Pubblichiamo oggi un estratto dalla postfazione di Francesca Lazzarato all’Invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares.
di Francesca Lazzarato
Più o meno nel 1937, quando amministravo la tenuta del Rincón Viejo, a Pardo, seduto sulle sedie di paglia nel corridoio della villa, intravidi l’idea dell’Invenzione di Morel. Credo che quest’idea sia nata dalla fascinazione che mi suscitava la vista dello spogliatoio di mia madre, riprodotto all’infinito nelle profondissime prospettive delle tre facce del suo specchio veneziano, con boccioli di rose rosse e foglie verdi, in legno, sulla cornice. Direi quasi che ho sempre visto gli specchi come finestre che si aprono su avventure fantastiche, felicemente nitide. La possibilità di una macchina che conseguisse la riproduzione artificiale di un uomo per i cinque o sei sensi che possediamo, con la nitidezza con cui lo specchio riproduce le immagini, fu dunque il nucleo del libro. [1]
Così, nelle sue memorie, Adolfo Bioy Casares racconta il concepimento di quello che ancora oggi è il più famoso dei suoi romanzi, un testo breve e visionario che mette in questione la natura della realtà e che ha esercitato un influsso profondo sull’immaginario del secolo scorso e del nostro, tanto che se ne possono scoprire le tracce in zone diverse e a volte impensate della produzione culturale contemporanea.
Quando Bioy intravide nello specchio materno il primo fuggevole barlume del romanzo non ancora scritto, aveva ventitré anni ed era già autore di sei libri (il primo, Prólogo, era apparso nel 1929), a testimoniare una passione per la scrittura che lo aveva indotto a mettere da parte gli studi di legge, e che sembrava prevalere anche sulla volontà di occuparsi degli immensi terreni di famiglia. Per sua stessa ammissione, il giovane estanciero si interessava ben poco alla tenuta e passava il tempo nella grande casa padronale, a leggere, scrivere, riflettere.
I racconti e le nouvelles scritti fino ad allora erano fragili e immaturi (in seguito Bioy ne avrebbe impedito la ristampa), pubblicati per lo più grazie al sostegno finanziario del padre, avvocato e uomo politico, ma soprattutto scrittore mancato, che incoraggiava la vocazione letteraria del figlio e correggeva spesso i suoi testi. In questo ruolo di mentore, però, lo sostituì ben presto Jorge Luis Borges, che «Adolfito» conobbe nel dicembre del 1931 in casa di Victoria Ocampo e che lo affascinò con la sua eccezionale erudizione e i suoi caustici giudizi.
Con Borges, che aveva quindici anni più di lui, Bioy strinse in breve tempo un’amicizia destinata a durare per un cinquantennio: un legame complesso, dalle molteplici sfumature, fatto di ammirazione e complicità, di affetto misto a qualche inconfessato risentimento, e infine di un’intimità quotidiana che Bioy registrò, dal 1947 in poi, nelle migliaia di pagine di un prodigioso diario che è tra le sue opere migliori. [2]
È quasi un luogo comune, ormai, sottolineare come l’ingombrante figura di Borges abbia messo in ombra quella discreta e silenziosa dell’amico, a lungo considerato un suo epigono; già da anni, però, la critica ha rivalutato Bioy come un autore originale, con una sua personalissima poetica e con curiosità così vaste e potenti da conferire alle sue storie qualità anticipatrici che lo collocano di diritto nella modernità.
È indubbio che il continuo dibattito tra Borges e Bioy sulla necessità di un’irruzione del poliziesco e del fantastico nella tradizione argentina, e sulla nascita non rimandabile di una nuova letteratura nazionale – capace cioè di staccarsi dall’imitazione degli europei, rivendicando però il diritto di andare ben oltre l’orizzonte locale –, abbia pesato in modo considerevole sull’evoluzione dell’autore più giovane. Tuttavia c’è chi, indagando sugli abbondanti frutti della collaborazione tra i due scrittori (a partire dal 1940 produssero insieme copioni cinematografici, parodie, racconti polizieschi firmati con gli pseudonimi di Honorio Bustos Domecq e Benito Suarez Lynch, e in più compilarono antologie, tradussero a quattro mani, diressero raffinate collane di polizieschi), si è interrogato su quanto di Bioy ci sia in Borges: perché non c’è dubbio che l’influenza e la fascinazione fossero reciproche e fondate su una dialettica costante. Ed è altrettanto indubbio che, a partire dagli anni Cinquanta, Bioy si sia allontanato in modo considerevole non solo dallo stile di Borges – del quale si ritrova un’eco nelle frasi limpide, brevi e secche dei primi romanzi –, ma anche dalle teorie espresse nel prologo all’Invenzione di Morel, pubblicato dall’Editorial Losada nel 1940 (un anno importante per lo scrittore: oltre a dare alle stampe il nuovo romanzo e a scrivere la prefazione per l’Antologia della letteratura fantastica curata con Borges e Silvina Ocampo, si sposò con quest’ultima, genio eccentrico che già da tempo viveva con lui a Rincón Viejo).
