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«Un instancabile stupore per le lingue», conversazione con Susanna Basso

redazione Interviste, SUR, Traduzione

In merito al progetto sulle Giornate della Traduzione letteraria, pubblichiamo oggi un’intervista a Susanna Basso, traduttrice fra gli altri del Premio Nobel Alice Munro e vincitrice quest’anno del premio Giovanni, Emma e Luisa Enriques. Ringraziamo la traduttrice per averci concesso questa intervista e per aver condiviso la sua esperienza. Buona lettura.

Edizioni SUR: Chi desidera avvicinarsi alla traduzione, oltre a una grande passione per la letteratura, ha studiato una o più lingue straniere. Conoscere una lingua a un livello avanzato non è però sinonimo di essere dei buoni traduttori. Da cosa dipende una buona resa del testo, oltre che da una conoscenza approfondita della propria lingua madre? Studio, letture o una dote innata?

Susanna Basso: Per rispondere a questa domanda voglio usare un pensiero di Enrico Terrinoni riguardo alle traduzioni dei testi joyciani. Una buona resa del testo, disse Terrinoni durante un seminario, dipende dalla capacità di resa del traduttore, vale a dire dalla sua capacità di arrendersi al testo.
Mi sembrò perfetto, quel gioco che combina il rendere nel senso del restituire all’arrendersi allo scacco del mestiere. Senza questo abbandono attivo nel flusso della lingua spesso non resta che l’alternativa tra la rigida applicazione di una teoria e la deriva libera.

Per tradurre è necessario amare generosamente le parole, come quando bambini, le abbiamo acquisite e introdotte nella prassi della nostra vita di ogni giorno. Quelle della nostra lingua, naturalmente, ma direi proprio, e in assoluto, la meraviglia della lingua nel suo sforzo mimetico di tradurre ogni cosa. Se è possibile nominare il mondo, deve pur esserci un modo per nominare un nome, giusto? Non che sia facile, anzi, può volerci tutto quello che è nella domanda: studio, letture, e una certa dote innata. Ma quest’ultima è nostra per diritto di nascita: siamo stati tutti creature nominanti e il nostro vocabolario originale, quello che dal silenzio attento dell’infanzia ci ha portati a lallare e infine a pronunciare un suono che era anche la cosa nominata, è stato quasi sempre registrato da chi ci amava come formidabile e perfetto.

Una buona resa del testo, credo dipenda in larga misura dal nostro instancabile stupore per le lingue.

ES: Tradurre autori viventi vs tradurre classici. Quanto è importante il confronto con l’autore? Quando non è possibile contattarlo come cambia l’approccio al testo?

SB: Non mi sono mai sentita a mio agio con l’idea di rivolgere all’autore domande sul suo testo. Ho il ricordo di affollate assemblee anni settanta e ottanta con studenti appassionati che chiedevano ai loro autori di culto qualche chiarimento su libri letti con sincera devozione per sentirsi spesso rispondere «È nel testo, quello che intendevo dire sta nel testo. Non chiedetelo a me.» Mi porto dentro da allora la paura di formulare la domanda sbagliata e il sollievo di non avere osato formularla. Non voglio dire di non avere mai chiesto un chiarimento a un autore ma, a differenza di colleghi che sanno farlo con grazia e disinvoltura e spesso instaurano relazioni prolifiche e proficue, io tendo a non conversare con gli autori che traduco. Ne ho incontrati alcuni, con un misto di ansia e di profonda gioia, ma durante il lavoro ho poco l’abitudine al contatto.

ES: Hai mai riletto la tua prima traduzione? Cosa si prova a rileggersi dopo tanti anni?

SB: La mia prima traduzione, nell’anno 1979, è stata l’epistolario delle sorelle Brontë, pubblicato da una piccola e preziosa casa editrice di Torino (Edizioni La Rosa). Se posso rileggere oggi quelle lettere senza troppi imbarazzi lo devo soprattutto alla cura del volume affidata a Barbara Lanati, alla revisione di Angelo Morino e alla rilettura di Edda Melon. Credo che di parole mie su quelle pagine ne siano rimaste relativamente poche e sono grata a ognuna delle loro correzioni. Mi è capitato in seguito di partecipare con Angelo Morino a incontri e dibattiti sulla traduzione; ogni volta avevo consapevolezza di trovarmi di fronte alla persona che aveva reso pubblicabile quel mio primo lavoro ingenuo e appassionato e ogni volta mi colpiva l’eleganza con cui Angelo fingeva di non ricordarlo.

ES: Se non facessi la traduttrice, cosa faresti?

SB: Se non facessi il traduttore? Non so davvero. Dopo tutti questi anni passati a cercare il modo e il tempo per riuscire a tradurre nonostante il resto che non potevo non fare, mi manca l’immaginazione per dire che cos’altro avrei potuto insistere a volere così tanto. Volevo tradurre, lo volevo già ai tempi del liceo. Ci sono riuscita, e mi ritengo per questo fortunata.

