Inauguriamo oggi una nuova rubrica. Abbiamo chiesto ad alcuni traduttori di raccontarci la loro esperienza al lavoro su un autore o un’opera in particolare. Iniziamo con Carlo Alberto Montalto, traduttore italiano dello scrittore messicano Daniel Sada. Buona lettura!
di Carlo Alberto Montalto
Leggere un autore come Daniel Sada rappresenta un’esperienza rara nel panorama della letteratura contemporanea. Ma anche tradurlo!
Il suo boom narrativo coincide con la realizzazione del grande prosimetro, Porque parece mentira la verdad nunca se sabe, romanzo assai vicino alle grandi creazioni linguistiche di José Lezama Lima, Guillermo Cabrera Infante e João Guimarães Rosa.
Ma l’autore messicano raggiunge l’apogeo letterario grazie a Quasi mai, opera con cui viene insignito del Premio Herralde, conferito dalla casa editrice spagnola Anagrama.
Quasi mai vuole proporsi come una scommessa contro lo scorrere del tempo. Il titolo stesso – sono quattro i richiami all’interno del testo – mira verso un abbordaggio alla temporalità come tema complesso, anche sotto l’aspetto linguistico. Potremmo dire di trovarci davanti a un romanzo doppiamente storico: da una parte è ambientato nei villaggi del Messico rurale della metà del secolo scorso e racconta delle pene e dei desideri degli abitanti di questi luoghi; dall’altra, il suo ritmo interno e la sua velocità di lettura – che il lettore legittimamente richiede – sono elementi tipici di quel periodo.
Prima di tradurre Quasi mai, titolo con cui Sada è giunto al lettore italiano per la prima volta, ho letto il romanzo in lingua originale, così mi sono accorto che (con l’allarme tipico della grande letteratura) la punteggiatura – la sola, cioè, architettura musicale di cesure, abbellimenti, raddoppiamenti, legature di valore e via discorrendo – costituiva di per sé una prima lettura del romanzo. L’intenzione di Sada, infatti, è da subito quella di esserci, di essere presente sia all’interno della sua storia, sia all’interno della sua lingua. Esiste in Quasi mai, come in altri romanzi dell’autore messicano, una doppia punteggiatura. Una di stampo narrativo-prosaico, per così dire, l’altra di stampo teatrale. La sua scrittura, infatti, regge tanto il respiro della lettura a voce alta, il recitativo come si diceva una volta, sia le più fisse regole dell’interpunzione scritta. Questo è stato il punto di partenza, il faro che ha illuminato le mie scelte nella resa della punteggiatura che è rimasta il più possibile aderente alle intenzioni dello scrittore.
La mia preoccupazione iniziale, nell’intraprendere la traduzione del romanzo, risiedeva nella resa, e dunque la scelta, di ogni singola parola. Eppure, ciò che poteva sembrare in apparenza un ostacolo insormontabile, trovava una soluzione proprio all’interno della sua difficoltà: ogni vocabolo, alla fine, ha ritrovato la sua metà: il suo traducente, ogni serratura avrebbe potuto essere violata da una e una sola chiave. Per quanto magari si potesse scorgere la sottile vicinanza tra due termini, perfettamente sinonimici, alla fine anch’io, da traduttore, ho avvertito l’esigenza di ricorrere a un traducente anziché un altro. E anche quando sembrava che si stesse incappando nella famigerata trappola del calco – penso a termini ricorrenti nel romanzo come «crasso», «simulacro» e il così tanto fascinoso «silhouettismo» – ho cercato di operare un distinguo e, di conseguenza, sono giunto a una scelta ponderata. Probabilmente occorreva entrare in simbiosi con l’autore e rendersi maniacali tanto quanto lo era stato lui nella stesura del romanzo. Il che ha comportato anche un’esigenza conservativa della struttura dell’intero periodo: frasi sospese nel momento in cui un concetto (a detta di Sada) è ben che esaurito, indiretti liberi, doppie punteggiature che, come detto prima, generano una sorta di tensione emotiva all’interno della frase e della situazione narrata, flussi di coscienza joyciani, cultismi…: ogni peculiarità del testo originale è stata debitamente riscattata e mantenuta nel testo di arrivo. Naturalmente, il tutto è stato possibile solo dopo non poche riletture dell’opera.
