Pubblichiamo un’intervista ad Ann Goldstein, la traduttrice americana di Elena Ferrante. L’intervista, a cura di Katrina Dodson, è apparsa originariamente su Guernica. Ringraziamo l’autrice e la testata.
di Katrina Dodson
traduzione di Sara Reggiani
Lo scorso marzo ho iniziato a pensare incessantemente a una sconosciuta di nome Ann Goldstein. Pensieri come: Che cosa farebbe Ann Goldstein? Scommetto che Ann Goldstein non ha bisogno di andare a controllare cose di grammatica. Chissà com’è stato per Ann Goldstein tradurre quella scena di sesso.
La maggior parte dei lettori che si lasciano contagiare dal fenomeno conosciuto come «Ferrante fever» sviluppa una vera e propria ossessione per la scrittrice italiana che risponde al nome di penna di Elena Ferrante, e per le amiche Elena e Lila, al centro della tetralogia di romanzi più comunemente chiamati romanzi napoletani. Io non faccio eccezione, se non fosse che la mia ossessione si è estesa anche alla sua traduttrice in inglese, Ann Goldstein. Sono caduta nell’incantesimo Ferrante-Goldstein proprio mentre lavoravo alla mia traduzione di The Complete Stories dell’autrice brasiliana Clarice Lispector. La Lispector, o Clarice, com’è conosciuta in Brasile, ispira una devozione altrettanto spassionata e sta avendo il suo personale momento di gloria da quando negli Stati Uniti è scoppiata la Lispectormania.
Mentre divoravo i primi tre romanzi napoletani e poi mi soffermavo sui più sottili, meno ammalianti, ma comunque avvincenti romanzi L’amore molesto, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, continuavo a paragonare la Ferrante alla Lispector, la Goldstein a me. Ero in dirittura d’arrivo dopo due deliranti anni passati a tradurre una raccolta di racconti che abbracciava l’intera opera della Lispector. Avevo seguito la sua evoluzione di scrittrice da quando aveva diciannove anni, nel 1940, alla morte, nel 1977, attraverso le eroine che inventava, incarnazioni di fasi diverse dell’esperienza femminile – ragazze, giovani donne, mogli, madri, nonne, vedove. Gli echi di questo percorso mi accompagnavano mentre osservavo Elena, eroina della Ferrante da L’amica geniale in poi, crescere e diventare una scrittrice, la voce delle vite di donne italiane dagli anni Cinquanta a oggi.
Mi colpiva inoltre una certa forza, se non violenza, nella scrittura sia della Ferrante che della Lispector. I loro stili non sempre si incontrano, eppure entrambe sanno maneggiare una descrizione, o anche una singola frase, con un’originalità e una sincerità così crude da risultare a volte come un pugno nello stomaco. Mi sono sentita allo stesso tempo sedotta e intrappolata da entrambe le autrici, così abili a coinvolgere il lettore nel mondo interiore dei loro personaggi.
The Complete Stories della Lispector era la mia prima traduzione di un intero volume. Al termine del lavoro ero una donna diversa. Ero anche il fantasma di me stessa, stordita dalle innumerevoli riletture delle bozze e stremata da altrettanti aggiustamenti lessicali, prosciugata dal peso emotivo dei personaggi della Lispector. Avrei voluto essere Ann Golstein, per come me la immaginavo: imperturbabile mentre con perizia produceva «un inglese elegante, brunito», come James Wood ha definito il linguaggio delle sue traduzioni della Ferrante sul New Yorker. Il suo lavoro possiede una disinvoltura che è frutto di oltre vent’anni di esperienza nel campo della traduzione, dieci trascorsi sui libri della Ferrante e il resto come collaboratrice del New Yorker, per cui da quarant’anni riveste il ruolo di responsabile del copy department.