Nel presentare il romanzo dell’amico, Borges scaglia in poche righe un anatema contro i romanzi russi e quelli proustiani, relega il romanzo psicologico e realista tra i vecchiumi ottocenteschi e lo contrappone alle solide trame imposte dal poliziesco o dal romanzo di avventure, ancora fedeli alla funzione di raccontare storie; se definisce «perfetto» il testo dell’Invenzione di Morel, è proprio perché lo ritiene fornito di un plot rigoroso che combina l’avventura con elementi fantastici o di detection, e che inaugura nella letteratura di lingua spagnola il genere nuovo «dell’immaginazione ragionata». Con l’anatema borgesiano e con l’iscrizione d’autorità del libro di Bioy fra i romanzi «di trama», molti studiosi non sono però d’accordo, e meno di tutti Juan José Saer, che nel suo unico e brillante volume di saggi, El concepto de ficción, sostiene:
In realtà, il prologo di Borges preconizza una teoria del romanzo che è l’esatto contrario dell’Invenzione di Morel. Destinato a esaltare il romanzo di avventure a detrimento del romanzo psicologico, il prologo si trova, con tutta evidenza, nel posto sbagliato: precede infatti un romanzo il cui tema fondamentale, o uno dei cui temi fondamentali, è l’insignificanza della peripezia, del momento clou, cioè della materia di cui sono intessuti tutti i romanzi di avventure. Quello che Morel tenta di rendere eterno non è un momento clou, una peripezia capitale, ma la banalità stessa: conversazioni della servitù in cucina, passeggiate al tramonto, partite a carte, insomma una settimana di vacanza perfettamente anodina. Ma questa banalità è solo apparente: in quegli istanti, all’interno dei personaggi sta succedendo qualcosa la cui intensità è, e deve essere, sempre maggiore di quella di qualsiasi avventura negli spazi aperti e in mari sconosciuti: la percezione continua, ardua, confusa del mondo e del tempo, e la rete intricatissima di esperienze che l’esistenza di questa percezione suppone. […] Morel non va sull’isola per cercare un tesoro, va a seppellircelo. E questo tesoro è la quotidianità preservata in perpetuo. [3]
Una quotidianità privilegiata, verrebbe da aggiungere, come quella di Bioy, figlio di una ricchissima borghesia argentina che viveva con principesca larghezza, dandy schivo ed elegante, dongiovanni garbato e compulsivo che diceva di aver vissuto un’esistenza felice e senza storia, aggiungendo: «Sul mio conto non c’è molto da raccontare, mi sono occupato solo di libri, tennis e donne».
Fa notare Saer che, anche accettando «la falsa distinzione borgesiana», l’esame dettagliato dell’Invenzione di Morel dimostra che si tratta «di un romanzo psicologico e non di un romanzo di avventure», perché l’inclusione di un elemento fantastico è solo il pretesto per meditare sul problema della fugacità dell’esistenza; e in effetti appare evidente che Borges dà del testo di Bioy una lettura funzionale alla costruzione delle proprie strategie letterarie, prologando non tanto quello che il «discepolo» ha scritto, quanto quello che secondo il «maestro» avrebbe dovuto scrivere.
Pur presentando indubbie somiglianze e convergenze, insomma, già allora gli universi teorici di Borges e Bioy erano lontani dal coincidere, come dimostrano le tempeste interiori del protagonista dell’Invenzione di Morel e l’introduzione di elementi sui quali Borges sorvola e che nel testo sono fondamentali, ossia la passione amorosa e la sfuggente, imprendibile figura femminile, fulcro di tutte le opere future di Bioy, nonché il ruolo della tecnologia, che negli anni Venti e Trenta aveva affascinato anche Roberto Arlt e Horacio Quiroga, i quali, però, individuavano nelle nuove risorse della tecnica un modo per affrancarsi socialmente, e non uno strumento per costruire, come Morel, il proprio paradiso privato, un club esclusivo che richiede la morte come tassa di iscrizione.
[1] Adolfo Bioy Casares, Memorias: infancia, adolescencia y como se hace un escritor, Tusquets, Barcellona, 1994. (La traduzione è mia.)
[2] Adolfo Bioy Casares, Borges, a cura di Daniele Martino, Ediciones Destino, Barcellona, 2006.
[3] Juan José Saer, El concepto de ficción, Espasa Calpe Argentina, Buenos Aires 1997. (La traduzione è mia.)
© Francesca Lazzarato, 2017. Tutti i diritti riservati.
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