Pubblichiamo oggi un saggio sui racconti di Roberto Bolaño di Chris Andrews, che ha tradotto in inglese dieci libri dell’autore cileno. Il saggio è uscito nel volume collettivo «Roberto Bolaño, una literatura infinita», del 2005, a cura di F. Moreno e lo riprendiamo dall’Archivio Bolaño di Carmelo Pinto, fra i migliori siti mondiali dedicati a Bolaño, ringraziando lui e Gabriella Saba, la traduttrice.
di Chris Andrews
traduzione di Gabriella Saba
Il gioco è cercare di fare cose che non feci mai, ma questo, generalmente rimane nell’ambito del desiderio. Il gioco effettivo è l’esercizio della memoria non è altro che questo…. Scusa, l’esercizio della memoria ma all’interno di un rigore stilistico fortissimo
Se io mi mettessi a scrivere senza un piano previo, ogni mio romanzo potrebbe avere più di mille pagine… ma facilmente eh!
[Roberto Bolaño, Intervista Off The Record]
I racconti di Roberto Bolaño tengono il lettore sul filo, visto che non si adattano a modelli catalogati. Come spiegare l’efficacia di questi racconti che sembrano burlarsi delle leggi del genere letterario e danno l’impressione di essere il prodotto di una improvvisazione o di una incessante deriva? In “Tesi sul racconto”, Ricardo Piglia sostiene che “il racconto narra sempre due storie”. Nel racconto classico, secondo Piglia, c’è una storia visibile nei cui interstizi si colloca una storia segreta. Alla fine, la storia segreta appare in superficie. Le due storie obbediscono a logiche narrative diverse ma sono composte da elementi che appartengono alla stessa trama, di modo che alcuni elementi hanno una doppia funzione. La versione moderna del racconto, dice Piglia, “abbandona il finale a sorpresa e la struttura chiusa; lavora la tensione tra le due storie senza risolverla…racconta due storie come fossero una sola.”
Giullermo Martinez ha proposto una “leggera variazione” alla tesi di Piglia. Anziché due storie, parla di due ordini logici: la logica iniziale, quella del senso comune, della normalità, e la logica della fiction, di quello che succederà (perché c’è un patto tacito tra l’autore e il lettore sul fatto che “qualcosa succederà”). Al principio, le due logiche coincidono, però nel corso del racconto si produce uno sdoppiamento: la logica della fiction comincia a sostituire quella del senso comune fino a “impadronirsi a poco a poco della scena”, accompagnando il lettore al finale con un sentimento di necessità (nel caso in cui le cose siano andate bene). [G. Martinez, Il racconto come sistema lógico]
Il modello generale Piglia-Martinez ci permette di mettere a fuoco l’originalità dei racconti di Bolaño e forse di spiegare, in parte, la loro efficacia. Come gli scrittori di racconti moderni citati da Piglia (Cechov, Katherine Mansfield, Sherwood Anderson, Joyce), Bolaño “lavora la tensione tra le due storie senza risolverla mai”. Lo fa in modi diversi: invertendo il processo per il quale la logica della fiction va “impadronendosi a poco a poco della scena), o sdoppiando questa logica, e collocando nella narrazione elementi che risultano anomali per il senso comune ma che non verranno comunque recuperati da un altro ordine logico.
Impiegando queste e altre risorse, Bolaño apre i suoi racconti e così li tiene bene aperti. In molti casi, finiscono per somigliare a case incantate: da esse, passano infatti i fantasmi di altre storie che non si lasciano afferrare né dissipare. Cercherò di illustrae queste affermazioni generali analizzando brevemente tre racconti: “Compagni di cella” [Chiamate telefoniche], “Dentista” e “Ultimi crepuscoli sulla terra” [Puttane assassine].
“Compagni di cella” si presenta come un pezzo dell’autobiografia di Roberto Bolaño. La logica iniziale è autobiografica e la logica della fiction in questo caso è fantastica. I compagni di cella sono il narratore-protagonista (che chiamerò da qui in avanti “il narratore”) e Sofia, che si trovano in carceri diverse, “separati fra loro da migliaia di chilometri”, nello stesso mese dello stesso anno (novembre del 1973). Sono amanti. Sofía dichiara che sta diventando pazza. Come in altri racconti di Bolaño (“Le chiamate telefoniche”, “Enrique Martin” o “Prefigurazione di Lalo Cura”), anche questo è una prefigurazione della pazzia.