Lo scorso agosto, dovendo recarmi a New York per il lancio di The Complete Stories della Lispector, ho scritto alla Goldstein chiedendole se potessimo incontrarci. Il mio desiderio era sì di crogiolarmi nella sua aura di nonchalance e determinazione, ma anche porle quesiti pratici sulla traduzione, sulla Ferrante e sui misteri del mondo editoriale. Ci siamo incontrate un venerdì sera per un cocktail e un’insalata vicino agli uffici del New Yorker allo One World Trade Center. Per la Goldstein settembre avrebbe portato il lancio non solo dell’ultimo romanzo napoletano, Storia della bambina perduta, ma anche dell’opera in tre volumi The Complete Works of Primo Levi, per cui la Goldstein, in qualità di curatrice, aveva coordinato il lavoro di nove traduttori oltre a lei. Tra le sue ultime traduzioni si annoverano una raccolta di interviste e saggi della Ferrante chiamata Frantumaglia, il romanzo di Pier Paolo Pasolini Ragazzi di vita, e In altre parole, un libro di Jhumpa Lahiri sull’Italia, la sua recente patria adottiva.
A novembre la Goldstein era a San Francisco per prendere parte a un dibattito su Primo Levi. È venuta a trovarmi per un tè una domenica pomeriggio, e in quell’occasione abbiamo ripreso il filo della conversazione precedentemente iniziata a proposito sia dei segreti ormai resi pubblici della Ferrante e della Lispector, sia di quelli non divulgabili. – Katrina Dodson per Guernica
Guernica: Com’è stato accompagnare il lavoro della Ferrante e la sua ricezione da parte del pubblico per dieci anni e sette romanzi? Come definiresti l’esperienza di rappresentarla, sia attraverso le traduzioni che quando venivi chiamata a parlare in sua vece all’uscita di un nuovo libro?
Ann Goldstein: Sai, è successo solo di recente, che sia diventata il volto di Elena Ferrante, se così si può dire. La sua rappresentante nel mondo. Quando uscì I giorni dell’abbandono, quello fu il suo primo libro pubblicato in inglese, e fu ben accolto. Ma non lasciò un segno profondo nel mondo della letteratura e ancora nessuno faceva congetture sull’identità dell’autrice. Subito dopo la pubblicazione di L’amica geniale, però, James Wood ha scritto quel pezzo sul New Yorker, ed è stato allora che l’attenzione si è focalizzata su di lei. Il terzo romanzo napoletano [Storia di chi fugge e di chi resta] ha segnato l’inizio della «Ferrante fever». È stato solo con l’uscita del quarto [Storia della bambina perduta] che ho iniziato a essere chiamata sempre più spesso a rappresentarla. Se non potevano avere l’autrice, volevano la traduttrice. È incredibile quanti autori ho conosciuto a tutti quei dibattiti e conferenze. Anche l’anno scorso ho partecipato a degli eventi, ma non immaginavo che si sarebbe arrivati fino a questo punto. La situazione è fuori controllo.
Questo è interessante, perché normalmente il traduttore è una presenza anonima.
Già. E oltre agli eventi, sono stata anche intervistata, cosa che non mi era mai capitata, tranne che da certi sconosciuti blogger italiani. Quando tutto è iniziato, ho pensato: Fantastico, questo è un gran momento per i traduttori. Riconoscere al traduttore un ruolo nella presentazione di un libro è una grande conquista, soprattutto se il libro in questione è molto famoso.
Io penso ai romanzi della Ferrante come divisi in due gruppi. Ci sono i romanzi napoletani, con il loro respiro storico, epico perfino, le trame coinvolgenti e i ritratti dettagliati della vita nei quartieri di Napoli. Poi c’è la triade L’amore molesto, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, molto diversi con quel loro linguaggio più scarno, più claustrofobici nel loro tentativo di penetrare la psiche delle eroine. Il tempo vola nei romanzi napoletani e io stessa ne ho divorati alcuni nell’arco di due giorni, mentre rallenta molto negli altri romanzi, che rappresentano quindi una lettura più ostica. Quali differenze hai riscontrato nella traduzione degli uni e degli altri?
