«Non esiste un’esperienza monolitica della mascolinità»: un intervento di Brian Gresko. L’articolo è apparso originariamente su The Rumpus. Ringraziamo l’autore.
di Brian Gresko
traduzione di Laura Bortoluzzi
Cosa significa per gli uomini parlare del loro essere uomini? In genere significa non parlarne affatto, per lo meno non in modo non filtrato, accurato, autentico. L’autocensura è un perverso diritto di nascita tramandato di padre in figlio.
Crescere con un padre che incarna la tradizione patriarcale del maschio-alfa vuol dire conoscere dolore e repressione. Mio padre chiamava regolarmente le donne al volante «troie» e «puttane» ogni volta che non mettevano la freccia o invadevano all’improvviso la sua corsia. A volte gli si affiancava con la macchina e abbassava il finestrino per urlargli contro parolacce e oscenità. Da bambino, anche solo dirgli «Calmati, papà» significava rischiare di vedere quell’ira rivolta contro di me, perché – ovvio! – mio padre aveva sempre ragione. Tutte le donne erano pessime guidatrici. Tutti gli afroamericani, che apostrofava con il termine «mulignan» (insulto razziale derivato dall’italiano «melanzana»), erano criminali. Tutti i bianchi poveri erano dei «pezzenti». Mettere in discussione questi stereotipi o deviare dalla sua alquanto limitata gamma di comportamenti maschili significava scatenare un conflitto, essere mortificato o addirittura punito.
Così tacevo, e per lo più anche lui, sugli aspetti positivi e negativi del nostro rapporto. Di recente, guardando Thor con mio figlio di sei anni, ho visto un’esitazione paterna a me fin troppo familiare. Alla fine del film, scongiurata la catastrofe, Odino guarda il magico regno di Asgard e dice a Thor: «Sono orgoglioso di te, figlio mio».
In quell’attimo di silenzio Thor sembra felice, ma a me è venuto un groppo in gola. «In realtà Odino voleva dire: “Ti voglio bene, Thor”», ho detto a mio figlio. «Sarebbe stato bello se gliel’avesse detto senza giri di parole, e lo avesse abbracciato».
Ma da tradizione i tipici maschi americani non si toccano né si dicono: «Ti voglio bene». Non l’ho sentito dire spesso a mio padre, bianco, nella mia casa d’infanzia in periferia, né l’ho visto fare quando insegnavo a New York a bambini di colore disagiati. In America ogni razza ha un suo specifico concetto di mascolinità, ma c’è una cosa valida per tutte: per gli uomini cisessuali la posta in gioco può essere alta quando si tratta di comportarsi da uomo. L’impressione che dava mio padre era che o eri un uomo come lui, un suo pari meritevole di rispetto, o non eri un uomo, e non eri degno della minima considerazione.
Per ragioni a me oscure, i tradizionali panni da macho con cui mio padre andava in giro a me sono sempre stati stretti. Ho trovato esempi migliori di cosa un uomo deve o non deve fare nella cultura pop. David Bowie. Tori Amos. Prince. Liz Phair. Jerry Seinfeld. Sentivo un legame molto esile con il mio genere e provavo un sentimento di non appartenenza, sia con i miei amici che, ben più importante, a casa. I messaggi di mio padre arrivavano sottili e costanti, goccia a goccia, come una tortura. «I ragazzi non piangono». «I ragazzi fanno sport». «I ragazzi non fanno scarabocchi né sogni a occhi aperti». «I ragazzi leggono libri di pirati, non di principesse magiche». Più tardi sono diventati: «Staccati un attimo dai libri ed esci», e poi: «Sarai anche bravo a scuola, ma della vita vera non sai un cazzo» – dove per vita vera intendeva il mondo degli uomini.
«Sei gay?», mi chiese mio padre quando ero alle medie. Se lo fossi stato credo che gli sarebbe stato più facile interagire con me, perché questo avrebbe spiegato come mai non sembravo «un maschio», cioè un eterosessuale. Invece io lo confondevo e così entrare nell’età adulta ha significato per me ridurre al minimo gli argomenti di discussione sia con mio padre sia con mia madre che, da brava moglie anni Cinquanta vecchio stampo, lo accudisce in tutto e per tutto come una madre. Perfino adesso che sono padre anch’io parliamo raramente della paternità. Non abbiamo niente in comune.
