Niente miracoli a ottobre di Oswaldo Reynoso è in libreria: pubblichiamo un profilo dell’autore a cura di Francesca Lazzarato. L’articolo è uscito su il manifesto, che ringraziamo.
Ottobre, a Lima, è il mese in cui immense processioni attraversano la città, accompagnate dalla musica della banda, dai fumi dell’incenso e del cibo venduto a ogni angolo, dai canti e dagli applausi rivolti al Señor de los Milagros, copia su tela di una figura miracolosa che da trecento anni viene portata a spalla per le strade. L’immagine originale, un Cristo crocifisso dipinto nel diciassettesimo secolo da uno dei tanti schiavi africani, venne giudicata miracolosa dopo che il fragile muro di adobe su cui era dipinta resistette a due terremoti, e oggi il Signore dei Miracoli è il patrono ufficiale dei peruviani «residenti e migranti», che accompagna in ogni angolo del mondo i suoi fedeli, tradizionalmente vestiti di viola cupo e bianco.
È questa lentissima processione, con la sua solennità barocca e le sue coloriture pagane, a fare insieme da fondale e da cornice a Niente miracoli a ottobre (pp. 279), primo romanzo di Oswaldo Reynoso, un autore ancora sconosciuto in Europa e che tuttavia, dice il suo giovane collega Enrique Plana, «è il maestro di ogni scrittore peruviano sotto i cinquant’anni». Di anni Reynoso ne ha ormai ottantaquattro (appartiene alla cosiddetta Generazione del Cinquanta, come Vargas Llosa, Bryce Echenique e Ribeyro, per citare nomi noti anche da noi) e i suoi testi più famosi e discussi risalgono alla prima metà degli anni Sessanta; del 1961 è Los inocentes, libro d’esordio composto da cinque insuperabili racconti sui ragazzi di strada limeños, mentre Niente miracoli a ottobre, appena tradotto da Federica Niola per SUR, è apparso per la prima volta nel 1965. Ed entrambi hanno attirato a suo tempo anatemi critici di insolita violenza: oltre a una fascinazione per «la morbosità, l’immondizia, la perversione, la pornografia, l’abiezione», all’autore veniva rinfacciato il fatto di essere «un marxista rabbioso» che bisognava escludere dall’insegnamento, il mestiere con cui si è sempre guadagnato da vivere.
Di essere marxista, omosessuale e ateo, Reynoso non aveva mai fatto mistero, ed era inevitabile che, nel cauto cerchio della letteratura peruviana ufficiale, l’irruzione dei suoi personaggi consegnati alla disperazione, alla rabbia e alla rivolta, con la loro intensa corporeità abitata dalla violenza e dal desiderio, facesse deflagrare un’esagerata indignazione. A difendere la novità e il vigore di quei libri furono Arguedas, Vargas Llosa, pochi critici avveduti e Miguel Gutiérrez, fondatore con Reynoso del gruppo Narración (un vero specchio dei primi anni Settanta e delle loro ansie rivoluzionarie). Ma, ben più dei critici, è stato un pubblico giovane, vasto e fedele a garantire innumerevoli ristampe alle piccole case editrici con cui Reynoso preferisce pubblicare anche oggi che viene ritenuto un «classico vivente», autore di una decina di libri fondamentali tra romanzi, racconti e poesie, apparsi a lunghi intervalli perché riscritti e corretti all’infinito.
Niente miracoli a ottobre si svolge nell’arco temporale di quattordici ore, a partire dalla mattina grigia e viola di una giornata in cui poteri diversi, economico, politico, militare, religioso, esibiscono la propria forza attraverso la processione, mentre una folla di personaggi si muove tra il centro cittadino, affollatissimo di corpi che si strusciano, si affrontano, soccombono, i quartieri appena decorosi della piccola borghesia e le barriadas proletarie, le baraccopoli di una Lima che in quegli anni affrontava l’assalto di migliaia di contadini (un inurbamento cui non corrispondevano le necessità di un vero sviluppo industriale), e che stava per affrontare un nuovo colpo di stato militare e l’avvento della lotta armata del MRTA e di Sendero Luminoso.