I giorni dell’abbandono è stato il primo che ho tradotto e il primo che ho letto. È stata un’esperienza intensa, trattandosi di un romanzo intenso. Credo sia in un certo senso un romanzo più difficile, e il linguaggio è molto denso. È molto psicologico e tutto si svolge nella mente del narratore. Anche i romanzi napoletani naturalmente si svolgono nella mente di qualcuno, ma coprono sessant’anni, in cui questo qualcuno fa un sacco di cose diverse ed esperienze diverse, mentre I giorni dell’abbandono – anzi, tutti e tre i romanzi cui accennavi – si svolge nella mente di qualcuno in un arco di tempo limitato e si concentra su una sola esperienza. In questo senso, quindi, credo siano più difficili da un punto di vista emotivo, e in termini di linguaggio. Sono più difficili perché più condensati. Ma, del resto, difficili lo sono tutti [ride].
I romanzi napoletani presentano molti riferimenti a cose esterne, al mondo in generale, alla cultura, alla politica, alla città di Napoli. Molti hanno osservato che Napoli stessa diventa un personaggio. A dire il vero, le maggiori difficoltà le ho riscontrate proprio nella traduzione delle descrizioni della città. Alla fine del quarto libro [Storia della bambina perduta], dove si narra delle passeggiate fatte per Napoli e la figlia ripete tutto quello che Lila dice riguardo la storia della città, il linguaggio è molto complesso. Il lessico e la struttura delle frasi sono diversi perché infarciti di riferimenti e descrizioni storiche. Non c’è nulla del genere negli altri libri.
Che effetto ti fa che la saga napoletana sia arrivata al termine?
Mi tormentava molto il pensiero che un giorno sarebbe finita. Credevo che avrei reagito malissimo. E mi interrogavo su come la Ferrante avrebbe deciso di chiuderla. Sarebbe stato un finale appagante o no? L’ho trovato splendido. È un finale meraviglioso, e funziona. Non mi ha lasciato insoddisfatta. Mi ha emozionata. Mi è parso realistico e triste in un modo molto reale. Finisce come finiscono le cose nella vita, lasciando molte domande senza risposta – scelta che potrebbe sembrare poco leale o addirittura scorretta da parte dell’autrice. Ma a me è sembrato che abbia semplicemente voluto mostrarci la vita di questa donna. Quel che succede a lei, succede anche nella vita reale. E questo è uno dei motivi per cui i suoi romanzi hanno fatto appassionare tante persone. Perché ti penetrano dentro come qualcosa di molto realistico.
E sono caotici. La vita che vi viene descritta è caotica, complessa.
Sì, raramente mi azzardo a dire di una cosa che è realistica. Perché è una qualità tanto apprezzata? Mi riferisco più che altro al fatto che sappia coinvolgere, in modo intenso. Che ti faccia per un attimo credere che possa capitare anche a te.
E poi, alla fine, ho capito che è anche un libro sulla scrittura stessa.
In particolar modo l’ultimo.
Parla di che cosa vuol dire essere uno scrittore, fallire come scrittore, guardare i libri che si sono scritti e sentire di non aver realizzato nulla. Che tu sia o meno uno scrittore, puoi immaginarti mentre osservi la tua vita e pensi: «Che cosa ho realizzato?» In questi libri lei si chiede: «Che senso ha la mia vita?» Si serve del personaggio della scrittrice che ha un’amica, ma in realtà investiga sul senso della vita.
Mi sembra che l’ultimo libro chiuda il cerchio, intorno a Elena Ferrante autrice, perché ironicamente riflette molto su cosa significhi promuoversi come scrittore. Il personaggio di Elena è molto coinvolto nella promozione dei propri libri, viene intervistata e una sua foto compare sui giornali.
È vero. È proprio questo il fatto: una scrittrice che si rifiuta di farsi pubblicità ma che scrive di pubblicità.
E ne scrive come chi sa che cosa significhi.
Quanto basta per non volerne sapere.
Hai detto di non conoscere la vera identità di Elena Ferrante. Ma è ovvio che tu ti sia fatta un’idea di che tipo potrebbe essere. Per esempio, hai detto di non aver mai dubitato che fosse una donna e che supponi appartenga alla tua stessa generazione. Cos’hai scoperto su di lei attraverso la sua scrittura, che è sempre personale anche quando non prettamente autobiografica?