Allo stesso modo, lui non capisce il mio desiderio di scrivere. È un operaio figlio di immigrati che non è mai andato al college. Non gli interessano i libri, New York, il mondo del web; non ha mai avuto un indirizzo email e usa internet solo per guardare i video porno. Ha espresso la sua ammirazione per la mia abilità nel parlare in pubblico, ma si è anche domandato perché mi credo così speciale da poter dire la mia su un qualsiasi argomento. Scherzando gli ho risposto: «Non lo so nemmeno io». L’autodenigrazione è un modo per evitare i conflitti, per inchinarmi alla sua autorità senza perdere del tutto la faccia, una strategia che ho imparato da bambino.
Vi racconto tutto questo per spiegarvi che non esiste un’esperienza monolitica della mascolinità: anche chi sembra vivere dentro il patriarcato in realtà non ci vive, né vorrebbe farlo. Questa sensazione è disgustosamente vicina all’affermazione «non tutti gli uomini». So che questa frase viene usata per sviare le discussioni su violenza sessuale e sessismo, o quantomeno per dare a chi la pronuncia la parvenza dell’eccezione. Confesso di aver avuto anch’io i miei comportamenti da ragazzaccio. Al college mi dibattevo fra l’urgenza di essere una persona migliore e il desiderio di agire da uomo, due cose che spesso sembravano in opposizione. Avevo un nutrito gruppo di amiche molto care, ma conquistarmi la loro fiducia e il loro rispetto significò adottare degli atteggiamenti che mio padre avrebbe definito effeminati, il che forse spiega perché per un po’ mi feci crescere i capelli tenendoli all’indietro con delle mollette di plastica: mi sentivo più a mio agio a esprimere il mio lato femminile che quello maschile. Ma all’ultimo anno, con l’incombere della laurea, la fine della giovinezza e l’ingresso nell’età adulta, ebbi una specie di crisi.
Quel semestre di primavera mi ornai di sovrabbondanti tropi maschili – alcuni imparati a casa, altri racimolati da Kerouac e Henry Miller – come un bambino che prova il completo del suo vecchio. Bevevo troppo e troppo spesso e facevo battute sconce sul mio uccello. Una volta le mie coinquiline organizzarono una serata in casa fra sole donne e io entrai dalla finestra con degli amici. Piombammo in salotto, con i pantaloni calati, senza renderci conto di quanto si sarebbero spaventate le mie coinquiline di fronte a una simile irruzione. «Rilassatevi», gli dissi, parole che da bambino sentivo dire a mio padre ogni volta che aveva offeso qualcuno. Non molto dopo, a una festa per la fine degli esami, aggredii verbalmente una delle mie più care amiche nel più abietto dei modi. Si consultò con altre ragazze che mi conoscevano per discutere della contromisura da adottare e poi decisero che il modo migliore per farmi capire la gravità del mio gesto era denunciarmi. L’indomani mi ritrovai, colmo di rimorsi e odio verso me stesso, di fronte al capo della sicurezza del campus. Scoppiai a piangere, rendendomi conto di essere passato dal fare battute sui comportamenti da maschio stronzo all’essere io stesso un maschio stronzo. Provai tanta vergogna.
Per via di quella esperienza, e del costante sostegno delle mie amiche; per essermi interessato ai lavori di tante artiste donne, e aver fatto tante letture, aver scritto con disciplina ed essere andato in terapia; per aver deciso di essere un padre-casalingo mentre mia moglie lavorava a tempo pieno, e per chissà quali altri fattori, sono pian piano diventato sensibile alla causa femminista. Il processo è stato troppo lungo e non finirà mai davvero, ma è avvenuto. Ora, quasi ogni giorno, sono disgustato, arrabbiato e sconcertato dal comportamento del mio genere e spesso anche della mia razza. Uomini bianchi seminano il terrore nelle scuole, nei centri commerciali e in altri luoghi pubblici del nostro paese con aggressioni armate, sopprimono le libertà riproduttive delle donne nelle legislazioni statali e nazionali, e sostengono la candidatura alle presidenziali di un razzista e sessista come Donald Trump, solo per citare alcune questioni attuali che mi danno il voltastomaco. Sento questi uomini parlare in un crescendo di retorica, trasformare ogni problema in una crisi, ogni straniero in un nemico, ogni disaccordo in una rissa all’ultimo sangue, e mi torna in mente mio padre.
