Pubblichiamo oggi un approfondimento dello scrittore peruviano Alonso Cueto su Juan Carlos Onetti, la sua opera e i suoi personaggi.
L’articolo è tratto da Letras Libres, che ringraziamo.
«Juan Carlos Onetti, il sognatore del sottosuolo»
di Alonso Cueto
traduzione di Raffaella Accroglianò
Conobbi Juan Carlos Onetti nel freddo inverno madrileno del 1979, quattro anni dopo il suo arrivo in Spagna. Allora io collaboravo con la pagina culturale del Diario 16 e la direttrice, la meravigliosa Jubita Bustamante, mi aveva incaricato di intervistarlo. L’incarico aveva un vantaggio. Date le famose ritrosie di Onetti verso qualsiasi tipo d’intervista, la mia direttrice mi avrebbe pagato il doppio della tariffa abituale se riuscivo a convincerlo a fare una qualche dichiarazione su qualcosa. Il denaro era l’ultimo pretesto di cui avevo bisogno per cercare un autore che avevo sempre ammirato e, con il consiglio di Félix Grande («In questi giorni è ben disposto», mi disse), lo chiamai a casa.
Con mia grande sorpresa, non tardò molto a rispondere al telefono, anche se, come previsto, non accettò di rilasciare l’intervista. «Questa settimana non posso», mi disse e dopo come se ce ne fosse bisogno mi motivò la risposta. «Devo andare a vedere il ciclo di film su Bogart».
In quei giorni, un cinema di Madrid («Dedica il pomeriggio a Bogart», recitava la promozione) offriva in un solo pomeriggio quattro suoi film. Lo chiamai alcuni giorni dopo. Rispose lui al telefono e ricordo ancora la sua voce di una monotonia ansiosa e rassegnata: «Allora, vediamo, venga questo pomeriggio…»
E fu così che, con alcuni tremori in corpo, quel pomeriggio entrai nell’edificio nel quale viveva. Sua moglie, Dorotea Muhr, Dolly, mi aprì la porta. Dolly era una donna matura che senza dubbio esibiva una giovinezza persistente, un’amabilità fresca e solidale che si faceva notare sin dal primo momento. Mi sedetti con lei nella sala mentre lui si risvegliava bene dalla sua siesta. Dolly parlava dei vari temi dei quali uno parla con un perfetto sconosciuto (il clima, la politica, di che paese è lei?), con un fascino naturale, capace al contempo di entusiasmo e discrezione.
Finalmentre lo vidi apparire, con un movimento ritardato – gli occhi da civetta, i capelli radi e duri, il lento caos della siesta ancora sparso per il corpo. Come il suo personaggio di «Un sueño realizado», Onetti sembrava essersi appena svegliato «da un sonno di vari secoli». Presi coraggio e gli chiesi di Bogart, la causa principale per cui la nostra intervista era stata posticipata. «Ecco, gli faccia un’intervista su Bogart, sul cinema», disse Dolly, sollevata. Quando comprese che non gli avrei fatto domande “letterarie”, Onetti mi parlò del film che aveva visto il giorno prima, Casablanca («un capolavoro di pacchianeria», disse). Parlammo della scena dell’incontro tra Bogart e Bergman, in un caffè con il suo nome, pieno di musica e fumo. A un certo punto interruppe la chiacchierata e cominciò a canticchiare la canzone: «Remember always this, a kiss is just a kiss, a sigh is just a sigh, the fundamental things apply, as time goes by».
La conversazione aveva felicemente preso la piega del cinema. Dolly, che partecipava attivamente alla chiacchierata, parlò del Mistero del falco (che Onetti adorava) e quindi di John Huston e di Gli spostati, l’ultimo film di Clack Gable, nella quale Huston aveva diretto Marilyn Monroe. «Era molto brutta, poverina», disse Onetti di Marilyn, «ma era una brava ragazza». «Juan ha conosciuto Arthur Miller negli Stati Uniti», disse Dolly, «ma gli è sembrato terribile quello che ha fatto con Marilyn nella sua opera teatrale: presentarla così senza alcun pudore».