Ho capito, da tutti questi libri e dalle interviste contenute in Frantumaglia, che si tratta di una persona estremamente colta. Non c’è niente che non abbia letto, credo.
E di recente ha scritto anche una prefazione a Ragione e sentimento. È stato uno shock venire a saperlo.
Eh sì. È per questo che dico che ha letto di tutto. Sulla Paris Review ha parlato di Jane Austen. Perciò sì, ha letto molto. È evidente che sia una persona di straordinaria intelligenza. Possiede un bagaglio di conoscenze letterarie notevole, conta su una formazione molto importante, ma tende a non farlo pesare. Non è una cosa palese, non si ha la sensazione che voglia farti presente di aver letto questo o quello.
Nei romanzi napoletani si parla della formazione letteraria di Elena, ma è stato leggendo le sue interviste che ho realizzato: «Oh, allora legge Donna Haraway, Shulamith Firestone, Judith Butler e Teresa de Lauretis». E ho pensato: «Ah, è proprio un’intellettuale».
È senza dubbio un’intellettuale. E lavora sodo, fa molte revisioni e riscritture. Tra i primi due romanzi, L’amore molesto e I giorni dell’abbandono, sono passati dieci anni. E non pubblica nulla che non sia calibrato esattamente come vuole lei. Ha una forte consapevolezza di sé e di ciò che vuole dire. E credo che questo si percepisca dai suoi romanzi. Abbiamo tutti i dati biografici – il fatto che è cresciuta a Napoli, che poi se ne sia andata, che abbia vissuto altrove. E ha letto tutto il femminismo italiano e francese. Credo che abbia dei figli. Questi sono dettagli esterni. E per come funziona la sua mente, dev’essere una persona molto decisa. Devi esserlo per scrivere romanzi del genere, in particolar modo quelli del ciclo napoletano, devi prima avere i personaggi ben chiari nella mente per poterne scandagliare la psiche in maniera così precisa, dettagliata, concreta.
Sia la Ferrante che la Lispector scrivono di donne che sono mogli e madri in paesi segnati da ruoli di genere tradizionalmente molto definiti – Italia e Brasile – e che, ciascuna a suo modo, si ribellano a tali ruoli. C’è molto tormento e conflittualità nei loro libri e per me in quanto traduttrice immedesimarmi così intimamente in quei sentimenti è stato estenuante quanto affrontare la traduzione più tecnica che ci sia. Che cosa puoi dirmi a questo proposito in base alla tua esperienza con la Ferrante? I suoi personaggi hanno tormentato anche te?
Oh sì. Con I giorni dell’abbandono, sarà che era il primo o perché è davvero inquietante, ho avuto seri problemi. Vi trovavo delle cose che credo tutti abbiano riconosciuto. Come quella scena con la chiave, quando lei pensa di essersi chiusa dentro… ecco, io ho un problema con le chiavi. La Ferrante ha il potere di dare corpo ai tuoi incubi. E questo mi fa davvero paura. Mi sono identificata con la narratrice – ci si identifica sempre in un certo senso con un «io» femminile che narra di qualcosa che può esserti o meno capitato. Ma molte volte con la Ferrante arriva un punto in cui sento di non poterlo fare e inizio a domandarmi, disperata: «Oddio, ma che sta facendo, che succederà, dove andrà?» Quando ho iniziato a tradurre il primo romanzo napoletano, L’amica geniale, non avevo ancora letto gli altri, naturalmente, perché ancora non li aveva scritti. Perciò ho saputo come si concludeva l’intera vicenda solo dopo aver letto l’ultimo libro. È stata un’esperienza strana, leggere qualcosa, o tradurre qualcosa, che non avevo idea di come sarebbe finita.
Ti sei lasciata guidare.
In un certo senso – ripensandoci – anche la vita è così. Non sai che cosa ne sarà di te. Io non sapevo che avrei rappresentato Elena Ferrante. O che avrei dovuto parlare per lei, cosa che ovviamente non posso fare, perché io sono soltanto le sue parole.