Sofia si nutre quasi esclusivamente di puré e soffre di una depressione che va peggiorando. A un certo punto sembra si stia per suicidare.
“Ebbi l’impressione che Sofia stesse facendo visita tutti i suoi ex amanti. Ebbi l’impressione che si stesse congedando da loro, un addio privo di tranquillità o di accettazione”
Il narratore non indaga le cause della sua depressione (la malinconia è un elemento naturale del mondo di Bolaño), ma in certi punti del racconto, al di là della storia autobiografica, appare fugacemente la possibilità di una storia fantastica che potrebbe spiegare il comportamento di Sofia. Il narratore va a casa di Sofia all’ultimo piano di un edificio “che stava venendo giù”. Bussa alla porta. “Pensai che non ci fosse nessuno. Poi pensai che lì, in realtà, non abitava nessuno”, e cioè che c’era sì qualcuno ma non era vivo. La casa sembra incantata. Quando si apre la porta, appare Sofia, nuda. Fa freddo, la casa è buia e Sofia non lascia entrare il narratore perché il suo fidanzato “sta per arrivare il mio fidanzato e non gli piace trovarmi in compagnia di nessuno, soprattutto se è un uomo”. Il narratore le dice: “Il tuo fidanzato deve essere un vampiro”. È ovviamente uno scherzo, e Sofia sorride, ma è anche un modo per riprendere il filo fantastico. Perché sta aspettando nuda e al buio? Se il fidanzato non è un vampiro in senso stretto, si può dire però che le sta succhiando la vita.
Non tornerà a trovare Sofia per un anno, però si sveglia, certe mattine, come se avesse passato la notte con lei. Come se lei fosse esattamente una succube. E lo stesso succede a un altro amante di Sofia, Emilio. Si diffonde la notizia che Sofia e il suo nuovo fidanzato abbiano cercato di uccidere Emilio. Nel corso della lotta, Emilio ha colto una strana somiglianza tra Sofia e il suo fidanzato, “come se fossero fratelli gemelli”. Qui appare il tema del doppio, molto frequente nell’opera di Bolaño, come hanno notato Cecilia Manzoni e Nora Catelli.
La logica fantastica che si andava sviluppando con le allusioni fugaci a una serie di topici (casa incantata, vampiro, succube), arriva al culmine con la apparizione del doppio e comincia inmediatamente a ritrarsi. Perché il doppio di Sofia, lungi dall’essere una figura temibile, è piccolo e debole. Emilio lo prende a calci, schiaffeggia Sofia ed esce dalla casa. Quando, dopo avere ascoltato questa storia, il narratore va a casa di Sofia e lei, per la prima vlta, lo lascia entrare, l’incanto non è ancora rotto del tutto.
Si siede nella poltrona di Emilio e il lettore non può non immaginare che l’imboscata si ripeta. Eppure, quando il narratore le chiede del suo accompagnatore, Sofia risponde che se ne è andato e che non tornerà mai più. L’ultima frase del racconto (“Poi ci vestimmo e andammo a cena in una pizzeria”) è, forse, una prefigurazione della cura.
Escono dalla casa buia e vuota; entrano in uno spazio pubblico dove vanno a mangiare qualcosa di più nutriente del puré. Alla fine del racconto, la logica autobiografica torna a imporsi, ma senza dissolvere la logica fantastica. Restano in sospeso alcune domande: Chi è o è stato il fidanzato, “lo sconosciuto”, il doppio di Sofia? Perché se ne è andato? Perché ha cercato di ammazzare Emilio?
In altri racconti di Roberto Bolaño, la storia visibile, come direbbe Piglia, si compone di vari fili narrativi, misteriosamente intrecciati. Una storia segreta va emergendo nel corso del racconto e sembra spiegare le relazioni fra i fili. Poi, però, la storia segreta devia o viene allontanata da un’altra, lasciando il lettore nell’incertezza, senza confermargli le congetture che ha man mano immaginato per risolvere l’enigma della storia visibile.
