Un profilo di Adolfo Bioy Casares a cura di Francesca Lazzarato. L’articolo e la relativa nota biografica sono usciti sul Manifesto il 13 settembre 2014.
«Bioy, l’inventore di Morel»
di Francesca Lazzarato
Deshoras, ovvero Disincontri, è uno degli ultimi libri di Julio Cortázar, pubblicato due anni prima della sua morte e aperto da una curiosa lettera alla protagonista di «Tanto amore per Glenda», un altro suo celebre cuento, del quale fornisce in un certo senso la spiegazione. Ma ancora più curioso è l’ultimo testo dell’antologia, in cui, davanti a un foglio bianco infilato nella vecchia portatile Olympia, Cortázar esprime il desiderio di essere un altro, e precisamente Adolfo Bioy Casares, per poter disegnare la protagonista del suo nuovo racconto come farebbe lui, «mostrandola da vicino e a tutto tondo e allo stesso tempo mantenendo quella distanza, quel distacco che decide di porre (non posso pensare che non sia una decisione) tra alcuni dei suoi personaggi e il narratore».
«Vorrei essere Bioy perché l’ho sempre ammirato come scrittore e stimato come persona», aggiunge Cortázar a proposito di colui che considerava un maestro, così diverso per opinioni politiche, stile di vita, personalità, scrittura, ma a lui accomunato da più di un critico e lettore (Osvaldo Soriano, altro grande ammiratore di Bioy, in un suo remoto articolo sul Manifesto li appaia in quanto «colossi della letteratura fantastica» e cantori di una Buenos Aires che Cortázar lasciò negli anni Cinquanta per stabilirsi a Parigi, mentre Bioy vi risiedette fino alla morte). All’insaputa l’uno dell’altro, scrissero addirittura due racconti incredibilmente simili, ossia «La puerta condenada» (Cortázar) e «Un viaje o El mago inmortal» (Bioy Casares), ambientati in un albergo di Montevideo dove entrambi usavano scendere, e a questa coincidenza singolare se ne aggiunge un’altra, quella della data di nascita (per Cortázar il 26 agosto del 1914, a Bruxelles; per Bioy il 15 settembre dello stesso anno, a Buenos Aires), che prevede la celebrazione quasi contemporanea di due centenari. Non ci sono dubbi, però, sul fatto che il 2014 sia stato soprattutto un anno cortazariano, scandito da innumerevoli iniziative e omaggi, mentre la risonanza del centenario di Bioy Casares appare infinitamente minore: in Argentina ci si è limitati a doverosi articoli sulle pagine culturali, a una magnifica mostra sulla attività di appassionato fotografo dilettante dello scrittore (El lado de la luz, curata da Daniel Martino e da poco inaugurata a Buenos Aires) e al lancio da parte dell’editore Emecé di una Biblioteca Aniversario in formato tascabile; all’estero, si registra un quasi unanime silenzio.
Le ragioni sono molte e diverse, e tra esse potrebbero esserci tanto l’implacabile “peronizzazione” della cultura da parte del governo Kirchner – disposto a dimenticare che il principale motivo dell’esilio di Cortázar fu il suo antiperonismo, ma non a perdonare la profonda ostilità verso il regime di Perón che Bioy condivise con Borges – quanto la maggiore notorietà internazionale di Cortázar, grande protagonista del cosiddetto boom, del quale Bioy non fece parte per ragioni generazionali, letterarie e, perché no, commerciali: una esclusione che lo rende parte dell’arcipelago semisommerso di prodigiosi autori latinoamericani che hanno preceduto e seguito un fenomeno editoriale creato «in vitro».
Ma c’è anche un’altra lettura suggerita da questo doppio centenario: quella che fa di Bioy uno scrittore ben più segreto e difficile da scoprire di quanto appaia. Così come l’ombra di Cortázar si allunga sull’anno del comune anniversario e se ne appropria, quella di Borges, che Bioy Casares incontrò per la prima volta nel 1932, ha rischiato per anni di inghiottirlo e di farcelo percepire soprattutto come suo collaboratore, sodale e amico: un fedele Boswell che annota ogni sera le parole e i gesti dell’altro, firma insieme a lui cinque libri di racconti (i famosi gialli scritti congiuntamente con gli pseudonimi di H. Bustos Domecq e B. Suárez Lynch), e con lui compila antologie come quella sulla letteratura fantastica, dirige raffinate collane di romanzi polizieschi, confeziona copioni cinematografici e perfino una brochure pubblicitaria sui meriti di uno yogurt, ma soprattutto progetta e immagina libri che raramente vedranno la luce.
