Un giovanissimo Guillermo Cabrera Infante osserva un po’ scettico Marlon Brando alle prese con una “tumbadora” durante una visita a Cuba nel marzo 1956.
Pubblichiamo oggi uno scritto su Guillermo Cabrera Infante di Stefano Gallerani già comparso su Alias, ringraziando l’autore e la testata.
di Stefano Gallerani
In Sguardi, una galleria di scrittori indagati attraverso i loro ritratti fotografici, Javier Marias accompagna un’immagine giovanile del cubano Guillermo Cabrera Infante dalla naturalezza e spontaneità tipiche dell’età verso le sembianze adulte del personaggio che nel corso degli anni l’autore di Un oficio del siglo XX (1963) si è cucito addosso nel suo volontario retiro londinese. In mezzo, l’esperienza lancinante di un esilio sofferto cui Cabrera Infante si votò definitivamente quando, sul finire degli anni sessanta, dopo alcuni incarichi come attaché culturale alle ambasciate cubane di Bruxelles, Madrid e Barcellona, stante l’ostilità crescente del regime di Castro verso le sue posizioni, decise di stabilirsi, con i figli e l’inseparabile Miriam Gomez, in Gran Bretagna.
Prima d’allora, sull’isola di José Martì, già inviso all’amministrazione di Batista (che gli aveva censurato un racconto costringendolo a escogitare lo pseudonimo di G. Cain per continuare a firmare le sue recensioni cinematografiche per “Carteles”), Cabrera Infante aveva pubblicato Così in pace come in guerra (1960), una silloge di racconti e trascrizioni di fantasie oniriche, e, dopo la Rivoluzione, era stato nominato direttore del Consiglio Nazionale di Cultura e redattore di “Lunes de Revolución”, supplemento letterario del periodico “Revolución” (poi diventato “Granma”), ma i suoi rapporti con i castristi si erano presto deteriorati fino a rendergli impossibile la vita in patria. Tornando alle istantanee di Sguardi, dall’imberbe intellettuale occhialuto e di tratto vagamente cinese al caustico fustigatore della deriva dittatoriale dell’isola natale, avvolto dal fumo dell’immancabile puro tra le labbra, il passo è breve ma deciso: le guance si sono coperte col tempo di una barba canuta e gli occhi acquosi del cinefilo si sono fatti più penetranti, indagatori; varcata la fatidica linea d’ombra conradiana, l’uomo che Cabrera Infante è diventato sembra essersi lasciato alle spalle, in uno con Cuba, le illusioni e le speranze di gioventù, conservandone, ben nascosto ma non invisibile, solo un residuo nostalgico e malinconico. Quanto, insomma, è alla base, inestricabilmente avvinto all’esuberanza stilistica, del nucleo incandescente delle sue opere più rappresentative e, in specie, di quello straordinario resoconto di un’educazione sentimentale che è L’Avana per un Infante defunto (1979).
A proposito di questo libro, Carlo Bo scrisse che nelle quasi seicento pagine che lo compongono, e che hanno come assoluto protagonista una Avana cancellata dall’avvento del socialismo reale rivoluzionario, la richiesta più accorata dell’autore non era che “di stare attenti a quello che c’era stato prima: non dico solo la sua vita, ma la nostra condizione, questo giuoco perpetuo fra le promesse dell’eros e il nulla e il nero della morte”. A ben vedere, dalle Tre tristi tigri del ’65 fino a Ella cantaba boleros, del 1996, la memoria ed il rimpianto per un passato irrecuperabile se non tramite lo specchio deformante ed illusorio delle parole paiono essere rimasti i motivi maggiori, i veri temi ossessivi del romanziere caraibico (Cabrera Infante è nato a Cuba nel 1929), anche quando l’acredine e l’odio del poeta verso il tiranno soppiantano di gran lunga la tenerezza e l’umorismo dell’esule, come nella raccolta di articoli e saggi intitolata Mea Cuba (1992). Che poi, sulla pagina, ognuno di questi sentimenti venga corrotto dal virus della letterarietà e dall’estro bizzarro di una cultura sterminata, non è che la forma con cui Cabrera Infante ha scelto di declinare il barocchismo tropicale che la sua scrittura condivide, poste le dovute differenze, con quella del conterraneo José Lezama Lima (cui in Mea Cuba è dedicato un lungo ed appassionato ricordo): una miscela che, in Barroco, Severo Sarduy definisce come una “ricaduta: casualità acronica, isomorfismo non contiguo, o conseguenza di una cosa che non è ancora prodotta, somiglianza con qualcosa che al momento non esiste”. E difatti, in subordine, gli altri due temi portanti di Cabrera Infante fanno leva proprio sulla condizione di chi non vive più nel paese natale e sulla scomparsa di un mondo: in altre parole, esilio e aristocrazia.