“Dentista”, per esempio, intreccia tre fili narrativi: la morte di una vecchia india che si reca alla cooperativa in cui lavora il dentista amico del narratore, l’incontro del dentista con il pittore Cavernas e la storia di un supposto prodigio letterario, José Ramirez, un adolescente indio che vive nella periferia di Irapuato. Che cosa hanno a che fare l’uno con l’altro questi fili narrativi, salvo la loro continuità con un racconto in apparenza autobiografico? Una risposta possibile si intravvede cuando il narratore comincia a farsi domande sulla sessualità del suo amico:
“mi passò per la testa l’ipotesi che il mio amico, che era uno scapolo impenitente e che pur potendo stabilirsi da anni nella capitale aveva preferito non abbandonare la sua città natale di Irapuato, fosse diventato omosessuale o lo fosse sempre stato”.
Più avanti il dentista nega di essere omosessuale, forse con troppa insistenza: “io non sono mica di quelli. Non sono mica di quelli là. Sai cosa voglio dire. Non lo sono”. Se fosse un omosessuale represso, tutto si incastrerebbe perfettamente: il suo sentimento di colpa per la morte della vecchia india (un sentimento rimosso nel senso psicoanalitico), la reazione del pittore Cavernas, che lo menzionò “frocio”. La sua fascinazione per il giovane José Ramirez.
Non c’è niente nel racconto che smentisca questa tesi, che tuttavia passa accanto alla cosa più interessante, perché c’è qualcosa di realmente prodigioso nella scrittura di José Ramirez: “Il racconto aveva quattro pagine, forse lo scelsi per questo, per la sua brevità, ma quando lo terminai ebbi l’impressione di avere letto un romanzo”. Quando comincia a leggere, il narratore ha sonno, ma i racconti lo svegliano: “adesso mi sentivo perfettamente sveglio, perfettamente sobrio”. Il narratore non racconta i contenuti dei testi, solo i loro effetti, ma il dentista gli ha riferito un racconto di Ramirez “su un bambino che aveva molti fratelli piccoli a cui badare, questa era la storia, almeno all’inizio, anche se poi il filo narrativo prendeva una piega diversa si polverizzava”.
Questa sintesi è un mis-en-abîme. Fino al momento in cui il narratore comincia a leggere i testi di Ramirez, il lettore può pensare che “Dentista” sia la storia di una “uscita dall’armadio”, ma poi il ragionamento prende un’altra piega, e quello che prima era stata la storia segreta viene spinta ai margini da qualcosa che è ancora più segreto, una illuminazione ineffabile:
“potevamo dire ben poco sulla nostra esperienza di quella notte. Ci sentivamo entrambi felici, ma capivamo senza ombra di dubbio – e senza bisogno di dircelo – che non eravamo capaci di riflettere o di dare un giudizio sulla natura di quel che avevamo vissuto”.
Negli ultimi paragrafi del racconto, i tre fili della storia visibile si riannodano. Il dentista guarda perplesso le incisioni di Cavernas. Il narratore sogna la casa di Ramirez, e capisce “in un secondo scarso il mistero dell’arte, la sua natura segreta”. Gli è dato comprendere in un sogno quello che si era limitato a sentire la vigilia della notte precedente. Poi, appare il cadavere della vecchia india, cancellando per sempre questa miracolosa comprensione. Le relazioni tra i tre fili non si sono chiarite; continuano a essere enigmatiche. Inoltre, arrivati alla fine del racconto, la memoria della prima frase – “Non era Rimbaud, era solo un ragazzino indio” – mette in dubbio la qualità letteraria dei testi che hanno dato inizio all’illuminazione.