Irreparabilmente affascinato dallo scrittore più anziano, dalla sua eccezionale erudizione, dai suoi caustici giudizi, dalla sua visione della letteratura, Bioy fu legato a Borges da un rapporto privilegiato e da una quotidiana consuetudine (nelle milleseicento pagine di diario che gli dedicò, pubblicate dalla Editorial Destino nel 2006 a cura di Daniel Martino, l’espressione come en casa Borges: Borges mangia da noi – appare circa duemila volte), che si infranse solo negli anni Settanta con l’apparizione di Maria Kodama, oggi la più dispotica e controversa delle vedove «letterarie».
E tuttavia, proprio leggendo il monumentale Borges grazie al quale abbiamo scoperto la brillante vena memorialistica di Bioy, ci si rende conto che il rapporto tra i due non si basava solo sulla ammirazione del più giovane, ma su una dialettica costante e tutto sommato paritaria, e che la fascinazione era, a ben guardare, reciproca. Bioy, insomma, è stato assai meno condizionato dalla figura dell’altro di quanto pretenda la vulgata corrente: un’indipendenza confermata dalla sostanziale originalità di un’opera che include nove romanzi, nove libri di racconti, diversi saggi e sei testi giovanili che l’autore saggiamente rinnegò.
La terza ombra che si allunga su Bioy è quella di lui stesso, del suo ammaliante personaggio, non costruito a puro uso mediatico come avverrebbe oggi, ma indossato con assoluta spontaneità e naturalezza: figlio di una ricchissima e colta borghesia argentina che viveva con principesca larghezza e importava dall’Europa letteratura, idee e opere d’arte; dandy schivo ed elegantissimo, dotato di bellezza e di charme fuori del comune, che diceva di sé: «Sul mio conto non c’è molto da raccontare, mi sono occupato solo di libri, tennis e donne»; dongiovanni compulsivo ma sposato per tutta la vita con un genio misterioso ed eccentrico come Silvina Ocampo (forse la più grande scrittrice latinoamericana del XX secolo), e soprattutto esponente di una ristretta cerchia intellettuale composta da figure ormai leggendarie, da Borges a Juan Rodolfo Wilcock.
Per arrivare al vero Bioy, al di là dei suoi tanti “doppi” e dei pregiudizi che li accompagnano (per esempio quelli di David Viñas e di César Aira, che lo considerano scrittore di puro intrattenimento – ma Bioy l’avrebbe considerata una lode –, o quelli piuttosto volgari di Camilo José Cela), bisogna dunque seguire il filo lungo cui si è evoluta la sua opera, notandone la sostanziale fedeltà ad alcuni temi continuamente rilanciati dalla ricerca di soluzioni nuove e di una scrittura accessibile e tersa, quasi minimalista, e sottolineandone la sorprendente capacità anticipatoria. Sin da L’invenzione di Morel – il suo «primo romanzo buono» (per dirla con Macedonio Fernández), uscito nel 1940 –, Bioy ha trasformato in racconto il suo dubbio costante sulla natura della realtà, che non è unica né solida, ma, attraverso fessure, pieghe, riflessi, ne lascia intravedere altre e altre ancora, fino a scomporsi in un puro gioco di immagini così familiare al nostro presente. E le creature cui la macchina dello scienziato Morel (nel suo nome si affaccia il ricordo del dottor Moreau di Wells come del Lazarus Morell di Borges) consente di ripetere ogni giorno i gesti di un’epoca felice, ci rimanda all’immateriale eternità degli ologrammi, del video, delle ombre su uno schermo, intrappolate in una esistenza in cui la morte è sconfitta, ma la vita non esiste.
Questa quotidianità piena di crepe che ci permettono di guardare oltre il sipario (non sempre l’unico e l’ultimo) scoprendo distopie, anime trasmigranti, fragili spettri, mostri inattesi, Bioy Casares la racconta secondo i canoni della più stretta verosimiglianza, scegliendo, dopo le isole esotiche e innominate di Morel e di Piano d’evasione (il suo secondo romanzo, apparso nel 1945), sfondi del tutto riconoscibili, quali certe città europee, certi angoli della provincia argentina e soprattutto i quartieri di Buenos Aires, di cui descrive con precisione la topografia, ma trasformandoli sempre in universi chiusi, nuove isole dalle quali diventa impossibile uscire. È appunto in questi barrios concentrazionari, soffocanti, che si svolgono i tre grandi romanzi della sua maturità, ovvero Il sogno degli eroi (1954), che ribalta in modo cupo e amarissimo il mito borgesiano del compadrito eroico armato di coltello, e poi Diario della guerra del maiale (1969), storia di una rancorosa rivolta dei giovani contro i vecchi di attualità quasi inverosimile, per finire con il meraviglioso Dormire al sole (1973), storia di un uomo qualunque coinvolto negli innesti di anime praticati dall’alienista Samaniego, uno dei tanti «spaventosi redentori» presenti nella narrativa di Bioy.