Il portoghese della Lispector è a tratti stravolto e sgrammaticato – cambia il finale di certe parole, utilizza preposizioni non convenzionali, tutte cose di cui ti devi accorgere e dire: «Ma non è così che si dice in portoghese». Per contro, la scrittura della Ferrante trasmette una sensazione di maggiore fluidità. Sembra addirittura che si sobbarchi di un lavoro di traduzione, quando ci dice che i personaggi parlano in dialetto ma lei non scrive in dialetto. Potresti parlarci del suo stile e dell’effetto che fa leggerla in italiano?
La cosa interessante è che i suoi libri sembrano di fatto molto leggibili in italiano. Ci sono di tanto in tanto espressioni idiomatiche strane che sono tipiche del napoletano. Si sofferma molto sull’uso che la gente fa del linguaggio. Ci avverte quando qualcuno sta parlando in dialetto. Ci dice di Lila che, quando vuole, sa parlare un italiano perfetto. Non ce ne vengono offerti esempi concreti, ma la Ferrante ci dice: «Lei parlava così», oppure a volte anche Elena soccombe al dialetto. C’è un momento in cui decide di non volerlo più parlare, ma poi continua a ricaderci. La ragione per cui la Ferrante non utilizza il dialetto, ovviamente, è che molti italiani non capirebbero. Ma potrebbe essere anche perché, come ha osservato un professore di italiano della City University di New York, il dialetto napoletano è una lingua parlata, e se lei la usasse per scrivere, non avrebbe comunque senso. Perderebbe il sapore che ha in quanto lingua parlata.
Al momento sto lavorando a un romanzo di Pasolini [Ragazzi di vita], che per me è un’impresa essendo scritto in gran parte in romanesco. Nell’edizione italiana il romanzo è corredato di glossario, ma nel glossario non ci sono tutte le parole. Ho trovato un dizionario romanesco-italiano, che mi è molto di aiuto, ma non è sufficiente. I dialoghi sono spesso non solo in romano, ma anche infarciti di espressioni gergali.
Come ti comporti in questi casi?
Fatico molto. È una delle cose più difficili, come saprai, tradurre qualsiasi cosa non sia convenzionale. La mia politica in genere è di non fare sciocchezze, di non forzare l’inglese. Mi sforzo soltanto di essere più colloquiale. Come ti sei comportata tu in questi casi con la Lispector?
Certi momenti riuscivo a individuare una soluzione, ma le preposizioni erano un problema. Per questo la Lispector è destinata a suonare più strana in portoghese. Non sempre però inventa, perciò talvolta è strano tradurre in un inglese standard e all’improvviso trovarsi davanti una parola che non c’entra nulla.
È strano, sì. Ed è dura arrendersi.
È molto dura. E non sempre si può ovviare in inglese. Ciò che tiene insieme il tutto nell’originale è una sorta di ritmo, una cadenza o un modo di scrivere che è solo suo. Così in inglese cerco di riprodurre un certo ritmo. Il vantaggio di tradurre The Complete Stories è che si hanno a disposizione ottantacinque racconti e dopo un po’ si individuano delle costanti. Più leggi, più capisci che ha il suo modo di rigirare le frasi e dopo un po’ ti abitui.
A tale proposito, mi affascina sapere che oltre all’imponente lavoro di traduzione, lavori al New Yorker da quarant’anni, in qualità di responsabile del copy department. Come concili il lavoro al New Yorker con quello di traduttrice?
Credo che essere editor, e lavorare quindi con le parole, sia un buon allenamento per un traduttore, perché ti abitua a prestare loro attenzione in un modo molto specifico, concreto e letterale. Credo sia per questo che poi ho pazienza nel tradurre.
Immagino che la tua forza derivi in buona parte dai tanti anni passati al New Yorker, una settimana sì e una no, puntuale come un orologio. È questa la straordinaria base letteraria e linguistica su cui poggi.
Sì. In un certo senso è limitante perché sono solita attenermi a certe regole ferree. Immagino sia solo un mito il fatto che tutti gli scrittori del New Yorker sembrino usare la stessa lingua – è ridicolo – ma di certo rispettano la grammatica.