In “Compagni di cella” e “Dentista”, la logica della fiction si impadronisce a mano a mano della scena fino a un momento preciso del racconto (il combattimento tra Emilio e il fidanzato di Sofia, la lettura dei racconti di José Ramirez). Poi, questo processo si ferma o si capovolge. In “Compagni di cella” la logica iniziale si impone di nuovo. In “Dentista” sorge una nuova logica che non permette una lettura totalizzante del racconto; si ripete lo sdoppiamento di cui parla Guillermo Martinez. In altri racconti di Bolaño la logica della fiction lavora in senso inverso rispetto alla logica del senso comune, perturbandola senza però arrivare a costruire una storia segreta coerente. È il caso di “Ultimi crepuscoli sulla terra”, in cui B e suo padre trascorrono qualche giorno di vacanza ad Acapulco.
Il titolo apocalittico o di fantascienza da il tono: qualcosa succederà, e segnerà la fine di un’epoca. Questa è la cronaca di un disastro annunciato. Il padre di B fa il bagno anche se il mare è sottosopra e non curandosi degli avvertimenti di un pescatore. Sparisce per qualche momento e il pescatore si preoccupa ma il nuotatore esce indenne dal mare. Eppure, a partire da questo momento, il narratore “sa che si sta avvicinando il disastro”.
All’inizio del racconto si può pensare che il disastro sarà un incidente, come il falso annegamento del padre. Infatti, nella pagina successiva, cuando il padre si immerge nell’acqua in cerca del borsellino, sparisce di nuovo, e questa volta il figlio comincia ad allarmarsi. Si immerge a sua volta e vede il padre che torna a galla con il borsellino nella mano mentre lui continua a scendere senza riuscire a modificare la sua traiettoria. Questa scena, più comica che altro, acquista restrospettivamente una certa qual dimensione emblematica quando il narratore ci anticipa un indizio sulla natura del disastro che si avvicina: è “un disastro che più di ogni altra cosa allontana B da suo padre”.
Il figlio si dice che è “l’ultimo viaggio che farà con suo padre”. Il viaggio opera una interruzione nel tempo, separa il prima dal dopo. La tenda della bancarella in cui padre e figlio mangiano iguane può essere provocata da questa interruzione temporale: “una tenda che, per qualche attimo, gli sembra separare non solo la cucina dai tavoli, ma un tempo da un altro tempo da un altro tempo”.
La serie di eventi che porta al disastro comincia, forse non per caso, con l’apparizione dell’ex tuffatore. Insieme a lui, padre e figlio si recano a un “picadero” e poi a un ristorante prima di arrivare allo “scenario del crimine”, un bar-bordello alla periferia di Acapulco. È piuttosto chiaro che il disastro non sarà un incidente. Il padre gioca a carte e vince. Quando vuole andarsene con ciò che ha guadagnato, i perdenti diventano violenti e si scatena una rissa.
Prima di cominciare a litigare, B sente il padre che recrimina qualcosa all’ex tuffatore. Può essere che l’ex tuffatore sia il complice degli altri giocatori che hanno cercato di tendere una trappola al padre, dopo avere verificato che ha soldi. O che, semplicemente, si sia sgonfiato al momento di scegliere il campo .
In ogni caso, fino all’ultima frase, il lettore può pensare che i protagonisti usciranno dal locale in tutta tranquillità, come dice il padre quando il figlio impugna una bottiglia di birra. Il disastro annunciato sarebbe potuto restare un fatto intimo, ma acquista invece uno sfondo violento: la rissa. Parallelamente, la presunta sparizione di Gui Rosey – poeta surrealista minore con cui si identifica B – ha per sfondo il disastro della seconda guerra mondiale: “sparisce dal pianeta senza lasciare tracce, docile come un agnellino mentre gli inni nazisti salgono al cielo color sangue”. Il finale è borgesiano: i personaggi affrontano il loro destino nella rissa (così come il pacifico Diego Soto in Stella distante, accoltellato da alcuni neo-nazisti nella stazione di Perpignan). È anche un finale paradossale: il figlio si sta allontanando irrimediabilmente dal padre, però si rende conto che “contrariamente a Gui Rosey, lui non è solo”; tocca il fondo dell’incubo, ma pensa “con allegria” che domani torneranno a Città del Messico. B sta pensando al giorno seguente, non più alla sua sparizione, per cui il finale è anche un inizio: “Comiciarono a litigare”. Bolaño utilizza questa risorsa non borgesiana in molti racconti. In “Sensini”, per esempio, il narratore dice alla fine: “mi resi conto che (…) di lì in avanti le cose avrebbero impercettibilmente cominciato a cambiare”. Smettere di narrare a quel modo, sulla soglia di una nuova frase, è un modo di dare una apertura massima al racconto, o di “diluire” o “sgonfiare” il finale, secondo l’espressione di Mihaly Dés.
