Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte dell’intervento critico dello scrittore argentino Guillermo Martínez, in polemica con César Aira.
Guillermo Martínez (1962) è autore di «Infierno grande» (racconti), e dei romanzi «Acerca de Roderer», «La mujer del maestro», «Crímenes imperceptibles» («La serie di Oxford»; trasposta al cinema dal regista Alex de la Iglesia; Mondadori, 2004, traduzione di J. Da Rin), «La muerte lenta de Luciana B.» («La lenta fine di Luciana B.»; Mondadori, 2010, traduzione di J. Da Rin), e «Yo también tuve una novia bisexual». Ha anche scritto i saggi «Borges y la matemática», «La fórmula de la inmortalidad» e «Gödel» (para todos), quest’ultimo in collaborazione con Gustavo Piñeiro.
di Guillermo Martínez
traduzione di Amaranta Sbardella
Lo strumento principale delle avanguardie, sempre secondo la mia personale opinione, è il procedimento. […] In questo senso, intese come creatrici di procedimenti, le avanguardie continuano a esistere e hanno riempito il secolo di mappe del tesoro che aspettano di essere usate. Costruttivismo, scrittura automatica, ready-made, dodecafonismo, cut-up, caso, indeterminazione. I grandi artisti del XX secolo non sono coloro che hanno realizzato delle opere, bensì coloro che hanno inventato dei procedimenti perché le opere si realizzassero da sé, o non si realizzassero. A cosa ci servono delle opere? Chi vuole un altro romanzo, un altro quadro o un’altra sinfonia? Come se non ce ne fossero già abbastanza!
Le opere, quindi, non sarebbero più importanti, ciò che conta sono i procedimenti per creare le opere. L’opera – a un secondo livello – consisterebbe nell’invenzione dei procedimenti. Ma così (e Aira sembra non accorgersene) si sposta solamente il problema al passaggio successivo. Se, come lui sostiene, la legge del rendimento decrescente è valida per le opere, perché non dovrebbe esserlo anche per i procedimenti? Pure questi ultimi dipendono dal problema teorico della ripetizione. Non solo: colui che decide di creare dei procedimenti si espone allo stesso tipo di difficoltà di chi crea opere. L’esaurimento non è un problema del romanzo, piuttosto è un problema della creazione in generale, di opere e di procedimenti. E, in effetti, anche questi possono risultare monotoni, ripetitivi, e continuare a svolgere la stessa funzione sino alla nausea. È questo il caso del procedimento – prediletto da Aira e dai suoi seguaci – che impera da anni nella letteratura argentina. Un trucco già visto, consumato, consumatissimo, quello di condurre la narrazione sino a un punto tale da generare un senso per poi sviarlo o interrompere la continuità di questo senso costituito così da rendere ben evidente la negazione del percorso narrativo tradizionale. Si creano aspettative su una trama o su un personaggio, si apre un piccolo spiraglio di suspense e dopo si accantona tutto bruscamente proprio per far risaltare un’intenzione programmatica che coinvolga la diffidenza nei confronti della trama in quanto tale, dell’identità o causalità del personaggio, della concezione di romanzo come una totalità, ecc. Ma siamo sempre davanti allo stesso procedimento, che cerca lo stesso effetto e ottiene sempre dalla critica lo stesso meccanico elogio.
Dirò di più, Aira, separando il procedimento dall’opera, s’imbatte nello stesso pericolo che indica per la professionalizzazione:
La professionalizzazione ha messo in pericolo la storicità dell’arte; comunque ha confinato l’elemento storico nel contenuto, congelando la forma. In sostanza, ha spezzato la dialettica forma-contenuto che rende artistica l’arte.
Non sta spezzando forse questa dialettica anche il suo tentativo di separare la forma dal resto e di concentrarsi solo sul procedimento?
Nell’articolo segue quindi una contraddizione interessante; da una parte Aira così si esprime riguardo al disprezzo per le opere:
Un’opera avrà sempre il valore di un esempio, e un esempio vale un altro, può cambiare appena un po’ il potere persuasivo di ciascuno: ad ogni modo, ne siamo già convinti.