Uno dei momenti che più mi ha colpito durante la nostra prima conversazione a New York è stato quando ti ho chiesto cosa si prova a scrivere cose forti e scioccanti come quelle che scrive la Ferrante, e tu hai risposto: «Questo è niente, leggiti Petrolio di Pasolini». Il New Yorker invece è noto per aver sempre avuto uno stile meno appariscente, più elegante, soprattutto in passato. Tradurre la Ferrante ti dà modo di prenderti una pausa dalla natura più rigida del tuo lavoro di editor del New Yorker?
No, non lo vivo con sollievo. Le scene della Ferrante di cui parli sono… complicate. I gesti fisici sono sempre più difficili da descrivere, da tradurre. Per esempio nell’ultimo romanzo napoletano c’era una scena cruciale, una scena di sesso, che ho faticato molto a tradurre. Era difficile far combaciare le parole con le immagini. Innanzitutto è un momento orribile, per quanto si sia consapevoli che il personaggio è cattivo. È una scena incredibile. Ma dal punto di vista tecnico…
Di fronte alle scene più esplicite e tutto quello scambio di fluidi corporei, quindi, ti poni in modo del tutto professionale. [Ride.]
Be’, non si ha altra scelta. Immagino che tu non abbia letto Petrolio, l’avranno letto circa tre persone in tutto il mondo [ride], ma c’è questa scena molto, molto lunga al centro del libro in cui il protagonista si reca in un campo nei dintorni di Roma, insieme a una ventina di ragazzini e… be’, non sto a dirti che cosa fa con loro. E tu ti trovi a descrivere questi incontri sessuali, con tutti quei nomi di parti fisiche e tutti quei movimenti, ed è un’impresa quasi titanica!
Un punto in comune tra il tuo lavoro sulla Ferrante e il mio sulla Lispector è che entrambe lavoravamo con un revisore che faceva il riscontro con ogni singola parola dell’originale. È insolito disporre di questa ulteriore fase di editing, almeno negli Stati Uniti. È un lusso, diciamo. Com’è stato lavorare al fianco di Michael Reynolds dell’Europa?
È molto tempo che lavoriamo insieme. Non c’è granché da dire, in verità. È un rapporto molto civile, il nostro. Lui scova sempre qualcosa. Ti sfugge sempre un dettaglio, un errore da qualche parte. O salti una riga. Perciò non puoi che essere grata di un simile aiuto. Poi a volte mi indica un passaggio e dice: «Qui non funziona», o dà dei suggerimenti, ma a parte questo è molto discreto. È una cosa insolita, sì. Alla New Directions lo fanno?
No. È stato un caso isolato ed è stato voluto da Ben Moser specificamente per le opere della Lispector.
Ed è stata più dura per te, immagino. Moser era molto più presente.
Sì, anche perché lui mi ha coinvolto in un progetto che contava già su moltissimi traduttori. L’obiettivo era di mantenere una certa coerenza nella resa inglese dei diversi libri. Come dicevi tu a proposito del New Yorker, c’è uno stile editoriale da rispettare anche nel caso della Lispector. Ma conoscendo così bene il suo lavoro, quando leggo le traduzioni degli altri, individuo sempre chi ha tradotto cosa. Lasci sempre la tua impronta, anche inconsapevolmente. Ben è una presenza molto attiva come editor, ma io lo apprezzo. A tratti è dura, come sempre quando si lavora a stretto contatto con un’altra persona. Bisogna avere lo stesso approccio alla traduzione e discutere i passaggi più insidiosi può aiutare. Semplicemente potersi confrontare con qualcuno è un sollievo.
Già, è proprio un lusso. A volte lascio a Michael degli appunti nel testo dicendo: «Tu che ne pensi? Lascio così?»
Oh sì, lo facevo spesso anch’io con Ben, soprattutto all’inizio, quando stavo ancora cercando la voce da dare all’autrice. Faccio questa cosa che gli amici chiamano «il gioco degli slash», per cui scrivo per esempio: «Una sera/notte di maggio» o «Rabbrividì/Fremette».
Anch’io faccio così!
