La nuova scrittura

Raul Schenardi Autori, César Aira, Scrittura, SUR

Questo saggio è stato pubblicato nel Bollettino n. 8 del Centro de Estudios de Teoría y Crítica Literaria (Università Nazionale di Rosario, ottobre 2000).

di César Aira

Per come la vedo io, le avanguardie sono apparse quando il processo di professionalizzazione degli artisti fu completo e si rese necessario un nuovo inizio. Quando l’«arte» era già stata inventata e si poteva solo continuare a produrre «opere», il mito dell’avanguardia mise in condizione di ripercorrere il cammino dalle origini. Se il processo reale era durato duemila o tremila anni, ciò che propose l’avanguardia non poté funzionare se non come simulacro o pantomima, e da lì la connotazione ludica o, in tutti i casi, «poco seria» che hanno avuto le avanguardie, la loro instabilità carnascialesca. Però la Storia rifiuta le situazioni stabili, e l’avanguardia fu la risposta di una pratica sociale, l’arte per l’appunto, per stimolare una nuova dinamica evolutiva.

Infatti, limitandoci a esaminare l’arte del romanzo, una volta che già esista il romanzo «professionale», in una perfezione che non si può superare nell’ambito delle sue stesse premesse, come nei romanzi di Balzac, Dickens, Tolstoj, Manzoni, la situazione rischia di congelarsi. Qualcuno dirà che se tutto il pericolo sta nel fatto che i romanzieri continuino a scrivere come Balzac, siamo disposti a correrlo, e con piacere, però è ottimistico parlare di un semplice «pericolo». Perché di fatto la situazione si congelò e migliaia di romanzieri hanno continuato a scrivere sul modello di Balzac durante il XX secolo: si tratta di quel torrente inesauribile di romanzi passatisti, di intrattenimento o ideologici, la cosiddetta «commercial fiction». Per fare anche solo un passo in avanti, come fece Proust, è necessario uno sforzo fuori dal comune e il sacrificio di un’intera vita. Si invera la legge del rendimento decrescente, per cui l’innovatore copre quasi tutto il campo con il gesto iniziale, e lascia ai suoi successori uno spazio sempre più ridotto, nel quale è sempre più difficile avanzare.

Una volta delineate le caratteristiche del romanziere professionista, le alternative sono due, entrambe malinconiche: continuare a scrivere sul modello dei vecchi romanzi, in contesti attualizzati; o tentare eroicamente di fare qualche passo avanti. Questa ultima possibilità si rivela una strada senza uscita. Nel giro di pochi anni, mentre Balzac scrisse cinquanta romanzi e gli restò tempo per godersi la vita, Flaubert ne scrisse cinque, dissanguandosi, Joyce due, Proust una sola. E fu un lavoro che gli prese tutta la vita, la assorbì, come un iperprofessionalismo disumano. Fare della letteratura una professione fu uno stato momentaneo e precario, che poté funzionare solo in un determinato momento storico; direi che poté funzionare solo come promessa, durante il suo processo costitutivo, finché non si cristallizzò e non arrivò il momento di cercare [qualcos’]altro.

Per fortuna esiste una terza alternativa: l’avanguardia, che, per come la vedo io, ha in sé l’intento di recuperare il gesto del dilettante, a un livello più alto di sintesi storica. Intendo dire, esplorare un campo già autonomo e socialmente riconosciuto e, all’interno di esso, inventare nuove pratiche che restituiscano all’arte la facilità di realizzazione che aveva in origine.

La professionalità implica una specializzazione. Per questo le avanguardie tornano in continuazione, con differenti modalità, alla famosa frase di Lautréamont: «La poesia deve essere fatta da tutti, non da uno». Mi pare che sia semplicistico interpretare questa frase in senso puramente democratico o utopicamente buonistico. Semmai è il contrario: quando la poesia diventa qualcosa che possono fare tutti, allora il poeta potrà essere un uomo come tutti, finalmente libero da tutta quella miseria psicologica che abbiamo chiamato talento, stile, missione, lavoro, in una parola, tortura. Non avrà più bisogno di essere un maledetto, né di soffrire, né di rendersi schiavo di un’attività che la società apprezza sempre meno.