Onetti disse che stava leggendo una biografia di Raymond Chandler: «Una volta Chandler pensò di suicidarsi ma sbagliò la mira. I suoi amici lo sfottevano dicendogli che scriveva dei bei libri gialli ma che non sapeva suicidarsi».
Onetti rideva con la risata lenta e appagata con la quale avrebbero potuto ridere Larsen o Díaz Grey, una risata che soppesava l’ironia profonda di ogni situazione, cosciente delle definizioni che uno dei suoi personaggi dà sulla vita: «Un’idiozia complicata».
A un certo punto della conversazione, quando io avevo superato già le mie timidezze iniziali, gli dissi che lui ed io ci eravamo conosciuti tempo prima e che io avevo cercato di avvicinarmi a lui per dirgli che lo ammiravo molto. Me lo aveva impedito, in parte, la convinzione che lui sarà sicuramente stato stanco di sentire dichiarazioni di ammiratori improvvisati. Onetti mi osservò brevemente e mi rispose: «Si sarebbe dovuto avvicinare e dirmelo. Non mi sarei infastidito perché la vanità di uno scrittore non ha limiti». Quel pomeriggio, quando me ne andai, credo di averlo notato sollevato per non aver dovuto rispondere a nessuna domanda sulla sua opera (o diciamo sulla funzione dello scrittore nel mondo moderno, vai a sapere).
«Un altro giorno poi mi domanderà perché e con che fine scrivo», mi disse e immediatamente mi rilasciò un commento: «L’unica risposta a questa domanda è quella che diede Borges: “Scrivo per evitare il pentimento che sentirei se non scrivessi”».
Lo vidi altre due o tre volte. Vivendo già fuori dalla Spagna, trovai sui giornali spagnoli alcune foto sue, una delle quali con lui seduto a un tavolo come membro di una qualche giuria. Aveva un aspetto spettrale. Era come fuori luogo; emanava un’aria al contempo ieratica e vulnerabile, con la convinzione, evidente in tutto il corpo, che qualsiasi luogo era preferibile a quello. Una sigaretta accesa pendeva dalle sue labbra, come parte del suo viso. A differenza di alcuni, che stavano con lui al tavolo, dava l’impressione che non ci fosse in lui nulla di falso.
Era lo stesso viso che lo accompagnò nelle ultime foto, i vari anni in cui stette a letto, aspettando pazientemente la fine della sua breve vita.
Una serie di aneddoti alimentarono la sua leggenda, incluso molto prima della sua morte nel 1994. Un testimone ricorda che nelle riunioni di famiglia a Montevideo, dalla tasca tirava fuori una siringa e chiedeva a un nipote piccolo di iniettare la gamba delle sue zie per far arrivare loro il sangue. Un’altra storia ha a che vedere con i suoi lettori. Negli anni Sessanta, all’Università di Berkeley, una giovane delicata e sensibile si avvicinò al professore e gli chiese di togliere Onetti dal corso di letteratura ispanoamericana. La ragione: «Onetti mi distrugge».
Una soggettività errante
Per essere uno scrittore così ombroso, la sua infanzia non sembra essere stata particolarmente dura. Una delle esperienze infantili che ricordava, oltre alla passione per i libri di Jules Verne, era che organizzava, nel suo quartiere, guerre con le pietre. «Ricordo che i miei genitori erano innamorati», dichiarò. «Lui era un gentiluomo. Lei era una dama schiavista del Brasile meridionale». Anche la sua inclinazione per la mitomania – un tratto comune a molti scrittori – si manifestò presto.
«Cominciai a mentire da molto piccolo», disse nel programma A fondo, della Televisione Spagnola a Joaquín Soler Serrano.