Non stupisce, pertanto, che come quell’altro celebre esule che è Joyce (e, da questi, lungo una linea genealogica che porta a Nabokov e Gombrowicz), Cabrera Infante non abbia scritto altro, in fondo, che di uno stesso posto – Cuba e L’Avana – con toni che dal notturno sperimentale (fortemente debitore di Lewis Carroll) virano finanche verso il controcanto per ripicco e il moralismo sdegnato, profilando l’immagine di uno scrittore aggrondato, insofferente e protervo. Pure, anche poco prima di morire (nel 2005, per una setticemia contratta dopo una caduta), muoversi lungo la spaccatura tra realtà passata e irrealtà presente ha rappresentato, per Cabrera Infante, il gesto più naturale e spontaneo, al punto che la pubblicazione, nel 2008, del postumo La ninfa incostante – ora anche in italiano, dopo oltre dieci anni di latitanza del cubano dalle nostre librerie, per Sur (con un saggio di Mario Vargas Llosa, traduzione di Gordiano Lupi, pp. 267, € 15,00) – ha consentito di saldare la frattura tra le opere degli anni settanta e quelle della tarda maturità nel segno di una cifra costante e sempre più linguisticamente marcata.
A riassumerne la trama, il romanzo, che sembra nascere da una costola proprio de La Habana para un Infante difunto, è il ritratto di una giovane cubana, Estela Morris, che il narratore – vero e proprio alter ego dell’autore – conosce appena sedicenne sulla Calle 23 dell’Avana; da questo incontro nasce una storia appassionata che è, a un tempo, una dichiarazione di fedeltà di Cabrera Infante alla sua città e un cólto divertissement che attraversa secoli di storie romantiche e di passioni sensuali. Nessun pericolo, tuttavia, che questa sovrapposizione quasi automatica (nel senso surrealista del termine) affatichi la lettura privando il racconto della freschezza spiazzante che è la maggior dote di Estela: la frenesia citazionista, il demone della deformazione, le costanti allitterazioni e lo spiegamento di figure retoriche non si riducono mai a mere circonvoluzioni. Spesso versato nel dialogo, tutto l’arsenale linguistico di Cabrera Infante è talmente radicato che non rispecchia se non un autentico modo di pensare e vedere le cose. “Chi vuole la correttezza di una lingua quando può parlarne due?”, si domanda a un certo punto l’io narrante. Ma le lingue del romanzo (stretto tra quella materna e quella adottiva, l’inglese) potrebbero essere due o duecento senza che minimamente cambi l’effetto di un récit che è, di nuovo, l’ennesimo atto d’amore per un luogo che il tempo ha fatto diventare una dimora della memoria: “L’Avana”, scrive Cabrera Infante, “era una città dove si ricominciava sempre. L’Avana pare – appare – indistruttibile nel ricordo: questo la rende immortale. Perché le città, come gli uomini, muoiono. Una battuta che andava di moda nella Cuba del 1955 diceva: ‘Dimentica il tango e canta un bolero’. Voleva dire: lascia da parte il lato drammatico delle cose e racconta quello sentimentale. Non poteva esserci cosa più vera – allora come oggi”. Una verità alla quale lo scrittore non ha mai abdicato, sebbene rassegnatamente memore di queste parole del Krapp beckettiano: “Forse i miei migliori anni sono finiti. Quando la felicità era ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro”.
Condividi