Pubblichiamo oggi la quarta “puntata” del saggio di Stefano Tedeschi sul boom della letteratura latinoamericana degli anni Sessanta e Settanta, dove l’autore prende in considerazione autori come Manuel Scorza e José Arguedas, oltre a due famose antologie uscite in Italia in quegli anni.
Un altro autore che in quei primi anni settanta conosce un importante successo in Italia è Manuel Scorza, e con lui si apre il capitolo, peraltro ridotto a soli due nomi significativi, il suo e quello di José María Arguedas, dell’indigenismo andino in Italia. L’opera di Arguedas arriva in Italia nel 1971, con I fiumi profondi, accompagnato da una nota di Vargas Llosa su “José Maria Arguedas e la visione interiore dell’indio”, ed è proprio Vargas Llosa a proporre il suo antico maestro (come recita l’occhiello della recensione di Puccini) al pubblico italiano. L’accoglienza riservata a quel libro è ampiamente elogiativa, e l’impronta realistica viene da subito sottolineata con forza, tanto da preparare in una certa misura l’arrivo, l’anno successivo, di Rulli di tamburo per Rancas di Manuel Scorza, primo volume di una saga in cinque libri, destinata ad essere terminata in italiano solo nel 1980. I primi due volumi della “cronaca con sapore di epopea” dello scrittore peruviano vengono accolti con grande favore dal pubblico (successo testimoniato dalla loro continua permanenza, fino ad oggi, nel catalogo Feltrinelli), nonostante le riserve della critica, che vi leggeva un eccesso ideologico, quasi un “romanzo a tesi”. Ma proprio quella caratteristica piacerà ai lettori dei primi anni settanta: Scorza sembrava coniugare in maniera diretta ed immediata le leggende precolombiane, le descrizioni di uno spazio “altro” e i progetti rivoluzionari di cui parlava la numerosa saggistica e pubblicistica proposta dopo il sessantotto. Quel pubblico rimarrà poi in qualche modo sempre fedele a quella visione, nonostante i cambiamenti storici, e la concezione dell’indio in Italia sarà collegata per sempre al proposito di rivolta, a un’ingiustizia atavica e senza rimedio: allora anche la rivolta zapatista del Subcomandante Marcos verrà riletta con lo sguardo ancora fisso sui comuneros di Rancas, trasformati ormai in archetipi inossidabili. Il testo che sintetizza meglio il tipo di lettura che prevale in Italia della questione indigena è la recensione, senza firma, al libro di Scorza pubblicata su L’Unità nel maggio del 1972, I «comuneros» di Rancas, con un sottotitolo che suona davvero come un manifesto programmatico: «Assumendo la letteratura come strumento di azione sociale e di intervento politico Manuel Scorza ha scritto «la cronaca assolutamente vera» della lotta degli indios contro i latifondisti e le compagnie nordamericane».
Sono questi i protagonisti del boom della narrativa ispanoamericana in Italia a cavallo degli anni settanta: come si vede si tratta di una manciata di autori, e di un numero abbastanza limitato di romanzi (molte traduzioni di questi anni saranno dedicate, come si vedrà, alla saggistica, peraltro allora di gran moda), e dunque sarà il caso di riprendere la domanda iniziale, “fu vera gloria?” Se l’analisi quantitativa ci aveva permesso una risposta decisamente affermativa, quella qualitativa ci obbliga ad essere meno categorici: di certo non fu un fuoco di paglia solo dettato da una moda passeggera, o una costruzione tutta giocata su presupposti ideologici extra-letterari, guidati dalla longa manus cubana, ma, a parte i pochi nomi ricordati, nessuno degli autori presentati al pubblico italiano si inserisce stabilmente nei gusti e nella memoria dei lettori per il suo valore intrinseco. Il fenomeno del boom impone un continente letterario, apparentemente venuto dal nulla, nel suo insieme, senza tante sottigliezze, ed ognuno dei libri rimanda all’altro, in un sistema autoreferente che di certo è legato anche a fenomeni extra-letterari: ma una delle ragioni del successo è da ricercare proprio in quella capacità evocativa di un referente che porta con sé messaggi e progetti estremamente coinvolgenti per tutta una generazione. Una tale visione globale è testimoniata da due antologie che vengono pubblicate nel 1972 e nel 1973: Le mappe immaginarie, a cura di Marcelo Ravoni (Garzanti) e Latinoamericana – 75 Narratori, a cura di Franco Mogni (Vallecchi), entrambe caratterizzate dalla volontà di superare i limiti “ispanoamericani”, visto che la prima accoglie anche testi precolombiani, brasiliani e haitiani, mentre la seconda apre le porte a numerosi e importanti narratori brasiliani. La prima si concentra poi sulla narrativa cosiddetta “fantastica”, riunendo testi che vanno dalle leggende precolombiane ai racconti contemporanei, mentre la seconda ha una pretesa volutamente “ecumenica”, dato il numero dei narratori e il progetto indicato dall’editore e dal curatore fin dalle prime pagine: entrambe vogliono essere però nello stesso tempo una sorta di “riassunto” del già noto e contenere proposte per il futuro, presentando autori già conosciuti ed altri del tutto nuovi per i lettori italiani. In questa sede non interessa tanto giudicare presenze e assenze, che peraltro confermano le direzioni generali già indicate in precedenza, quanto misurare le possibilità non sviluppate, ma evidentemente percorribili, se già in quelle scelte venivano suggerite.