Nato a Montevideo nel 1909, secondo di tre fratelli (il maggiore Raúl e la minore Raquel) i suoi genitori furono Carlos Onetti, agente della dogana e la brasiliana Honoria Borges. Onetti abbandona gli studi secondari a causa di uno sciopero e, negli anni Venti, è portinaio, venditore di biglietti per lo Stadio Centenario e vigilante della tramoggia nel Servicio Oficial de Semillas. Questo variare di occupazione è solo un’anticipazione di ciò che verrà dopo. Nel 1930 si sposa con sua cugina María Amalia Onetti, con la quale viaggia a Buenos Aires, dove vive vendendo addizionatrici. Nel 1931 nasce il suo primo figlio, Jorge, che sarà anche scrittore (riceverà il premio Biblioteca Breve nel 1968 per il romanzo Contramutis). Secondo una versione, nel 1932, la prima stesura del Pozzo si perde in un qualche trasloco. Il suo primo racconto «Avenida de Mayo-Diagonal-Avenida de Mayo», pubblicato su La Prensa nel 1933, anticipa la natura della sua opera: un uomo che cerca di rifugiarsi, afflitto dall’intorno.
Nel 1934, di ritorno in Uruguay e separato dalla moglie, si sposa con la sorella di lei, María Julia. È segretario di redazione di Marcha, nei cui locali vive. Passa un lungo periodo – dal 1941 al 1955 – a Buenos Aires lavorando per l’agenzia Reuters. Dei suoi anni a Buenos Aires esiste una lunga e meravigliosa corrispondenza con Mario Benedetti. Nel 1945 si sposa con una collega, María Elizabeth Pekelharing, con la quale ha una figlia, María Isabel (Litti). Un giorno María Elizabeth gli presenta una giovane interprete di musica classica, una ragazza argentina di origine tedesca, Dorotea Muhr. Nel 1955, a 46 anni, si sposa con Dolly, che sarà sua moglie fino alla fine. Le sue avventure non erano solo lavorative o matrimoniali. Nel 1956, durante un viaggio in Bolivia, rimane coinvolto in una sparatoria durante la quale un proiettile gli perfora il cappello.
La sua vita è marcata da una varietà di lavori e relazioni. È la tipica vita di un uomo che è saltato da una cosa all’altra, che non ha un solo progetto a lunga scadenza, fatta eccezione per quelli letterari. Come si sa, non era uno scrittore professionista con sessioni giornaliere e disciplinate. Ci furono periodi anche di due anni (intorno al 1975) nei quali non scrisse una sola riga. «Tu sei sposato con letteratura. Per me è come un’amante», disse a Vargas Llosa durante un incontro a Guadalajara.
Fedele alla sua condizione di marginale, fu un eterno secondo. Perse concorsi letterari contro scrittori di ogni genere, bravi, normali, e anche quegli altri. Le sue opere furono seconde a quelle di Ciro Alegría (premio della casa editrice Farrar and Rinehart), Bernardo Verbitsky (premio editoriale Losada), Jorge Masciángioli (Fabril), Marco Denevi (Life in spagnolo). Alla fine, il suo romanzo Raccattacadaveri (1964) è relegato in secondo piano dal grande La casa verde di Mario Vargas Llosa nel Premio Rómulo Gallegos del 1967 («il fatto è che il mio bordello era più piccolo», si giustificò in seguito Onetti).