Davvero? E poi ci ripassi sopra per decidere quale sia la parola migliore. Perché certi termini sono più ambigui di altri e non riesci a deciderti finché non li leggi nel contesto generale. A proposito di questo, parliamo del tuo lavoro di editor sui libri di Primo Levi. Trovo straordinario che tu abbia avuto in uscita The Complete Works of Primo Levi in settembre, lo stesso mese che è uscito l’ultimo della Ferrante. Tre volumi, quattordici libri, tremila pagine, e hai lavorato al fianco di altri nove traduttori, oltre a tradurre tu stessa tre libri. Sei una forza della natura!
Be’, sembra ma non è così. Erano dieci, undici anni che lavoravamo su Levi, perciò è stata solo una coincidenza che siano usciti insieme. Ho imposto il mio stile, talvolta, per il motivo che dicevi prima, per avere una voce il più uniforme possibile. Con i libri che io stessa traduco ho un rapporto più intimo, ma anche sugli altri ho lavorato molto, per anni e anni. Per fortuna il revisore aveva a sua volta un revisore! Alla Norton c’era una persona addetta alla coordinazione del lavoro che teneva traccia di ogni fase e dello stile, cosa incredibile. Mi è stato di grande aiuto. C’erano momenti in cui perdevo il filo di ciò che avevo fatto.
Non si può arrivare da tutte le parti. Io avevo compilato questo file Excel in cui mi segnavo tutte le parole chiave e come le avevo tradotte, ma a un certo punto è diventato troppo complicato!
Io non l’ho mai fatto. Ci ho pensato e mi sono detta che è praticamente impossibile. Perché, dopotutto, pensa a una parola in inglese – non la si utilizza sempre nello stesso senso. Quando lavoravo allo Zibaldone di Leopardi, i revisori erano fantastici. Era un progetto più accademico, ma mi fornirono una lista di termini e di modi in cui venivano usati di volta in volta. Con Levi però non l’ho fatto. Non ci ho nemmeno provato, a dire il vero, o non ci ho proprio pensato, forse perché non so usare Excel!
Ho letto che il primissimo racconto che hai tradotto fu pubblicato sul New Yorker. «Čechov a Sondrio», di Aldo Buzzi.
Aldo Buzzi era un amico di Saul Steinberg, il leggendario illustratore del New Yorker che aveva studiato in Italia prima della guerra. Steinberg aveva inviato un libro del suo amico all’editor del New Yorker, che all’epoca era Bob Gottlieb. Bob sapeva che leggevo l’italiano e mi disse: «Potresti leggermelo come favore a Steinberg?» Io lo feci, e mi piacque molto. Così pensai: «Sai cosa, ora provo a tradurlo». Lo facevo per me. Ho iniziato a tradurre perché credevo che fosse un modo più diretto di studiare l’italiano e penetrare così nella lingua. Ho pensato: «Che diamine, ora lo do a Bob e vediamo che dice». E piacque anche a lui, tanto che lo pubblicò [nel numero del 14 settembre 1992]. È venuto tutto molto naturale.
E l’italiano hai iniziato a studiarlo sempre al New Yorker?
Sì. Perché avevo sempre desiderato poter leggere Dante nella sua lingua. E il caso ha voluto che in redazione ci fossero molte altre persone interessate a imparare l’italiano. Abbiamo studiato un anno e poi abbiamo letto Dante per i successivi due anni. Lo leggemmo tutto quanto. Assurdo. Un’ora alla settimana. A quei tempi le aziende offrivano la possibilità di seguire dei corsi di approfondimento. Perciò pagavano loro, se studiavi una lingua straniera.
Ma è fantastico. Che anno era?
Era il 1987, quando abbiamo iniziato. E abbiamo proseguito fino agli anni Novanta. Abbiamo studiato a lungo e alla fine le lezioni si sono trasformate in chiacchierate a cena con l’insegnante. Di recente abbiamo ricominciato a farlo. Il fatto è che anche solo sentire altre persone parlare italiano aiuta. Tiene l’orecchio allenato.
© Katrina Dodson, 2016. Tutti i diritti riservati.
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