Ne “Gli ultimi crepuscoli sulla terra”, la logica iniziale, quella del senso comune, è turbata dai presentimenti di B, che hanno una doppia funzione: annunciano, anche, al lettore che si avvicina un disastro. Le situazioni in cui si trova B autorizzano una lettura paranoica; contengono elementi anomali o di cattivo augurio: la donna misteriosa sul bordo della piscina; il receptionist con i denti da coniglio che brillano nella semipenombra; il cane di nome Puas che mostra i denti nel patio in cui la prostituta fa due volte un “guaguis” [pompino] a B.
La qualità onirica della scena non si deve a effetti brumosi bensì alla nitidezza con cui si focalizzano certi dettagli.
L’ambiente carico di minacce ricorda fortemente i film di David Lynch, un altro maestro nell’arte di disporre e spostare i segnali di stranezza. Infatti, nelle scene notturne nell’albergo, la prosa di Bolaño non fa che seguire i movimenti enigmatici dei personaggi con precisione cinematica:
Poi, la donna gli augura la buona notte e sparisce gradualmente: prima sale la scalinata fino alla recepcion, lì si ferma per qualche istante, scambia qualche parola con una persona che B non può vedere e alla fine si perde, silenziosa, lungo la lobby dell’albergo, la sua figura sottile incorniciata da finestre successive, finché svolta nel corridoio della scala interna”.
Una volta creato l’ambiente, Bolaño riesce a scatenare sospetti per il solo fatto di mettere a fuoco un oggetto o un movimento: Con chi ha parlato la donna misteriosa? Per efficaci che siano gli elementi ominosi in “Ultimi crepucoli sulla terra”, non si cuagliano, né si incastrano.
Alcuni potrebbero essere recuperati dalla storia di una trappola o di un complotto il cui protagonista è l’ex truffatore, ma la storia si basa su una congettura fragile. Nonostante questo, la tensione narrativa non si allenta. Al contrario, si mantiene a un livello molto alto, dato che il lettore non può lasciarsi condurre dalla logica del senso comune, che è alterata quasi dall’inizio dalla logica della fiction, una logica che in questo caso è frammentata, e che continua a seminare dubbi coltivando una lettura paranoica. “Qualcosa succederà”, secondo il patto su cui si fonda il genere, ma qui il lettore ha l’impressione che possa succedere qualunque cosa in qualunque momento.
“Compagni di cella”, “Dentista” e “Ultimi crepucoli sulla terra” esemplificano tre modi di lavorare la tensione tra la storia visibile e la storia segreta, tra la logica del senso comune e la logica della fiction. La logica della fiction può ritrarsi, allontanarsi o alterare la logica del senso comune senza costruire una storia segreta coerente. Queste derive cntrollate giocano con le aspettative generate dalla familiarità del modello classico (dove la logica della fiction si impone alla fine). E a questo modo contribuiscono a tenere il lettore in sospeso, qualche volta perfino dopo la fine, quando ci sono domande che continuano a girare nella testa del lettore: Chi o chi è stato il fidanzato di Sofia? Su cosa si fondava l’effetto dei racconti di José Ramirez? Come è finita la rissa nel bar-bordello?
In “Nuove tesi sul racconto”, Ricardo Piglia segnala che
“L’esperienza di errare e divagare in un racconto si basa sulla segreta aspirazione di una storia a non avere fine; l’utopia di un ordine fuori dal tempo in cui i fatti si susseguono, prevedibili, interminabili e continuamente rinnovati”.
Nei racconti aperti ed erranti di Roberto Bolaño intravediamo una variazione in questa utopia; un ordine in cui i fatti si susseguono imprevedibili e interminabili, come le note di una melodia sorprendente che potrebbe andare avanti all’infinito e senza tornare su se stessa.
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