Nel suo discorso di ritiro del premio, Vargas Llosa dice che l’America Latina non ha dato al “grande Onetti” il riconoscimento che si merita. Fin dai primi anni importanti critici uruguayani come Ángel Rama ed Emir Rodríguez Monegal gli hanno dedicato saggi. Il resto della critica e dei lettori, però, avrebbe tardato ancora un po’ («I critici sono come la morte», disse Onetti una volta. «Ci mettono un po’, ma poi arrivano»). Nel 1975 è eletto come miglior narratore uruguayano degli ultimi cinquant’anni in un’inchiesta realizzata dal settimanale Marcha. Obbligato a lasciare l’Uruguay dalla dittatura del 1974 (diede un premio a un racconto “antipatriota” di Nelson Marra, mio generale), nel 1975 si installa a Madrid, dove si sarebbe fermato quasi vent’anni, la metà dei quali steso a letto, per sua propria decisione. A Madrid, circondato dall’affetto di molti spagnoli e latinoamericani, tornò a scrivere. Il suo ultimo romanzo, Cuando ya no importe (Alfaguara), venne pubblicato un anno prima della sua morte.
I nuovi lettori
Le versioni variano ma, comunque sia, quella di Onetti non è un’opera breve. Scrisse probabilmente 11 romanzi, 47 racconti, 116 saggi e tre poesie. A dieci anni dalla sua morte [l’articolo è del 2004. ndr], continua ad avere lettori in tutte le lingue. Sono certamente lettori minoritari, ma appartengono a un culto segreto (ne conosco due che pensano che lui sia il migliore scrittore latinoamericano). […]
Inoltre continuano a essere pubblicati libri sulla sua opera. L’ultimo – l’interessantissimo Onetti / La fundación imaginada di Roberto Ferro – è apparso a gennaio di quest’anno. Ci sono studi canonici come quelli di Josefina Ludmer e Omar Prego con María Angélica Petit. Onetti ha ispirato anche artisti di altre specialità. Silvia Varela disegnò «El Onettion» e Diego Legrand nel 1998 compose il suo pezzo musicale El pozo. Uno dei suoi grandi continuatori è senza dubbio Antonio Muñoz Molina, il cui stupendo romanzo L’inverno a Lisbona ha assimilato le lezioni di Onetti. Quel bar buio, con musica jazz, personaggi come Floro Bloom e Biralbo, dialoga sia con Onetti sia con Muñoz Molina.
Negli anni Settanta, vivendo a Madrid, scoprii un suo racconto che non conoscevo. Tra i saldi di un locale di El Corte Inglés c’era un libro sottile con copertina nera, un’antologia di racconti ispanoamericani. Uno dei racconti era di Onetti. S’intitolava «La total liberación», la storia di una donna che confessa al proprio compagno la sua infedeltà. È uno dei racconti più originali che io abbia letto in vita mia, e non l’ho più visto pubblicato. Ho cominciato a dubitare che sia suo.
Qual è il suo lascito? Onetti ha contribuito in maniera definitiva alla narrativa in spagnolo con la creazione di un’atmosfera. Oggi nessuno sarebbe in grado di descrivere, senza ricordarla, una stanza chiusa con uno o diversi uomini che fumano, e che parlano a voce bassa con una donna dal volto e il corpo consumati. Possiamo continuare a leggere con lo stesso piacere una manciata di romanzi – La vita breve, Il cantiere, Raccattacadaveri e Gli addii – e perlomeno cinque racconti: «Il volto della disgrazia», «L’inferno tanto temuto», «Un sogno realizzato», «Benvenuto, Bob» e «Jacob e l’altro» [tutti raccolti nel volume Triste come lei, ndr]. Tra questi credo che La vita breve sia uno dei grandi romanzi moderni in lingua spagnola, mentre «Benvenuto, Bob» e «Jacob e l’altro», sono pezzi perfetti, ciò che volgarmente conosciamo come opere maestre.
La “delinquenza solitaria”
Onetti è un esploratore dell’essenziale disfatta di qualsiasi vita umana. Per i suoi personaggi, la disfatta e la sensazione della disfatta ci toccano prima o poi come «un brigante su un viottolo» (lo dice Raccatta in Raccattacadaveri). La sua sensazione del naufragio al quale è predestinato ogni essere umano nel suo ciclo naturale, secondo Raccatta «indipendentemente da qualsiasi circostanza immaginaria». Nei suoi personaggi, lo scettiscismo è un’attitudine naturale e istintiva. Se la gioventù è una volgare ubriacatura di potere e ottimismo, la realtà dell’età adulta è una successione di «stampi vuoti, mere rappresentazioni di un antico significato conservato con indolenza» (Juan María Brausen nella Vita breve).
