Pubblichiamo oggi un pezzo di Alberto Riva su Manuel Puig e Il bacio della donna ragno. L’articolo è uscito originariamente sul Venerdì di Repubblica, ringraziamo l’autore per la concessione. Buona lettura!
di Alberto Riva
A più di quarant’anni dalla sua apparizione, Il bacio della donna ragno resta un romanzo ammantato di mistero. Ora che le edizioni Sur lo riportano in libreria dopo una lunga latitanza scopriamo, riaprendolo, che ne sapevamo poco e forse la colpa è del cinema. Le immagini del film di Hector Babenco, che valse a William Hurt il premio Oscar per il ruolo dell’omosessuale Molina rinchiuso in una cella di Buenos Aires insieme al guerrigliero Valentín, si sono fatalmente sovrapposte alle pagine di Manuel Puig; è il destino di ogni libro che diventa un film celebre.
Ma il mistero riguarda altro, ed è qualcosa di struggente. Da una parte la lunga e sempre imperscrutabile fortuna di un romanzo tra le cui pagine soffia un robusto vento di libertà: sperimentale nella forma, composto da materiali diversi, dialoghi, monologhi, verbali di polizia, battute come in un copione teatrale (e di fatto a teatro, persino a Broadway, il libro è stato portato più volte). Dall’altra il destino beffardo del suo autore, l’argentino Manuel Puig, scomparso nel 1990 a cinquantasette anni nel pieno del successo. Il bacio della donna ragno era il suo quarto romanzo: aveva esordito nel 1968 con Il tradimento di Rita Hayworth e avrebbe chiuso il ciclo con l’ultimo, bellissimo Scende la notte tropicale, titolo premonitore che Puig scrisse a Rio de Janeiro, penultima di una lunga serie di case e di città in cui visse. «Era un viaggiatore incessante e instancabile» conferma Suzanne Jill Levine, autrice di Manuel Puig and the Spider Woman, che lo conobbe nel 1969 a New York in un ristorante cinese e ne divenne traduttrice e biografa. Prima di New York, a ventiquattro anni però Puig era atterrato a Roma iscritto al Centro sperimentale di cinematografia: voleva fare il regista. A General Villegas, la città piantata nella Pampa dove era nato, sua madre l’aveva cresciuto nella sala di un cinema davanti ai film di Hollywood.
«Nella sua casa di Rio non c’era quasi nulla, ma sullo scaffale dei libri erano allineate cartoline delle grandi dive del cinema: Rita, ovviamemente, ma anche la Garbo, Hedy Lamarr e un’immagine autografata di Norma Shearer per la quale scrisse una piece di teatro», ricorda oggi Vittoria Martinetto, traduttrice e docente di letteratura ispanoamericana a Torino, autrice del saggio Manuel Puig Reloaded (Edizioni Fili d’Aquilone). Insieme ad Angelo Morino, che fu il traduttore delle opere di Puig, Martinetto frequentò lo scrittore negli ultimi anni di vita: «Ci aveva installato nella casa di un suo amico, dove poi tornai molte volte. Mi capitava di passare la serata insieme a lui e alla madre a guardare film in videocassetta. Sua mamma, Malé, a quasi ottant’anni si era separata dal padre e lo aveva raggiunto a Rio. Manuel le aveva comprato un piccolo appartamento di fronte al suo: aveva finalmente vinto sul padre, con il quale non era mai andato d’accordo, essendo il classico argentino macho per il quale è meglio un figlio morto che un figlio gay».
Puig si formò grazie al cinema, ma fu tradendolo che giunse alla scrittura. Dice Martinetto: «A Roma si era scontrato con quella che chiamava la Dittatura del Cesare, cioè Zavattini, il neo-realismo, ma lui amava le storie di Hollywood. Iniziò a scrivere sceneggiature, visse a Parigi, Londra, poi tornò a Buenos Aires. Il suo primo romanzo nasce proprio da un lungo monologo: ma era una voce romanzesca, ed era la voce della madre, di quel mondo femminile con cui aveva trascorso l’infanzia. Tanto che dopo aver scritto libri anche in inglese e in portoghese quando si ricongiunge con Malé ritrova la sua lingua. Poi decide di lasciare Rio per il Messico e a Cuernavaca, mentre si sta facendo costruire una casa bellissima, entra in clinica per un banale intervento di cistifellea e invece muore di setticemia. La madre, amatissima, gli sopravvive molti anni». Se non fosse tutto vero sarebbe un film di Almodóvar, ed è curioso che dalla California la sua biografa Suzanne Levine oggi si domandi: «Senza Puig avremmo avuto un Almodóvar e le sue storie che trattano i confini di genere?».