Come lui, questi uomini sono spaventati, ancora frastornati dagli attacchi dell’11 settembre, la conseguente recessione e il tracollo finanziario, e dai tanti cambiamenti sociali che minacciano i loro valori e quello che considerano l’ordine naturale del mondo, in cui loro si trovano in cima, incontrastati, sempre nel giusto. I veri uomini non hanno mai paura, e quindi per effetto di un’alchimia emotiva trasformano inconsciamente questa paura in rabbia. Rivolgono all’esterno il loro disagio, contro le donne, i neri, i musulmani, i poveri, chiunque non è come loro. Conosco bene questa reazione, perché l’ho vista da vicino. È più semplice criticare gli altri, identificare il nemico come qualcosa al di fuori di noi anziché vederlo riflesso allo specchio. È un gran bel casino.
Purtroppo a volte ho visto questo estremismo infiltrarsi anche nella comunità letteraria. Troppo spesso i dibattiti sul genere, la razza e l’inclusione nel mondo editoriale di voci storicamente marginalizzate finiscono in rissa, soprattutto sui social media. Di recente ho visto una giovane e brillante scrittrice postare un tweet in cui diceva che avrebbe messo al rogo gli uomini bianchi. Proprio gli uomini. Non i loro libri, o se era quello che intendeva dire, non è ciò che ha trasmesso il suo linguaggio. Mentre altrove vedo inviti ai maschi bianchi a chiudere la loro cazzo di bocca, scritti in maiuscolo. A volte faremmo bene a farlo, senz’altro. Ma se come società dobbiamo discutere di genere, razza e religione – le nostre identità primarie – allora abbiamo tutti diritto di parola. Insinuare che non sia così significa fare discorsi sorprendentemente simili negli obiettivi e nei metodi a quelli dell’eteropatriarcato cisessuale.
Ma l’ideologia tossica e repressiva è dura da scardinare. L’editoria è uguale a ogni altro settore economico, il che significa che, per sua natura, è conservatrice, perché risponde alla domanda del mercato anziché crearla. Vedo donne chiedere più libri che rispecchino le loro esperienze e premiarli con attenzione e successo di vendite, ma non trovo un’uguale richiesta di libri che mettano in discussione gli stereotipi maschili. E non parlo in via teorica, ma per esperienza personale.
Nel 2014 ho curato per la Berkley Books When I First Held You, un’antologia di romanzieri che affrontavano il tema della paternità. Il progetto aveva per me una valenza personale: ero un padre casalingo e trovavo frustrante che la paternità raccontata dalla prospettiva maschile fosse un tema poco esplorato in letteratura. Raccogliere i vari saggi è stato anche un atto politico, un modo per smontare ciò che Rebecca Traister sul New Republic aveva chiamato «il club segreto dei papà» e includere gli uomini nel dibattito sulla genitorialità. Vendere il libro è stato difficile. Durante una conference call, una editor interessata al progetto mi ha detto che i miei lettori sarebbero state soprattutto donne perché gli uomini non comprano libri, specie sulla paternità. Alla fine non è riuscita a convincere la sua casa editrice a scommettere sul libro. Ritenevano che avesse un pubblico troppo ristretto e purtroppo avevano ragione.