ES: Consigli per un aspirante traduttore (fare un altro mestiere non vale come risposta).

SB: Fino a qualche anno fa avrei forse provato a rispondere a questa domanda. Ma credo ci sia un’età biografica e professionale, oltre la quale è più che mai necessario astenersi dal dare consigli. Ammesso che mi sia trovata nelle condizioni di farlo, oggi ritengo di non avere alcun diritto di consigliare eventuali strategie a un giovane aspirante traduttore, o aspirante qualsiasi altra cosa. Il mondo in cui mi muovevo quando toccava a me sperare in un contratto di traduzione era talmente lontano e diverso da quello di oggi, che potrei solo rendermi ridicola o irritante a elargire consigli. A ogni giovane aspirante traduttore mi sento solo di dire: sono contenta, che meraviglia. Tradurre è bellissimo. È difficilissimo. È necessario. E richiede immaginazione. Nessuno meglio dei giovani sa gestire queste quattro categorie del vivere.

ES: Cosa vuol dire tradurre un Premio Nobel?

SB: Ho tradotto due Premi Nobel per la Letteratura distanti l’uno dall’altra come la Stella Polare e la Croce del Sud. I due autori sono Wole Soyinka e Alice Munro. Del primo ho tradotto un solo testo teatrale, una manciata di pagine (La metamorfosi di Fratel Geronimo) quasi trent’anni fa, poco prima che Soyinka ricevesse il Nobel. Della seconda avrò il prossimo anno tradotto tutto ciò che ha scritto, circa quattromila pagine di storie formidabili.

Che cosa è stato per me? Eh, tradurre Alice Munro è stato uno dei grandi regali del mestiere. Il più grande, direi. E soprattutto è stato tempo, una porzione di vita che un paio di anni fa riassumevo con queste parole:

 Tradurre Alice Munro è quello che ho fatto quasi ininterrottamente per circa dodici anni. È stata la mia vita per circa dodici anni. Come per altri può esserlo fare ogni giorno il pane, visitare pazienti, costruire case, suonare il violoncello. Il mio mestiere per tante ore e settimane, mesi, anni è stato questo: tradurre Alice Munro. A me sembra una cosa strabiliante.

L’Argentina andava in bancarotta, George W. Bush era presidente degli Stati Uniti, la Grecia ospitava le Olimpiadi, e io traducevo Alice Munro; Carlo Azeglio Ciampi era Presidente della Repubblica, il falso in bilancio non era più reato, entrava in vigore il protocollo di Kyoto e io traducevo Alice Munro; Benedetto XVI era eletto pontefice, Million Dollar Baby vinceva il premio Oscar, Ohran Pamuk riceveva il Premio Nobel e io traducevo Alice Munro; moriva Michelangelo Antonioni, si celebrava il 250 anniversario della nascita di Mozart, rinasceva la Fiat 500, e io traducevo Alice Munro; Veltroni apriva la campagna elettorale del Partito Democratico, moriva Eluana Englaro, Barak Obama entrava alla Casa Bianca e io traducevo Alice Munro; la terra tremava sotto gli studenti dell’Aquila, moriva Michael Jackson, crollava la palestra dei gladiatori di Pompei, e io traducevo Alice Munro; eruttava il vulcano islandese, Roberto Vecchioni vinceva il Festival di Sanremo, si scatenava il disastro di Fukushima, e io traducevo Alice Munro; la Costa Concordia naufragava a cinquecento metri dall’Isola del Giglio, Mario Monti rassegnava le dimissioni, Alice Munro vinceva il Premio Nobel per la letteratura, e io traducevo Alice Munro.

Per dodici anni ho conversato con questa vecchia scrittrice. Sono invecchiata, ho avuto figli veramente grandi, e traducevo Alice Munro. Motivo di questo elenco è la speranza di riuscire a trasmettervi il mio stupore. Non ci pensiamo mai, a quello che abbiamo continuato a fare mentre intorno succedevano le cose, grandi e piccolissime della storia.

Susanna BassoSusanna Basso è nata a Torino dove vive e lavora. Da molti anni insegna Lingue e Letteratura Inglese presso il Liceo Massimo d’Azeglio di Torino. Dal 1988 collabora come traduttrice soprattutto con la casa editrice Giulio Einaudi. Tra gli scrittori tradotti: Ian McEwan, Martin Amis, Ben Okri, Adichie Ngozi Chimamanda, Angela Carter, Kazuo Ishiguro, John McGahern. Julian Barnes, Steven Millhauser. Ha dedicato gran parte degli ultimi dieci anni di lavoro alla traduzione delle raccolte di racconti dell’autrice canadese Alice Munro, Premio Nobel per la Letteratura nel 2013. Nel 2010 ha pubblicato presso la casa editrice Bruno Mondadori un “diario di traduzioni” dal titolo Sul Tradurre. Esperienze e divagazioni militanti.

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