Il fatto allora che entrambe le antologie siano fortemente misogine non ci deve sorprendere più di tanto, giacché quello era il clima generale del boom, mentre suggerisce qualche riflessione in più il fatto che sia nella scelta di Ravoni che in quella di Mogni viene dato uno spazio significativo ad autori in quegli anni non tradotti, e che di fatto rimangono estranei alla percezione italiana della letteratura ispanoamericana. Tra di essi emergono tutta una serie di narratori “urbani”, giudicati evidentemente troppo vicini alla dimensione “europea” della città, che approderanno in Italia solo molti anni più tardi, e sempre con limitatissimo impatto sul pubblico dei lettori: Jorge Edwards, Abelardo Castillo, Marco Denevi, Eduardo Mallea, Sergio Pitol, José Emilio Pacheco, David Viñas, Rodolfo Walsh, per citare alcuni degli autori di Latinoamericana. Su un altro versante si può registrare, dalle Mappe Immaginarie, che molti degli autori del “fantastico” vengono ignorati, come avviene con Horacio Quiroga, Arreola, Monterroso, Macedonio Fernández, Virgilio Piñera, mentre Felisberto Hernández verrà riproposto, con un riscontro praticamente nullo, da Italo Calvino nella Einaudi. Per altri autori l’inserimento nell’antologia vorrebbe funzionare come certificazione di un riconoscimento già testimoniato da precedenti traduzioni di romanzi, ma un tale proposito rimane una pia intenzione, giacché quei romanzi erano caduti nella più totale disattenzione, e nessuno si era accorto di Norberto Fuentes o di Calvert Casey, di Germán Espinosa o di Reinaldo Arenas, di Carlos Droguett o di Silvina Ocampo, tanto che i loro libri spariranno ben presto dagli scaffali delle libreria e dai cataloghi editoriali. Le antologie non riescono allora a risvegliare quell’interesse, e i loro propositi progettuali vengono bruciati da una moda che si va spegnendo, e dalla scarsa attenzione del mondo editoriale italiano verso un mondo che aveva funzionato come fonte di rapidi guadagni tra il 1968 e i primi anni settanta, ma verso cui non c’era stato nessun serio sforzo di comprensione, come afferma chiaramente Puccini nella sua recensione all’antologia di Mogni:
Ma tuttora molte imprese editoriali continuano più a ricordare la poca vendibilità degli scrittori di lingua spagnola e portoghese nel vicino e lontano passato, e meno a prender atto del boom latinoamericano e del suo accesso persino nei rotocalchi. Se non fosse per due premi Nobel, per la celebrità di Borges e qualche altro a Parigi e New York, e per certi record di tiratura, noi forse ignoreremmo ancora García Márquez e Lezama Lima. Esistono infatti ancora grossi editori italiani che non pubblicano neppure un libro che provenga dall’America Latina e aspettano che il boom sia passato come un modesto acquazzone. Diciamo piuttosto che sotto un certo interesse commerciale o snobistico si nasconde tuttora una buona dose di spirito coloniale […]
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