Costruito per capitoli basati sul punto di vista, la voce o il monologo interiore dei diversi protagonisti, il romanzo procede turbinosamente verso una progressiva frammentazione, che nel finale diventa estrema e si spezza in singole frasi, a formare una costellazione di violenze piccole e grandi, enumerate, allineate: cariche della polizia, lanci di pietre, donne stuprate, pianti silenziosi, bordelli incendiati, prostitute in parata e l’offerta di un ultimo brandello della sorte di ciascun personaggio. Ecco i Colmenares, famiglia di classe media ansiosa di mantenere il decoro, ma in procinto di scivolare nella desolazione delle barriadas senza acqua né luce: il paziente capofamiglia vaga in cerca di un appartamento che non può permettersi, la figlia scivola insensibilmente nella prostituzione, la madre sfinita invoca il Signore dei Miracoli, il figlio minore si lega a una banda di strada e il maggiore, già vinto, cerca di scuotersi facendo «qualcosa di violento», sacrilego e imperdonabile.
Ed ecco il ricco don Manuel, obeso, potente e fin troppo grottesco, che ordisce colpi di stato e compra giovani amanti come Tito, capace però di inattese rivolte. Ecco Leonardo, il professore di sinistra, tutto discorsi teorici ma ben poco votato all’azione e probabile alter ego dell’autore, che viene presentato con un filo di ironia. Soprattutto, ecco la città, simile a un allucinato diorama che l’autore si china ad osservare, incarnandosi di volta in volta nei suoi personaggi e facendoci percepire gli odori pesanti, le superfici, i colori, i suoni, quasi a sollecitare tutti i sensi; un cupo spazio urbano percorso da bande giovanili crudeli ma anche innocenti, un luogo in cui il sacro si manifesta con esaltazione, ma dove di sacro non c’è niente (perfino il generale San Martín, il padre della patria, viene deriso nell’incipit, e le tuniche viola delle giovani fedeli nascondono civetterie estreme e curve da palpare), tra correnti non troppo sotterranee di sensualità e di furore, e corpi quasi tangibili: quello molle e caricaturale di don Manuel, quelli efebici degli adolescenti in vendita, quelli già contaminati delle ragazzine, quello della donna sconosciuta che, nel corso della processione, partorisce sul marciapiede.
L’autore sfiora tutti i registri, dalla tragedia alla parodia al pamphlet, legando ogni cosa grazie alla forza della scrittura: perché Reynoso, qui come in Los inocentes, parte dall’oralità – o meglio dal gergo di strada vivo e spavaldo che si è appropriato della lingua dei colonizzatori e ne ha fatto una creatura mutante e instabile – e la usa per «dare un senso poetico al linguaggio e alla struttura del romanzo» (una vera sfida per qualsiasi traduttore, che può non produrre gli esiti sperati ma che va comunque affrontata).
Viene, naturalmente, da chiedersi che cosa abbia tanto ritardato la scoperta di un autore di tale peso non solo in Europa, ma anche in America latina, dove solo di recente i suoi libri hanno cominciato a diffondersi davvero. C’entrano qualcosa, forse, una singolarità che rifiuta di essere classificata; la dichiarata estraneità di questo vecchio enfant terrible dalla lingua tagliente all’establishment letterario e editoriale; i lunghi silenzi; il volontario isolamento a Pechino, dove Reynoso è vissuto e ha lavorato per dodici anni, in cerca di utopie impossibili, e dove è nato il suo romanzo Los eunucos inmortales. Quale che sia il motivo, questa prima traduzione italiana ci getta energicamente tra le braccia di uno scrittore sorprendente, che è andato oltre la troppo semplice etichetta di «realismo urbano» per recuperare le lezioni dell’avanguardia, e coniugare così «il principio etico e il principio estetico» che rivendica come fondanti di tutta la sua opera.
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