Pubblichiamo la risposta di Sigal Samuel a Rebecca Solnit a proposito dei «libri che una donna non dovrebbe mai leggere». L’articolo è apparso originariamente su Electric Literature, che ringraziamo.
di Sigal Samuel
traduzione di Sara Reggiani
L’altra sera una collega scrittrice mi si è avvicinata e mi ha rivelato, col tono sommesso di chi confessa un omicidio, che le piaceva Jonathan Franzen. I suoi libri, cioè. Mi ha rivolto uno sguardo nervoso, pronta alla tirata femminista che, temeva, le avrei inflitto.
Invece io mi sono messa a ridere e le ho detto: «Tranquilla… piace anche a me!» Mi ha sorriso sollevata. Ultimamente dichiarare il proprio amore per le opere di Franzen nonostante si sia consapevoli delle sue mancanze personali – vedi gli scambi con Jennifer Weiner, l’incomprensibile ossessione per i volatili, l’insofferenza per la tecnologia – appare una mossa rischiosa. Specialmente nei circoli letterari progressisti di Brooklyn.
Poi mi ha raccontato che, dopo aver letto Le correzioni, aveva postato uno status su Facebook in cui definiva il libro un capolavoro. Aveva sentito il bisogno di dissociarsi da chi criticava Franzen per il suo presunto sessismo, sebbene temesse che le amiche l’avrebbero ostracizzata per questo. «Potrà sembrarti stupido», ha aggiunto, «ma mi è parso di compiere un atto di coraggio, di attivismo politico».
Questo episodio mi ha confermato qualcosa che sospettavo già da tempo: abbiamo creato un clima letterario in cui le donne hanno paura di ammettere che ammirano il lavoro di uno scrittore perché altre l’hanno tacciato di sessismo.
Ne ho sentite di storie del genere, ad esempio di amiche che sono state criticate per aver letto Philip Roth. Ma Franzen? Franzen, che con il personaggio di Denise nelle Correzioni ha dato vita a una delle migliori descrizioni del desiderio omosessuale femminile? Che nelle prime cinquanta pagine di Libertà ha formulato la più potente accusa alla cultura dello stupro che io abbia mai letto? Quando sento dire che proprio lui ha «problemi con le donne», non posso fare a meno di pensare che la nostra coscienza liberale sia diventata così rigida da averci immobilizzate in un atteggiamento profondamente illiberale.
Prendiamo ad esempio la scrittrice femminista Rebecca Solnit, che di recente ha pubblicato un articolo su Literary Hub intitolato «80 libri che una donna non dovrebbe mai leggere». Solnit suggerisce, con un pizzico di iperbole autoconsapevole che, in quanto donna, dovrei rinunciare a leggere un gran numero di autori, da Ernest Hemingway a Charles Bukowski, da Henry Miller a, ebbene sì, Franzen. Infila una moltitudine di pesi massimi della letteratura nella sua lista di «libri da non leggere», in virtù del fatto che «alcuni libri sono fatti per dimostrare che le donne sono feccia o non meritano proprio di esistere, se non come accessori, o sono intrinsecamente cattive e vuote».
A onor del vero, nel suo articolo Solnit fa riferimento alla pubblicazione di una lista di Esquire, gli «80 libri che ogni uomo dovrebbe leggere», che è davvero qualcosa di orrendo. Solnit inizia dicendo che «uno è libero di leggere quello che vuole». Il tono è sottilmente ironico: è chiaro che sta elaborando un costrutto retorico. Eppure se ne serve come base per argomentare seriamente sul perché gli autori sessisti non vadano letti, ed è un’argomentazione dalla quale mi dissocio pienamente. E per ragioni femministe.
In primo luogo si può leggere un autore, giudicarlo sessista e comunque apprendere dal suo libro qualcosa di prezioso riguardo alla condizione umana. È un insulto all’intelligenza femminile insinuare che non siamo capaci di distinguere il bene dal male in questo genere di opere. Io ho letto sia Bukowski che Miller e non ho avuto problemi a separare il grano dalla pula. E sospetto che la maggior parte delle donne sappia fare altrettanto. Del resto, non abbiamo altra scelta che diventare esperte in questa operazione di setacciamento letterario, dato che il 99 per cento dei libri che l’umanità ci ha rovesciato addosso contengono quella pula.