Che Puig fosse un anticipatore ormai è assodato, tanto che subì ostracismo: «L’editore francese Gallimard all’inizio rifiutò Il bacio della donna ragno» rivela Martinetto: «era scioccante, non era l’immagine dell’America Latina che imperava in Europa dopo il ‘68 e che, ahimè, resiste anche oggi, realismo magico eccetera. Puig metteva in scena un guerrigliero che si lascia incantare da un vetrinista gay e dai suoi racconti cinematografici, il che non rientrava esattamente negli ideali dell’epoca! Puig era proprio l’anti-stereotipo, come Osvaldo Soriano e Alejo Carpentier. Quella di Puig era la lingua del futuro, non a caso David Foster Wallace diceva apertamente di essersi ispirato a lui, per esempio nell’uso delle note a pié di pagina. E nelle note Puig fa parlare la professoressa danese Anneli Taube, inventata, cioè mischia un personaggio falso a quelli veri, una cosa postmoderna alla Roberto Bolaño».
Insomma Puig era un po’ un alieno, e la critica non lo amava particolarmente. Anzi in Argentina gli riservavano un’indifferenza non esente da stizza. Borges detestava i titoli dei suoi libri (per lui, diceva, avrebbe violato la regola personale di non leggere mai nulla che avesse almeno cinquant’anni: Puig poteva aspettare ben di più!). E Puig ricambiava dissacrando l’establishment: nelle lunghe lettere che si scambiava con il collega e amico cubano Guillermo Cabrera Infante amava stilare libere associazioni tra i mostri sacri latinoamericani e le amate dive, con didascalia: così Vargas Llosa diventava Esther Williams (tanto disciplinata), Carlos Fuentes era Ava Gardner (il glamour la circonda, ma recitarà?) e Garcia Marquez era Liz Taylor (bella, ma con le zampe un po’ corte!). Era un gioco ironico, e a se stesso riservava Julie Christie (il suo successo in amore è l’invidia di tutte le stelle della Metro!, alludendo a Warren Beatty). Ricardo Piglia, scomparso da poco, tra i maggiori autori argentini contempranei, aveva capito quanto per lo scrittore fosse importante la cultura pop quando affermava che «il grande tema di Puig è il bovarismo. Il modo in cui la cultura di massa educa i sentimenti. Il cinema, il romanzo d’appendice, gli sceneggiati radiofonici (…) quel viluppo di emozioni estreme, di identità ambigue, di enigmi e drammatici segreti (…) serve da modello all’esperienza e definisce gli oggetti del desiderio». Quelli, incarnati dai volti delle sue dive, non lo abbandonarono mai. Uno dei suoi libri più belli e più rari è un volumetto scritto in italiano: raccoglieva dei pezzi che gli aveva commissionato Giordano Bruno Guerri per la rivista «Chorus»: erano fantasie sul cinema, un modo diverso di consigliare vecchi film. In uno di questi racconti Greta Garbo va al capezzale di Max Ophüls e i due si mettono a ricordare i vecchi tempi. Max si sente non capito, ma Greta lo rassicura: «Devo andar via, e non si preoccupi più, Lola Montes sarà un classico».
«E i suoi film sono tutti classici, Greta. Peccato non avere un proiettore in questa stanza della clinica per vederli di nuovo. Se vado in paradiso spero di trovarmi una macchinetta che mi permetta di proiettarli avanti e indietro quanto volte voglio».
«Certamente, ce ne sarà una, e non ci saranno i critici. Per definizione il paradiso li esclude».
Ancora una premonizione. Manuel Puig poco dopo entrò in clinica. Sipario.
© Alberto Riva, 2017. Tutti i diritti riservati.
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