Quando ero più giovane e mi resi conto di non avere un buon modello maschile a casa, mi rivolsi ai libri. Non mi piacque ciò che trovai. Con l’antologia speravo di raccogliere delle storie che ampliassero, e non limitassero, il significato dell’«essere uomo», e in particolare dell’essere padre. Credo che quasi tutti gli scrittori, al di là del loro background, condividano questo mio sentire: è la mancanza di letteratura sulla loro esperienza ad alimentare il motore della creatività. Certo, c’è chi cerca fama e ricchezza e quindi racconta le storie che la nostra cultura vuole sentire, e il suo lavoro si inscrive nelle norme e nei privilegi di genere che finisce col rafforzare. Dovremmo essere cauti ad acclamare questi libri e pretendere che agenti letterari, editor, uffici stampa, critici – i guardiani del gusto letterario – riservino i pochi, preziosi, spazi a loro disposizione a storie che non seguono il gregge ma vanno nella direzione opposta. Ciò che noi scrittori non dovremmo fare, però, è prendere qualunque gruppo di persone – donne bianche, uomini neri, uomini bianchi, ecc. – e fare di tutta l’erba un fascio, dicendo che loro sono il problema. Così funziona il patriarcato, così fanno i razzisti, e noi scrittori siamo più riflessivi, consapevoli, compassionevoli e coraggiosi, o almeno dovremmo esserlo.
Come scrive Eula Bliss sul New York Times, «il fatto di essere bianco non definisce chi sei», e allo stesso modo la mascolinità è un costrutto sociale che non definisce tutti gli uomini intesi in senso biologico: alcuni di noi ne sentono anche il peso opprimente. Certo, è radicalmente diverso scriverlo se sei un maschio bianco e non un nero, o una donna, o un transgender. Il patriarcato vuole reclamarmi come suo membro: sono io che oppongo resistenza. Letteralmente, ho opposto resistenza. Anni fa, quando lavoravo alla Hearst Corporation, un dirigente più anziano, un maschio bianco, mi assicurò che un giorno anch’io avrei potuto avere un ufficio da manager come lui. Lasciai quel lavoro per diventare assistente universitario a New York. Ho rifiutato di entrare nel club, ma almeno io ho avuto l’occasione di uniformarmi laddove a molti non viene data. So che ci sono anche altri membri della resistenza, ma spesso sui mass media e nei miei incontri quotidiani non sento gli uomini parlare della loro mascolinità – di ciò che significa per loro, di come la esprimono, a quali ideali culturali tendono e da quali rifuggono; seguono invece il codice maschile del silenzio, il rifiuto dei discorsi sui sentimenti, e il senso di colpa, il disagio, il rimorso. Messaggi del tipo «chiudi quella cazzo di bocca» involontariamente rafforzano questi atteggiamenti.
Non c’è una sola storia che parli per tutti gli uomini, o per tutti i bianchi, così come sono certo che non esista un’unica narrazione che calzi a pennello per tutte le donne. Se la lettura mi ha insegnato qualcosa, è che il mondo è un posto complesso pieno di molti tipi, molte voci, e che ce ne sono altre, là fuori, ora visibili solo in virtù della loro assenza. Abbiamo bisogno di ascoltare tutti, anche chi ci mette a disagio, anche chi, con le sue storie, porta alla luce parti di noi che preferiremmo non vedere. Gli scrittori dovrebbero seguire l’esempio delle scrittrici e raccontare come le forze patriarcali li hanno costretti dentro forme rigide e scomode, e le loro esperienze non andrebbero ignorate solo per via del loro genere. Non possiamo avere paura di fare una conversazione, che significa sia parlare che ascoltare; non possiamo permettere al disagio di diventare paura e poi rabbia distruttiva, non possiamo accostarci all’auto di chicchessia e mortificarlo, o vederlo solo in termini stereotipati, non è giusto. Dobbiamo essere migliori delle forze opprimenti e mentalmente ristrette del silenzio e della stagnazione. Altrimenti non cambierà un bel niente.
© Brian Gresko, 2016. Tutti i diritti riservati.
Brian Gresko è saggista, critico, autore di racconti e curatore dell’antologia When I First Held You: 22 Critically Acclaimed Writers Talk About The Triumphs, Challenges, and Transformative Experience of Fatherhood. È co-conduttore degli incontri letterari del Pete’s Candy Store di Brooklyn.
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