La professionalizzazione ha messo in pericolo la storicità dell’arte; comunque ha confinato l’elemento storico nel contenuto, congelando la forma. In sostanza, ha spezzato la dialettica forma-contenuto che rende artistica l’arte.

Inoltre, la professionalizzazione ha ristretto la pratica dell’arte a un minuscolo settore sociale di specialisti e si è persa la ricchezza delle esperienze di tutto il resto della società. Gli artisti si sono visti obbligati a «dar voce a coloro che non hanno voce», come avevano fatto gli scrittori di favole, che facevano parlare asinelli, pappagalli, contadini, mosche, sedie, re e nuvole. La prosopopea ha invaso l’arte del XX secolo.

Lo strumento principale delle avanguardie, sempre secondo la mia personale opinione, è il procedimento. Secondo una visione dispregiativa, il procedimento è un simulacro  ingannevole del processo reale attraverso cui una cultura stabilisce il modus operandi dell’artista; per gli avanguardisti è invece l’unico modo che rimane per ritornare alla radice costitutiva dell’arte. In realtà, il giudizio non importa. L’avanguardia, per sua stessa natura, accoglie la critica e la rende parte integrante del suo lavoro.

In questo senso, intese come creatrici di procedimenti, le avanguardie continuano a esistere e hanno riempito il secolo di mappe del tesoro che aspettano di essere usate. Costruttivismo, scrittura automatica, ready-made, dodecafonismo, cut-up, caso, indeterminazione. I grandi artisti del XX secolo non sono coloro che hanno realizzato delle opere, bensì coloro che hanno inventato dei procedimenti perché le opere si realizzassero da sé, o non si realizzassero. A cosa ci servono delle opere? Chi vuole un altro romanzo, un altro quadro o un’altra sinfonia? Come se non ce ne fossero già abbastanza!

Un’opera avrà sempre il valore di un esempio, e un esempio vale un altro, può cambiare appena un po’ il potere persuasivo di ciascuno: ad ogni modo, ne siamo già convinti.

Il problema è decidere se un’opera d’arte sia un caso particolare di qualcosa di generale che sarebbe quell’arte o quel genere. Se diciamo: «Ho letto molti romanzi, per esempio, il Don Chisciotte», abbiamo il sospetto di non rendere giustizia a quest’opera. La estrapoliamo dalla Storia per esporla in un museo o in un supermercato. Il Don Chisciotte non è un romanzo fra i tanti, ma il fenomeno unico e irripetibile, cioè storico, da cui deriva la definizione stessa della parola «romanzo». Nell’arte gli esempi non sono esempi perché si tratta di invenzioni particolarissime senza alcun riferimento generale.

Quando una civiltà invecchia, l’alternativa è fra continuare a realizzare opere o reinventare l’arte. Però la misura dell’invecchiamento di una civiltà è data dalla quantità di invenzioni già fatte e utilizzate. Quindi questa seconda alternativa si va facendo sempre più difficile, più costosa e meno gratificante. Tranne che si ricorra all’espediente, che sembrerà sempre un po’ irresponsabile e selvaggio, di ricorrere al procedimento. Ed è proprio questo che hanno fatto le avanguardie.

Se l’arte era diventata una semplice]produzione di opere da parte di chi sapeva e poteva realizzarle, le avanguardie sono intervenute per riattivare il processo alla radice, e restituendo dignità al processo più che al risultato. Questa intenzione contiene in sé gli altri punti: che possa essere realizzata da tutti; che si liberi dalle restrizioni psicologiche; e, per dirla tutta, che «l’opera» sia il procedimento in se stesso, senza l’opera. O con l’opera, ma solo come appendice esplicativa, per dedurne il processo di derivazione.

Vorrei illustrare quanto detto sopra con l’esempio di un artista che ammiro, un musicista nordamericano, John Cage, la cui opera è una fonte inesauribile di procedimenti. E non smetto di parlare di letteratura perché Cage è un musicista. Al contrario. Che «La poesia sia fatta da tutti, non da uno», significa anche che quell’«uno», quando agirà, farà tutte le arti, non una sola. Il procedimento stabilisce una comunicazione fra le arti, e io direi che è l’impronta di un sistema edenico delle arti, in cui tutte ne formavano una sola, e l’artista era l’uomo senza specifiche qualità professionali. Analogamente, parlare di John Cage a questo punto non è fare un esempio. Non è un esempio ma la cosa in sé di cui sto parlando.