Un vecchio non è qualcuno che è stato giovane ma un essere distinto, bandito per sempre dal paese della gioventù.
La vecchiaia è uno stato spirituale di corruzione, il vero stato. Se uomini e donne siamo condannati a vivere gli uni con gli altri è perché «Tutti siamo immondi e la sporcizia che portiamo in noi fin dalla nascita, uomini e donne, si moltiplica a causa della sporcizia dell’altro…» (Marcos in Raccattacadaveri).
I personaggi sono essenzialmente solitari osservatori e ossessivi, capaci solamente di cercare un’utopia privata (come il prostibolo perfetto che cerca di fare Larsen). I suoi personaggi non sono perdenti e nemmeno vincitori, sono lucidi autoritardatari del «banchetto della vita». Questa condizione ha anche un suo colore: «Riconobbe quella sfumatura esatta di grigio che solo i miserabili riescono a distinguere in un cielo piovoso», si dice di Larsen nel Cantiere. I personaggi hanno accettato questa situazione e, come Larsen, stanno «godendosi sé stessi nella loro solitaria delinquenza».
Nella sua opera gli esseri umani non sono vincolati dall’amore, la solidarietà, la compassione, ma dal disprezzo, la vergogna, la paura e l’odio («il principio d’odio e il fondamentale disprezzo che mi legavano a lei, alla sua voracità e alla sua bassezza», dice il narratore di Queca nella Vita breve).
Il Principe Orsini è («condannato ad accudire, mentire e annoiarsi come una bambinaia…») attaccato a Jacob. I personaggi di Onetti sono paralizzati da questo «sorriso assonnato» di Gertrudis nella Vita breve, il sorriso ironico che riflette la saggezza degli scettici.
Ma questo universo oscuro è in costante stato di tensione. Onetti porta i suoi personaggi al limite della consapevolezza. Il suo sistema è basato sull’integrare in una sola esperienza le emozioni più radicali e contraddittorie: la felicità e il disgusto, l’amore e la vergona, l’odio e la tenerezza.
Così in Raccattacadaveri, Raccatta «oscilla tra la pietà e la nausea» mentre guarda il cadavere «immondo, grasso, tozzo, con macchie di sonno e di rossetto sulla faccia cascante e tumefatta». La stessa cosa accade nel Cantiere quando la donna dinanzi a Larsen si mostra: «la faccia inumidita dalla pioggia risplendeva, pacificata nella nebbia». Nel Cantiere, Díaz Grey è «abituato ormai alla noia e alla vergogna di essere felice». Larsen si ricollega alla «volgarità della speranza». Queste contraddizioni formano un sistema di tensioni. Il fumo è l’aria che respirano questi personaggi oscuri. Le sigarette sono «incastrate» nel corpo come succede con Junta. Tutti fumano a partire da Eladio Linacero, protagonista del romanzo breve Il pozzo (1939) e finendo con Onetti, un fumatore impenitente che nei suoi tempi migliori finiva vari pacchetti al giorno. L’oscurità delle stanze e i caffè nel loro spazio naturale.
I personaggi di Onetti sono convinti che l’inazione sia un’attitudine molto più saggia di qualsiasi forma di azione e dunque di fede. La sua opera prolunga, in un certo senso, quella dell’altro grande disincatato della letteratura uruguiana che fu Felisberto Hernández.
Il grande sogno
Senza dubbio, la lezione della Vita breve è che uno può «vivere molte volte, molte vite più o meno lunghe». In questi stessi personaggi oscuri la loro tendenza al sogno, all’idealizzazione appare come una luce. I personaggi sanno di essere solitari e incompresi ma trovano un rifugio feroce nella loro consapevolezza. «Il possibile Baldi» riempie di false leggende un passante proprio per nascondere e rivelare una vita anonima..
