Ospitiamo oggi un contributo dell’amico Raul Schenardi sull’autore argentino César Aira, che ci riguarda molto da vicino, e ne approfittiamo per segnalarvi il nuovo blog di Raul, Perle e cicatrici, dedicato alla letteratura latinoamericana. Buona lettura!
di Raul Schenardi
Nel 1994 un amico mi inviò un romanzo appena pubblicato in Argentina da Emecé, Los misterios de Rosario, di un autore che non conoscevo affatto: César Aira. Fu una bella sorpresa. Una campus novel che mi ricordò per alcuni dettagli Rumore bianco di De Lillo: entrambi i protagonisti sono professori universitari in crisi, entrambi abusano di una droga, e in tutti e due i romanzi incombe una minaccia apocalittica. Poi il nome del protagonista, Alberto Giordano, accese una scintilla nella mia memoria: Giordano è un critico argentino piuttosto famoso, che insegnava proprio nell’Università di Rosario, lo scenario in cui si svolge il romanzo, e non ne esce troppo bene. In seguito scoprii che altri personaggi figuravano con i loro veri nomi, e la cosa mi incuriosì: chi era questo sconosciuto (per me) che si permetteva di caricaturizzare così esponenti del mondo accademico e editoriale? (Fra gli altri, Adriana Astutti, colonna portante di Beatriz Viterbo, una casa editrice che ha pubblicato diversi suoi romanzi e saggi, nonché un libro di Giordano, e Sandra Contreras, autrice di uno dei saggi più pregnanti e acuti sull’opera di Aira: Las vueltas de César Aira) Naturalmente Aira all’epoca non era affatto uno sconosciuto, ma era ancora «il segreto meglio custodito della letteratura argentina». Non abbastanza però da sfuggire all’attenzione del compianto Angelo Morino, che nel 1991 aveva tradotto e fatto pubblicare presso Bollati-Boringhieri Ema la prigioniera (uscito dieci anni prima in Argentina). La sorpresa alla lettura di questo romanzo fu ancora più grande: se Los misterios de Rosario – allusione ironica ai Misteri di Parigi di Sue – non lasciava dubbi sul fatto che Aira si proponeva di far deragliare il realismo verso un fantastico non più erede di Borges o Cortazar, Ema la prigioniera mette in discussione la tradizione del romanzo storico e insieme la visione che l’intellettualità argentina, da Sarmiento in poi, ha sempre avuto della dicotomia civiltà/barbarie. Nel romanzo di Aira infatti gli indigeni parlano come philosophes francesi, si intrattengono chiacchierando di frivolezze e giocano a fare i capitalisti, mandando a gambe levate una verosimiglianza costruita pazientemente con incantevoli descrizioni di paesaggi e cambi atmosferici e di luce. Solo più tardi infatti Aira comincerà a maturare una feroce idiosincrasia nei confronti di quelli che ha definito «tratti circostanziali» e smetterà di «scrivere bene», vale a dire con dispendio di dettagli e alla ricerca della perfezione stilistica, per concentrarsi invece sulle storie e sulle idee che queste sono capaci di veicolare. Tanto da ripudiare Canto castrato, del 1984, il suo romanzo più lungo – 297 pagine nell’edizione spagnola Mondadori del 2003 –, in quanto ancora troppo «tradizionale», a suo dire.
Da allora non ho più smesso di leggere Aira e sono riuscito a procurarmi un certo numero di suoi romanzi, via Amazon e biblioteche italiane. Alcuni, pubblicati in passato da case editrici minuscole, ha avuto la squisita cortesia di inviarmeli lui stesso, come El juego de los mundos, delle ediciones el broche (2000), che reca il sottotitolo «Novela de Ciencia-Ficcion», o El congreso de literatura, della Universidad de Los Andes, Venezuela, tiratura di 500 copie, o un’edizione peruviana di La serpiente. Ovviamente non ho potuto leggere tutto quello che ha pubblicato, anche perché, da quando non deve più guadagnarsi da vivere con l’«agro» mestiere del traduttore, ha moltiplicato il numero delle pubblicazioni annuali, che è andato crescendo parallelamente alla riduzione del numero di pagine. E ha continuato a pubblicare nuovi testi con piccole case editrici (Mansalva, Eloisa Cartonera, Interzona), mentre Mondadori riedita via via romanzi degli anni Ottanta e Novanta più un nuovo romanzo ogni anno. Come ha scritto un critico che peraltro lo apprezza molto: non pretenderà mica che li leggiamo tutti…
Restano fra i miei preferiti Como me hice monja, che ho avuto il piacere di tradurre per Feltrinelli, El tilo, una variazione sul precedente, ovvero un’altra sorta di parodia e distorsione del «racconto d’infanzia», e La liebre, che appartiene al «ciclo della pampa», insieme a Ema e a Un episodio en la vida del pintor viajero. Ma l’elenco dei libri di Aira che amo sarebbe troppo lungo, faccio prima a nominare quelli che mi hanno lasciato perplesso o indifferente, soprattutto Yo era una chica moderna, Yo era una niña de siete años e Las aventuras de Barbaverde. Così come preferisco la raccolta di racconti La trompeta de mimbre (1998) alla più recente Relatos reunidos (2013).
Non meno rilevante la produzione saggistica di Aira: le conferenze su Copi e Alejandra Pizarnik pubblicate da Beatriz Viterbo, come lo studio su Edward Lear e i suoi limerick, i saggi sparsi su varie riviste e il Diccionario de autores latinoamericanos.
Insomma, Carlos Fuentes probabilmente scherzava quando nel suo romanzo La Silla del Aguila pronosticava un Nobel prossimo venturo per Aira. Aira scherzava sicuramente quando, nelle vesti dello «scienziato pazzo» che ogni tanto ama indossare nelle sue novelitas, in El congreso de literatura, si ingegnava a clonare Fuentes, perché con 100 uomini di quella statura intellettuale avrebbe potuto assoggettare il mondo intero.
Il 29 maggio 2012 avevo un appuntamento a Roma con Aira, in visita in Italia, ma quasi in incognito, refrattario com’è in genere a interviste e apparizioni pubbliche. Mi accingevo a incontrarlo con l’atteggiamento del fan, un paio di libri da autografare e la soddisfazione di aver tradotto nel frattempo un altro suo romanzo, I fantasmi, per SUR (a cui si sono aggiunti in seguito Il marmo e Come imbalsamare animaletti mutanti). Mentre raggiungevo la stazione di Modena, alle 9 di mattina c’è stata un’altra scossa di terremoto: caos generale, treni fermi, cellulari muti, addio Aira…
Nel pomeriggio ricevo una chiamata dall’editore di SUR. «Ciao Marco…» «No soy Marco, soy César Aira». Mi riprendo in fretta dalla sorpresa: «Entonces… Ave, César!» e ridiamo insieme.
© Raul Schenardi, 2016. Tutti i diritti riservati.
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