La sua storia è nota: un giovane che voleva fare l’artista, che non versava nelle condizioni per diventare musicista, e che pertanto lo diventò… C’è un difetto nella causalità che viene sfruttato dall’avanguardista. Un tempo la vita dei musicisti andava al contrario e quella di Mozart ne era il canone: la predisposizione era così importante, la causa così determinante, che la narrazione della biografia doveva partire da molto lontano: fin dalla prima infanzia, fin dalla culla, perfino dai genitori o dai nonni, per poterle fissare un inizio. In Cage la causa galleggia incerta e nei fatti va avanzando verso la vecchiaia. Potrebbe attribuirsi ai suoi ultimi anni di vita, ai bellissimi pezzi che hanno dei numeri per titolo e che compose tra il 1987 e la sua morte nel 1992. Il beneficio di posporre la causa fu che per lui divenne necessario inventarla di volta in volta: non ebbe mai un motivo predeterminato e definitivo per essere un musicista; se lo avesse avuto, non avrebbe potuto far altro che realizzare opere. Per come andò, dovette agire diversamente. Può chiarire questa differenza, l’analisi sommaria di una delle sue invenzioni: The music of Change del 1951.

Music of Changes è un pezzo per piano solo e fu realizzato utilizzando gli esagrammi di I Ching o Libro dei Mutamenti. Fu creato mediante il «caso». Non si può dire che sia stato «composto», perché con questo verbo si intende una disposizione prestabilita dei suoi vari elementi. Qui la composizione è stata oggetto di un metodico annullamento.

Cage usò tre tavole quadrettate, di otto caselle per lato, cioè sessantaquattro per tavola, che è il numero degli esagrammi di I Ching. La prima tavola conteneva i suoni; in ogni casella c’era un «evento sonoro», cioè una o più note; erano contenute solo nelle caselle dispari, mentre le caselle pari rimanevano vuote e indicavano i silenzi. La seconda tavola, anch’essa di sessantaquattro caselle, rappresentava le durate, che non sono usate all’interno della struttura metrica. Qui le sessantaquattro caselle sono tutte occupate, perché la durata riguarda sia il suono che il silenzio. La terza tavola, di cui si usa solo una casella ogni quattro, è per la dinamica, che va da pianissimo a fortissimo, usati soli o in combinazione, cioè dall’uno all’altro.

Lanciando sei volte due monete si determinava un esagramma di I Ching. Il numero dell’esagramma si riferiva a una casella della tavola dei suoni. Altri sei lanci, altro esagramma, determinavano la durata che si applicava al suono scelto in precedenza, e la terza serie di lanci ne determinava la dinamica. (C’era anche una quarta tavola, della densità: sempre tramite il caso, si determinava quanti strati di suono aveva ogni momento e questi strati potevano andare da uno a otto.) L’estensione delle sue quattro parti, la loro struttura e durata totale, venivano ugualmente determinate dal caso.

Il lavoro metodico e puramente automatico di determinazione di una nota dietro l’altra costituisce il pezzo dall’inizio alla fine. Come suonerà questo pezzo? Dalle premesse costitutive deriva che il risultato è imprevedibile. Non ci saranno né melodie, né ritmi, né progressione, né totalità, né altro. Tranne ciò che viene fuori dal caso ; cioè, se il caso lo vuole,  ci sarà tutto quello.

È curioso che, dato il procedimento e visto che il pezzo dovrebbe risultare del tutto intemporale, impersonale e senza una precisa ubicazione, richiami in realtà intensamente  il 1951, l’ opera di un discepolo nordamericano di Schöenberg, ed è molto tipico di John Cage. Com’è possibile? L’unica cosa che fece Cage, nel 1951, fu stabilire il procedimento; non appena cominciò la scrittura , persero importanza la data e la personalità, e la civiltà che le conteneva. Se la data, la personalità e la civiltà continuano a essere presenti nel prodotto finito, vuol dire che ci siamo sbagliati nell’attribuirne la presenza a processi psicologici nell’atto della composizione.

