dei miei. Non voglio imparare a vivere, ma scoprire la vita una volta e per sempre. Giudico con passione e vergogna, non posso impedirmi di giudicare; tossisco e sputo verso il profumo dei fiori e della terra, ricordo la condanna e l’orgoglio di non partecipare alle loro azioni.
Alla fine mi decido e arrivo, freddoloso, eccitato, fino alla radice dell’edera che incornicia la finestra di Julita e che stende qualche macchia violacea sul muschio e sul sudiciume dei muri. Mi alzo in punta di piedi e fischio; penso che lei non scenderà, che è morta assieme al resto, con tutto quello che è iniziato quel pomeriggio d’estate in cui Julita, dopo il funerale di mio fratello nel cimitero della Colonia, ha cominciato a impazzire, a guardarmi, a inseguirmi per mettersi solo dove potesse vedermi, e da lì guardare senza chiedere nulla, senza né supplica né curiosità né amore né intenzione, solo per guardarmi e placare i timori che lei mi attribuiva, alzando il labbro, mostrando quello che ambedue ci costringemmo a scambiare per un sorriso. Torno a issarmi, a fischiare; la finestra si oscura e si apre, riconosco il tono di accusa e di benvenuto della domanda. Non rispondo.
Juan Carlos Onetti, Raccattacadaveri, traduzione di Enrico Cicogna
Onetti, che ebbe quattro mogli e infiniti amori (qui potete leggere la meravigliosa storia di Dorotea Muhr, detta Dolly, la donna che gli fu accanto per più di quarant’anni; mentre qui potete ascoltare una delle splendide e desolanti poesie che Idea Vilariño, poetessa uruguayana, gli dedicò. Lui aveva dedicato a lei il romanzo breve Gli addii, e a Dolly, «ignorato cane della felicità», il racconto «Il volto della disgrazia», dal volume Triste come lei).
Onetti, che nel 1974 finì in carcere per aver premiato il racconto «El guardaespaldas» di Nelson Marra in un concorso organizzato dalla rivista Marcha. In Uruguay vigeva la dittatura di Bordaberry, e il racconto premiato parlava troppo apertamente di tortura. Poco dopo quei tre mesi di reclusione decise di autoesiliarsi a Madrid, e non fece più ritorno né a Montevideo né a Buenos Aires.
Onetti, che proprio fondendo quelle due città creò la sua Santa María, da tanti paragonata alla Yoknapatawpha faulkneriana, scenario delle sue opere più grandi: il già citato Raccattacadaveri, Il cantiere, e soprattutto La vita breve, origine di tutto l’universo onettiano, a sua volta creazione dell’indimenticabile Brausen: già, perché «con Onetti i piani narrativo e temporale si sfalsano continuamente», come ben scrive Marco Cremonini (amico, lettore e onettiano straordinario: date un’occhiata alla sua guida alla lettura, e capirete).
Onetti, che in Spagna sentì la mancanza del suo Río de la Plata al punto da ridurre al minimo la vita sociale e, complice una gamba incancrenita che ne ridusse la mobilità, passare gli ultimi anni di vita senza praticamente mai alzarsi dal letto, interviste comprese.
Onetti, che quando nel 1980 si vide assegnare il Premio Cervantes, maggior riconoscimento letterario in lingua spagnola, esordì nel suo discorso dichiarando di non saper parlare, «né bene, né male. Parlo male in privato, e parlo peggio in pubblico, ragione per cui sarebbe meglio per voi se non dicessi nulla», e concluse ringraziando la giuria per «questo delirio, perfino superiore al mio».
Onetti, che diceva gli scrittori dovessero mentire sempre.
Insomma, Onetti. Avrete intuito che potrei andare avanti a scriverne a lungo (a parlarne no, condividiamo la mancata eloquenza), eppure mi accorgo di avervi detto più dello scrittore, dell’uomo, che dei libri.
Forse perché tra i libri non so scegliere, o semplicemente preferisco lasciare la parola a chi sa raccontarli molto meglio di me: come fa Tommaso Pincio con Il cantiere, o Matteo Nucci con Gli addii, o Valeria Parrella con Il pozzo, o ancora Antonio Pascale con Per una tomba senza nome.
O forse perché i libri parlano benissimo per sé: che dirvi dei racconti di Triste come lei, per esempio, se non che vi basterà leggerne uno per volerne ancora? Qui trovate uno dei miei preferiti in assoluto, «Esbjerg, sulla costa».
In questi giorni torno a Onetti, quindi, torno a dare uno sguardo al catalogo, penso a come organizzare le prossime pubblicazioni, attendo con gioia la nuova traduzione della Vita breve, a cui sta lavorando Gina Maneri, di prossima uscita. Ma soprattutto lo leggo e lo rileggo, e ogni volta ci trovo dentro cose nuove, ogni volta ci trovo nuove cose di me.
Magari oggi viene voglia anche a voi, e se fosse la prima volta e aveste ancora tutto questo mondo da scoprire, quanto vi invidierei.
A presto e buone letture,
giulia
p.s. Un’altra cosa bella che ho fatto in isolamento, a parte curare questa newsletter con i colleghi, è questa qui.
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