Pubblichiamo una nuova recensione a Sopra eroi e tombe uscita su Blow Up. Ringraziamo l’autore e la rivista per la gentile concessione.
di Fabio Donalisio
La mia specialità è sempre stata farmi nemici. Così Ernesto Sábato dice di sé. E scrivere poco e, per usare una categoria critica pregnante, con i contro cazzi. Avrebbe potuto aggiungere. Nono di undici fratelli di una famiglia di immigrati italiani, nasce nel 1912 a Rojas (Buenos Aires). La timidezza imbarazzata davanti alla vita e l’atteggiamento di rifiuto dal mondo sul quale riversa un malumore appuntito e un senso dell’umorismo perverso e tagliente lo caratterizzano sin da piccolo. Trascorre l’infanzia arroccato nei suoi pensieri, mostrando una maturità intellettuale tanto profonda e abissale quanto incapace di rapportarsi con gli altri coetanei. Come dichiarerà in una delle poche interviste concesse (da lui ritenute così inessenziali), il suo personaggio più amato è proprio il Martín adolescente di Sopra eroi e tombe, in cui infonde quegli anni di solitudine intensa. Nel ’29 inizia a studiare Fisica e Matematica all’università e simpatizza subito i gruppi anarchici. È però la solidità del partito comunista e il suo potere dogmatico ad attirarlo con maggior forza. L’impegno civile lo accompagnerà per tutta la vita e costituirà il nucleo tematico della sua produzione saggistica. Fisico promettente, nel ’38 parte per Parigi dove frequenta il dottorato presso il laboratorio Curie, specializzandosi nelle radiazioni atomiche.
Il primo grande approccio con la letteratura avviene attraverso i surrealisti, tra cui Breton. L’interesse per la sofferenza umana più profonda lo avvicina anche alla psicoanalisi, scienza che anni dopo esperimenterà nelle pagine della Rapporto sui ciechi, grumo nero autonomo e meraviglioso di Sopra eroi e tombe. Nel ’40 torna in Argentina dove riesce ad avere un posto di docente universitario. L’amicizia con Silvina Ocampo, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares e la collaborazione con alcuni giornali di Buenos Aires lo rendono figura centrale della scena letteraria argentina. Una crisi esistenziale fortissima lo attanaglia e tutto fa temere il suicidio come epilogo. La riflessione sull’impotenza della scienza per spiegare l’afflizione dell’anima dell’uomo, prenderà forma nel romanzo Il tunnel, (El túnel, 1948). La mancanza di formazione umanista lo fa soffrire oltremodo, fino al punto di essere vissuta da Sabato come una sconfitta personale. Non sono uno scrittore professionista, nel senso proprio della parola, arriva a dichiarare. Abbandona la carriera di scienziato per fedeltà alla (sua) condizione umana e legge senza sosta. Ama Stendhal, Proust, Kafka, Hemingway, Faulkner, George Elliot e sopra tutto Thomas Mann. L’attacco diretto contro il regime di Perón, sul giornale La Nación, nel ’45, lo costringe a dare le dimissioni come insegnante e pone fine all’amicizia con Borges che pubblicamente dichiara il dissenso con le idee di Sábato. Nel 1976 il colpo di stato Jorge Videla inaugura gli anni della dittatura in Argentina. Dopo la La guerra delle Falkland e la caduta del dittatore, svolge vari carichi importanti e scrive il famoso Rapporto Sábato sui desaparecidos. Riceve il Premio Cervantes e il Premio Gabriela Mistral nel 1984. Abbandona definitivamente la scrittura per dipingere e vive ancora a Santos Lugares, accumunato con Borges nella cecità. Sono sostanzialmente tre i romanzi di Sábato, lontani tra loro nel tempo e accuratamente legati da una serie di rimandi tematici, concettuali, emotivi. Una sorta di percorso, faticoso e sofferto, nella vita nella storia e nel modo stesso di raccontarla, di scriverla. Sopra eroi e tombe è il cuore di questa strada stretta. Un romanzo pulsante, creatore, straziante, avvolgente. Giustamente considerato uno dei libri argentini più importanti di sempre. Le vicende di due adolescenti “problematici” (così si direbbe ora), si innestano sulla travagliata storia dell’Argentina incarnata da una famiglia dell’oligarchia pre/peronista che si crogiola tra memoria e decadenza. Martìn e Alejandra tentano un’ impossibile realizzazione dell’amore in un contesto di personaggi scomodi, ognuno portatore di complesse verità. Intorno, una normalità quasi oscena, una lotta per la sopravvivenza che a tratti si fa politica, ma spesso è solo disperata. Il plot è minimale e lascia lo spazio alle infinite digressioni di uno scrittore il cui virtuosismo nel creare eguaglia quello nello scrivere. Perché è un enorme piacere leggere queste pagine. Sì, piacere. Sentire fluire dentro di sé una conoscenza di origine ignota, un mondo che prende forma e ci possiede. La grande letteratura ne è capace. La grande letteratura latinoamericana ne è maestra (e Bolaño paga più di un pegno). Su tutto svetta come un gioiello opaco, nero, il Rapporto sui ciechi. Vero e proprio romanzo nel romanzo, pari al grande inquisitore di russa memoria. Un grumo di stile e forza, capolavoro di invenzione e scandaglio della psiche. Non a caso è stato pubblicato anche autonomamente. Il Rapporto è lo snodo su cui si inserisce la seconda linea narrativa del libro, il personaggio di Fernando, uomo abissale, specialista della colpa, impossibile sintesi di surrealismo e psicanalisi. Sábato descrisse Sopra eroi e tombe come un tentativo di incunearsi nelle ultime verità (spesso atroci) che ci sono nel sottosuolo dell’uomo. Quei sotterranei dove la biografia e la storia fluiscono lente e cupe, senza possibilità di fuga. Ma è da questa impasse che si scatena la meraviglia. Con pazienza certosina Sábato descrive minutamente, con un’empatia assoluta, l’invitabile imperfezione dell’uomo. La sua necessità di mito, l’inefficacia della ragione. Tranne qualche eccezione, tutti i miei personaggi sono frutto del mio cuore. Tutti emanati dalla mia incoscienza che non mi tradisce mai. Il cuore dei mortali è un insieme di contraddizioni, alcune delle quali terrificanti, come succede negli incubi. Tutti siamo, e non alcuni, un insieme di bontà e malvagità, ateismo e spirito religioso, generosità ed egoismo, coraggio e paura. […] Ho sempre scelto i temi seguendo l’istinto. La ragione serve per dimostrare teoremi o fabbricare marchingegni, ma non all’esistenza dell’uomo. All’anima dell’essere umano, nel profondo, la ragione non serve a niente. Per ciò il naturalismo è superficiale, non raggiunge la condizione umana più profonda che è sempre e comunque sopranaturale. Così in un’intervista del ’96. Da vero (e raro) umanista vede lucidamente i rischi della razionalità. Capisce la follia di un mondo creato dall’uomo nel vano tentativo di superarsi. Di non morire. Dallo scontro doloroso degli opposti nasce la sua arte, tanto pacata quanto piena di sangue. Che non cede mai al tranello dello spiegare, ma coltiva la difficile lentezza del guardare. Fino a una cecità che è insieme fisica e ontologica. Guarda, Martìn, disse lei mentre versava il caffè nella tazza, questi geni soffrono per gli altri, e gli altri non sono che rompiscatole, figli di puttana o cretini, capito?
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