In un primo momento, avevo pensato di rispondere al fuoco col fuoco, ovvero ricorrere a tutta una serie di libertà sul testo che potessero in un certo senso fare da eco a così tanta trasgressione letteraria. Tuttavia, non sempre è stato possibile, anzi… «quasi mai». Una cosa che fin dall’inizio del mio lavoro mi sono prefissato è stata la non contaminazione del testo di arrivo con altre lingue. Molto spesso mi sono trovato nella condizione di dover (o meglio poter) scegliere tra un termine inglese e un corrispettivo in italiano: la scelta è sempre ricaduta sull’italiano perché avvertivo il bisogno di un linguaggio legittimamente ancora scevro da quelli che sono gli stereotipi di globalizzazione che oggigiorno contaminano il nostro modo di comunicare (non dobbiamo dimenticare che nel caso di Quasi mai la storia si svolge alla fine degli anni Quaranta). Viceversa, in rarissime occorrenze ho sentito il bisogno di adoperare termini stranieri («amour» per «amorío») o addirittura latini («do ut des» per «dando y dando», che peraltro si prestava molto bene nel contesto in cui si collocava) nei casi in cui mi sembravano maggiormente efficaci rispetto a un vocabolo che, magari, in italiano non esisterebbe se non ricostruito. È questo il caso delle «sadate», questi eccezionali e irrinunciabili neologismi di cui ho cercato di calcare fedelmente la struttura, ovviamente nei casi in cui fosse possibile, per poi restituirli in tutta la loro meravigliosa efficacia; alcune di queste «sadate» sono vocaboli nati dalla fusione di due termini preesistenti (mi viene in mente un termine come «radiosalvezza»), altre sono invece espressioni che legano elementi semanticamente distanti o comunque insoliti da rintracciare in un medesimo contesto (potremmo considerare il grande incipit di Quasi mai la sadata-manifesto, volendolo battezzare con un gioco di parole analogo alla carrellata di binomi che inaugurano il romanzo). Laddove mi imbattevo in elementi propri della tradizione messicana, ho cercato di tenere presente ciò che potesse essere più o meno sdoganato in Italia, mi riferisco soprattutto al cibo, e dunque a tortillas, tacos, pandolce e così via. Questo per offrire al lettore non solo un testo che facesse leva sull’accessibilità, ma anche (e soprattutto) sulla genuinità, in modo da poterlo godere con maggiore ampiezza e maggiore spessore.
Si sa… Tradurre è un po’ tradire. Ma questo non significa certamente recare traumi al registro. In Quasi mai, poi, un’azione del genere sarebbe equivalsa a privare il romanzo di quella «eroticomicità» che lo contraddistingue. In quanto alla difficoltà di traduzione, se ne riscontra non poca, anche alla luce del fatto che la prima mina sessuale viene fatta brillare già all’incipit, dove – si sa – la traduzione subisce una marea di modifiche, durante e dopo la prima stesura. Inoltre, proprio se avessi ingentilito, o per parlare traduttese, se avessi «normalizzato», si sarebbe persa tutta la lettura ironica in controcanto che proprio l’esagerazione e l’ossessione restituiscono al lettore.
Se Quasi mai è più legato a certi aspetti del costume messicano, Il linguaggio del gioco si cimenta più da vicino con la politica e la cronaca messicana.
I cliché della droga, della malavita locale e di un sistema politico fortemente provato dai tanti disagi sociali non sono certamente i diacritici sadiani per eccellenza. Proprio per questo, trovo che nel suo accostarsi a una tematica tanto convenzionale quanto attuale, Sada abbia brillantemente superato l’esame, consapevole di aver rischiato molto se pensiamo a quanti suoi connazionali prima di lui ne hanno scritto e quanti ancora ne scriveranno. Ciò che, almeno a una prima lettura, distingue Sada, è la sua forma. In Sada la forma è (anche) la sostanza. La sua prosa, che riesce a essere così imprevedibile per il lettore solo perché in realtà è vigilatissima dal suo autore, gli permette di essere sempre «altro», di avere uno sguardo originale nelle sue trame, raccolte dal e nel mondo in cui vive, per forza di cose. Non bisogna però dimenticare che il vero battesimo di fuoco di Sada in merito a tematiche analoghe trova il suo potente (e copioso) parossismo nel mastodontico capolavoro Porque parece mentira la verdad nunca se sabe, manifesto di una politica malata, corrotta e assassina.
Sicuramente, l’aver avuto una traduzione pregressa all’attivo ha contribuito alla risoluzione di piccole e grandi insidie tipiche della scrittura di Sada. Malgrado ciò, non nascondo che la traduzione de Il linguaggio del gioco si è rivelata ostica e imprevedibile, forse più di Quasi mai. A tale proposito, convengo con l’idea che sia giusto – ma anche conveniente – che a presidiare l’itinerario traduttologico dell’opera di un autore (soprattutto se inedito) sia sempre lo stesso viaggiatore, altrimenti sarebbe come se questi attraccasse in un porto senza mai ripartire verso nuove avventure che lo attendono al di là dell’orizzonte.
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