Ciononostante, nel paragrafo seguente si contraddice (di più, contraddice tutto ciò che sinora ha sostenuto nell’articolo) quando avverte fino a che punto un’opera, un «esempio», può essere unica:
Il problema è decidere se un’opera d’arte sia un caso particolare di qualcosa di generale che sarebbe quell’arte o quel genere. Se diciamo: «Ho letto molti romanzi, per esempio, il Don Chisciotte», abbiamo il sospetto di non rendere giustizia a quest’opera. La estrapoliamo dalla Storia per esporla in un museo o in un supermercato. Il Don Chisciotte non è un romanzo fra i tanti, ma il fenomeno unico e irripetibile, cioè storico, da cui deriva la definizione stessa della parola «romanzo». Nell’arte gli esempi non sono esempi perché si tratta di invenzioni particolarissime senza alcun riferimento generale.
Questo è, giustamente, il cammino alternativo: assumere ogni opera, ogni «esempio», come l’unico possibile di una teoria. L’esempio deve essere così ricco, particolare, complesso, completo, da non poter essere astratto dalla teoria, né ridotto in vista di una sua ripetizione. Scrivere romanzi dai quali desumere una ri-definizione del termine «romanzo»: è questa la grande questione, il grande problema della letteratura contemporanea. Si delinea un percorso senz’ombra di dubbio sempre più difficile, ma più interessante perché sfida e non semplice ripresa dal basso.
Ho lasciato per il finale questo frammento estratto da una recente intervista a César Aira:
Per un po’, una ventina di anni fa, non aprivo bocca se non per parlare del Procedimento: sostenevo che la funzione dell’artista non era quella di creare opere ma il procedimento che permetta alle opere di farsi da sole, che consenta alla poesia «di essere scritta da tutti, non da uno»; affermavo cose del genere, che suonavano bene ma non avevano molto senso. Credo che le dicessi per risultare interessante. Ma, naturalmente, non le ho mai messe in pratica. Continuavo a scrivere i miei romanzi come faccio anche ora, senza nessun procedimento e senza la speranza che un giorno possano scriversi da soli. Non mi sento colpevole di frode, perché la colpa non è del tutto mia. Ci chiedono teoria in continuazione, a noi scrittori, e cediamo alla tentazione di compiacere, per cortesia, per gioco, o perché non ci prendano per degli scemi. Almeno nel mio caso, inventare una teoria è un’azione così fantasiosa e irresponsabile come immaginare l’argomento di un romanzo. Non penso di danneggiare nessuno e potrei addirittura azzeccare qualche verità utile. Non sono nemmeno così sicuro della superiorità del processo sul risultato. In teoria suona bene, ma ho l’impressione che, nella pratica, quest’idea ora inflazionata di arte come process oriented sottintenda il pericolo di non riuscire a guardare al di là del proprio naso, di diventare narcisisti o di finire per ruotare su se stessi in una stupida infatuazione. Non credo di esser sempre sfuggito a questo pericolo.
Forse questo segna la fine di una parabola. Le cose «che suonavano bene ma non avevano molto senso» sono diventate, a partire dal gruppo della rivista «Babel», l’armatura ideologica di un’intera generazione di scrittori, nonché il principale repertorio della critica letteraria che ha dominato (e ancora domina) l’Argentina degli ultimi trent’anni. Queste idee che non solamente Aira propugnava «per risultare interessante» hanno provocato una diatriba estetica tra i presunti rappresentanti delle avanguardie e i raccapriccianti «convenzionali», e hanno fissato per varie generazioni ciò che si poteva includere o escludere dalla considerazione e valorizzazione letteraria. Che ne sarà ora di quelle migliaia di pagine scritte a sostegno di questi cliché, degli atti dei convegni e delle seriorissime tesi di dottorato? Qualche critico sarà disposto a riconoscere che si trattava solo di un’altra burla di Aira?
BIBLIOGRAFIA
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César Aira, El misterioso señor Aira, intervista di P. Duarte, pubblicata originariamente su «Letras libres», novembre 2009; riprodotta su «ADN La Nación», 28 novembre 2009
Pablo Gianera, Instrucciones de uso, «ADN La Nación», 28 novembre 2009
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André Maurois, En busca de Marcel Proust, Vergara, Buenos Aires 2005; ed. it. André Maurois, Alla ricerca di Marcel Proust, trad. di G. Monicelli, Mondadori, Verona 1956
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