Insieme al cambio di scenario sopravviene un progressivo distacco dalle trame geometricamente disegnate in base alle convenzioni di “generi” diversi, dal fantastico alla fantascienza all’avventura al poliziesco, la cui supremazia Bioy e Borges predicavano negli anni Quaranta, contrapponendole alla mancanza di una struttura solida del “romanzo psicologico”, secondo loro venuto meno alla funzione di raccontare storie.
Impossibile non notare che nei primi anni Cinquanta, Bioy sembra ricredersi e che le sue trame perdono consistenza, mentre diventa minuziosa la costruzione dei personaggi, non più semplici “tipi” o silhouettes da muovere all’interno dell’edificio-trama: lo scrittore esce dal puro gioco intellettuale e, come notava Octavio Paz, quasi metafisico, per dare spazio, sia pure con il distacco che Cortázar gli riconosceva, a sentimenti e passioni, spesso incarnati in personaggi femminili elusivi e sfuggenti. Contemporaneamente cresce l’esercizio di un’ironia che diventerà satira aperta (sarà questo uno dei pregi principali dell’ultimo Bioy, ormai stanco e ripetitivo), e la scrittura si fa sempre meno formale ed elaborata, più sobria, più trasparente, con un ampio ricorso a dialoghi che denunciano l’incondizionata devozione dell’autore per il cinema, e con la rinuncia all’incrocio di voci narranti e punti di vista che era una delle caratteristiche di L’invenzione di Morel. Il tutto va di pari passo con il tentativo di coniugare spazio e linguaggio, poiché ad ogni ambientazione, a ogni descrizione corrispondono precise scelte verbali, una forte attenzione per l’oralità, il dispiego di linguaggi popolari che non hanno nulla che vedere con il colore locale o il costumbrismo, ma sono funzionali alla legittimazione letteraria di uno stilizzato spagnolo criollo, operata da uno scrittore colto, cosmopolita e poliglotta, universale ma indiscutibilmente argentino.
Al di là delle ombre altrui e nonostante la propria leggenda, Bioy Casares finisce dunque per apparirci come un autore da riscoprire continuamente, che parla con forza al lettore di oggi e che l’uso e la scomposizione dei “generi”, il lavoro sul linguaggio e le intuizioni precorritrici proiettano per intero nella modernità. Come diceva Roberto Bolaño nel suo decalogo di consigli a uno scrittore di racconti, leggerlo è semplicemente un dovere.
Nota biografica.
Considerato uno dei più importanti scrittori di lingua spagnola del secolo scorso, Adolfo Bioy Casares nacque il 15 settembre del 1914 a Buenos Aires, da una ricca e colta famiglia di proprietari terrieri che risiedevano nel quartiere della Recoleta. Abbandonati gli studi in legge, decise di dedicarsi alla letteratura e nel 1932, a una festa in casa di Victoria Ocampo (la fondatrice e direttrice della rivista Sur) conobbe Borges, cui fu legato da profonda amicizia per oltre cinquant’anni. Nel 1940, nonostante l’opposizione dei genitori, sposò la sorella minore di Victoria Ocampo, Silvina (1903-1993), anche lei scrittrice e appartenente a una famiglia dell’alta società. Bioy ebbe due figli naturali, Fabián (della cui esistenza venne a sapere solo in vecchiaia) e Marta, che fu poi adottata da lui e dalla moglie e morì in un incidente d’auto poco dopo Silvina. La loro perdita colpì in modo irreparabile lo scrittore, che si spense nel 1999 nella casa di calle Posadas in cui aveva vissuto per mezzo secolo con Silvina. Maestro del racconto e autore di memorabili romanzi, Bioy Casares ha ricevuto premi come il Cervantes e Gran Premio de Honor della Società Argentina degli scrittori, ed è stato tradotto in tutto il mondo. Con i suoi romanzi ha ispirato più di un film, da L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, a L’invenzione di Morel del regista italiano Emidio Greco (il copione era di Andrea Barbato), fino al recente Dormir al sol di Alejandro Chomski.
In Italia la fortuna editoriale dell’autore è stata alterna: a partire dagli anni Sessanta si sono succedute numerose traduzioni presso editori diversi (Bompiani, Einaudi, Editori Riuniti, Marcos y Marcos, Cavallo di Ferro), ma oggi i titoli reperibili in libreria sono pochissimi, e l’unico volume riproposto in occasione del centenario è Sette conversazioni con Adolfo Bioy Casares (Solfanelli), raccolta di interviste realizzate dal giornalista argentino Fernando Sorrentino, già apparsa in Italia nel 1999.
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