Questo è particolarmente vero per quelle fra noi che appartengono a più di una categoria emarginata. Io, ad esempio, sono una giovane donna ebrea, omosessuale, non bianca. Se dovessi depennare dalla mia biblioteca tutti i libri di autori omofobi, razzisti, antisemiti e/o misogini, mi ritroverei con gli scaffali vuoti. Tutto, dalla Bibbia a Heidegger, finirebbe nella spazzatura. Diamine, dovrei pure separarmi da un autore che Solnit ammira, F. Scott Fitzgerald – ricordate Meyer Wolfsheim, il contrabbandiere ebreo che infesta le pagine del Grande Gatsby indossando gemelli fatti con denti umani?
Eppure io questi libri non li ho buttati, perché credo che noi donne abbiamo qualcosa da guadagnare nel leggere gli scrittori sessisti.
Le opere autenticamente sessiste ci permettono di gettare uno sguardo sulla storia e sulla logica del sessismo stesso. È importante, perché non si può combattere qualcosa senza prima averne compreso la natura. Inoltre questi libri ci aiutano a comprendere le forze che hanno modellato le donne di un certo periodo e luogo. Leggendo Miller ho capito con che genere di atteggiamenti doveva aver a che fare la sua amante, Anaïs Nin – e sono riuscita anche a individuare i difetti della sua stessa scrittura (vedi sotto: essenzialismo di genere).
Se leggere gli scrittori sessisti è consigliato alle donne, è assolutamente obbligatorio per le scrittrici. Dobbiamo essere profondamente consapevoli di quel linguaggio, saperlo parlare alla perfezione, per scrivere libri rilevanti oltre che, idealmente, sovversivi per la loro intelligenza. Se non fossi cresciuta immersa nell’ortodossia ebrea e non avessi imparato a menadito quei testi antichi così profondamente misogini, non avrei mai potuto ribaltare la misoginia stessa facendo prevalere sul padre la protagonista del mio romanzo, The Mystics of Mile End, quanto a conoscenza della Cabala.
Adelle Waldman, autrice di Amori e disamori di Nathaniel P., ha più volte affermato pubblicamente di essere riuscita a dare voce al suo protagonista anche grazie alla lettura, nel corso degli anni, di tanti scrittori sessisti (per la cronaca, le piacciono Roth e Franzen). Sovverte, rivelandolo in maniera sottile, pagina dopo pagina, il sessismo del suo personaggio, che è così portato a condannare sé stesso e insieme il sistema letterario maschile che rappresenta.
Waldman ha inoltre osservato in occasione di un’intervista che «ci sono cose che gli scrittori maschi non possono dire per non essere accusati di misoginia. Ma io posso». Di qui una domanda spinosa: concediamo più spazio di manovra alle donne quando scrivono di sessismo, visto che concediamo loro il beneficio del dubbio, mentre siamo pronte a saltare alla gola degli scrittori, che spesso tendiamo a vedere come alter ego dei loro personaggi maschili? Se sì, non è questo l’esatto opposto del progressismo?
Il che mi dà modo di esporre un’altra ragione per cui le donne dovrebbero leggere gli scrittori sessisti: a volte non sono veramente sessisti – al contrario, sono dalla nostra parte.
Junot Díaz ne è un esempio. Nel 2012, quando è uscita la sua raccolta È così che la perdi, molti l’hanno accusato di sessismo, perché il giovane protagonista dominicano, Yunior, ne era l’incarnazione a ogni spron battuto. Ma molti altri sono accorsi in sua difesa, argomentando che l’autore si affidava a noi lettori per smontare il sessismo del testo, via via che proseguivamo nella lettura. E questo può semplicemente essere visto come un atto profondamente femminista da parte sua.
Personalmente faccio parte di coloro che leggono Díaz in maniera simpatetica – credo davvero che sia riuscito a svelare e criticare il sessismo senza diventare moralista – ma è comunque una reazione accettabile ribattere che no, il sessismo l’ha solo svelato, senza criticarlo come avrebbe dovuto. Quello che non trovo accettabile è che qualcuno dica che l’autore tal dei tali è sessista e, senza disturbarsi a leggere nemmeno una pagina, lo esili nell’indifendibile spazio dei «libri da non leggere».
© Sigal Samuel, 2015. Tutti i diritti riservati.
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