Eladio Lancero ricorda l’incorrotta María nel Pozzo. In «Un sogno realizzato» una donna paga un impresario di teatro perché metta in scena il suo sogno. In «Esbjerg, sulla costa», la donna va tutto i giorni al porto a veder partire le navi verso la terra che ha lasciato molti anni prima. Ma il sogno non è gratuito. Il prezzo che questi personaggi (generalmente donne) devono pagare per accedere alla liberazione del sogno è la morte (la donna di «Un sogno realizzato») o la follia (Moncha in «La sposa rapita»).
Una solitudine in fiamme
I personaggi circolano intorno a loro stessi. Uno dei procedimenti più comuni di Onetti è conferire autorità al punto di vista del narratore che è anche il protagonista o testimone diretto della storia. È un narratore ferocemente soggettivo con un’enorme consapevolezza che gli permette di sviluppare lunghi monologhi. L’enfasi dei suoi libri non è posta negli eventi della trama ma nel riverberarsi di questi sulla coscienza del narratore. La premessa dei suoi personaggi è la solitudine. I protagonisti non hanno mai amici. Soffrono la malattia dei solitari, l’ossessione. Il racconto è esattamente il risultato del suo scetticismo dinanzi alla comunicazione. Il solitario è, prima di tutto, uno scettico.
Questa solitudine fatta di monologhi ci da la sensazione che le sue narrazioni non cerchino mai di imporsi. Sono racconti che non parlano a nessuno. Non appare in essi mai l’artificialità della pirotecnia, la debolezza dinanzi al lettore. Muñoz Molina ha giustamente scritto nel prologo dei Cuentos completos (Alfaguara) che con i suoi racconti «sentiamo che stiamo assitendo, con spudoratezza, per miracolo, a una narrazione che esisterebbe ugualmente, anche se nessuno la conoscesse o ascoltasse».
Onetti enfatizza la solitudine dei suoi personaggi con un escamotage tecnico: i dialoghi indiretti. I suoi personaggi sentono le frasi altrui a distanza: «Accanto a me Bob stava dicendo che neppure lui, qualcuno come lui, era degno di guardare Inés negli occhi». Il narratore di «Esbjerg en la costa» segue a distanza la storia di Kirsten e Montes, che erano «d’accordo, senza saperlo, nella disperazione e nella sensazione che ciascuno è solo, che sempre risulta sorprendente quando ci mettiamo a pensare». La solitudine è uno spazio infinito, l’unico nel quale può crescere e svilupparsi, nel quale può esistere la letteratura. Oggi in tempo di fondamentalismi e fanatismi per ogniddove, lo scettiscismo di Onetti è una virtù rara e preziosa. La sua opera – un’esplorazione dei sogni nel sottosuolo – è parte del nostro tesoro, una gemma nell’oscurità.
Il volto
Una foto di Onetti giovane (nell’edizione Aguilar) lo mostra con occhi appena scappati alla macchina fotografica, un distratto con l’attenzione obliqua in un punto sconosciuto. Sono occhi enormi nei quali c’è una luce secca, rivolta verso dentro, un gesto teso e spigoloso, l’eterno sguardo laterale, risaltato dalla durezza delle labbra. Gli occhiali gli attaversano il naso e si perdono nei capelli, come uno strumento di tortura che lui sopporta con stoicismo, quasi con allegria. Una fronte ampia, aperta su una capigliatura disciplinata, dà al viso una cosistenza solida, la consistenza della vita vissuta verso dentro. Il tranquillo disprezzo che riflette attraverso la macchina fotografica non viene da un rancore programmato per essere esibito, il volgare stile Bukowski, ma da una specie fondamentale della tristezza, una tenera indifferenza sorpresa nel suo silenzio. Il silenzio originale di uno scrittore.
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