Supponiamo che i Notturni di Chopin fossero stati scritti con lo stesso procedimento. Non necessariamente con I Ching ma con tavole di elementi e una scelta affidata al caso. Non è poi così assurdo perché queste tavole sono sempre esistite, anche solo virtualmente; e più o meno è sempre stato il caso a sceglierne gli elementi, salvo che il caso poteva chiamarsi ispirazione o capriccio o, perché no, necessità. Per mantenere la tonalità o la metrica, non bisognava far altro che preparare delle tavole ad hoc. Ovviamente, il romanticismo non poteva rinunciare alle prerogative dell’Io senza corrompere la sua favola. Il costruttivismo a cui si opponeva tendeva all’impersonalità e non deve sorprendere che abbia sperimentato la casualità. Nell’epoca immediatamente successiva a Bach si compose occasionalmente usando il caso, con i dadi; lo fecero Mozart, Haydn, Carl Philipp Emmanuel Bach, fra gli altri. L’avvento della personalità dell’artista, della sua sensibilità e le implicazioni politiche dell’Io, arrivano con il romanticismo e si esauriscono nel giro di un secolo. Il grande meccanico Schöemberg dà un giro di vite alla professionalizzazione del musicista, preparando l’avvento di un nuovo tipo di artista: il musicista che non è musicista, il pittore che non è pittore, lo scrittore che non è scrittore. Già nel 1913 Marcel Duchamp aveva fatto un esperimento nello stesso senso, determinando le note a caso, ma senza suonarle; considerava l’esecuzione «molto inutile». In effetti, perché realizzare l’opera se già si sa come realizzarla? L’opera servirebbe soltanto ad alimentare il consumo o a soddisfare un bisogno narcisista.

Cage giustifica il ricorso al caso sostenendo che «così è possibile una composizione musicale la cui continuità sia libera dal gusto e dalla memoria individuali, e anche dalla bibliografia e dalle “tradizioni” artistiche». Quello che chiama «bibliografia» e «tradizioni artistiche» non è altro che il modo canonico di fare arte, che si realizza con ciò che lui chiama «il gusto e la memoria individuali». L’avanguardista crea un procedimento personale, un canone personale, un modo individuale di ricominciare da capo il lavoro dell’arte. Lo fa perché nella sua epoca, che è di fatto la nostra, i procedimenti tradizionali erano già conclusi, fatti, e il lavoro dell’artista si  era spostato dalla creazione d’arte alla produzione di opere, perdendo dei connotati essenziali. E non è certo una novità. Sant’Agostino diceva che solo Dio conosce il mondo perché è stato lui a crearlo. Noi no, perché non lo abbiamo creato noi. L’arte sarebbe allora il tentativo di arrivare alla conoscenza attraverso la costruzione dell’oggetto da conoscere; questo oggetto non è altro che il mondo. Il mondo inteso come linguaggio. Non si tratta dunque di conoscere ma di agire. E credo che l’elemento più sano delle avanguardie, delle quali Cage è l’epitome, sia riportare l’azione in primo piano, non importa che sembri frenetica, ludica, senza direzione, disinteressata dei risultati. Deve disinteressarsi dei risultati per continuare a essere azione.

Il procedimento delle tavole di elementi, utilizzato da Cage, si può applicare a qualunque arte. In pittura, bisognerebbe realizzare tavole di forme basiche, di colori, di grandezze, e usare il caso in qualche modo per scegliere man mano quali utilizzare nel quadro. Anche l’architettura potrebbe essere realizzata così. Il teatro. La ceramica. Qualsiasi arte. Anche la letteratura, naturalmente.

Condividendo lo stesso procedimento creativo, tutte le arti finiscono per comunicare fra loro: comunicano tramite la loro origine e la loro nascita. E, tornando alle radici, il gioco ricomincia.

Il procedimento, qualunque esso sia, consiste nel tornare alle origini. Ne consegue che l’arte che non usa un procedimento, oggi, è non vera arte. Perché ciò che distingue la vera arte dal semplice uso di un linguaggio è  quella radicalità.

Traduzione di Silvia Barcellona

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