Zama di Antonio Di Benedetto è in libreria. Pubbichiamo oggi un articolo di Sylvia Saítta uscito su La Nación nel 2006, in occasione dei cinquant’anni dalla pubblicazione del romanzo, tra i più importanti della letteratura latinoamericana contemporanea.
«Antonio Di Benedetto e l’attesa»
di Sylvia Saítta
traduzione di Alice Lucchiaro
«Scrissi Zama in meno di un mese, in un periodo di congedo dal lavoro, durante il quale mi chiusi in una casa vuota. I diciotto giorni di congedo trascorsero troppo in fretta e terminai il romanzo quando ero già tornato al mio lavoro di sempre. La fretta mi obbligò a uno stile urgente (conciso, di frasi corte, molto condensato) ma per fortuna (e contrariamente ai miei timori) adeguato al vortice delle peripezie di don Diego», confessava lo scrittore Antonio Di Benedetto in un’intervista del 1971. La perplessità che provoca quest’affermazione riferita alla scrittura di Zama, considerato uno dei migliori romanzi argentini e latinoamericani del xx secolo, risiede nella sua capacità di smontare uno dei miti della letteratura moderna: quello che sostiene che il valore di una scrittura si misura in base al lavoro necessario a produrla. Come uno scrittore-artigiano, Di Benedetto si chiude in una casa vuota per affinare le sue frasi, ma i tempi della sua scrittura sono ben lungi dalla calma che dovrebbe consentire una torre d’avorio: come Roberto Arlt, Di Benedetto scrive il suo romanzo nei momenti rubati al giornalismo, che praticava in veste di vicedirettore del quotidiano Los Andes, di Mendoza, e di corrispondente della Prensa, di Buenos Aires. Come Roberto Arlt, Di Benedetto scrive con la celerità e l’ansia di chi ha poco tempo per scrivere; ma a differenza di Arlt, e nonostante ciò che lo stesso Di Benedetto afferma nell’intervista, in Zama mancano i segni dell’urgenza che contraddistinguono il discorso giornalistico. Al contrario, Di Benedetto usa l’argomento del romanzo – la storia di chi aspetta senza speranza – per costruire il proprio stile, uno stile che coniuga l’indugio della trama con la precisione della parola esatta, la riflessione esistenzialista sul divenire umano con lo studio sull’identità americana.
Nel 1956, e nella solitudine di una casa vuota, questo giovane e sconosciuto scrittore di Mendoza di soli trentatré anni scrive il suo primo e più famoso romanzo. Come sostiene Jimena Néspolo nel suo pregevole saggio Ejercicios de pudor (Esercizi di pudore), è nel momento iniziale della sua carriera che Di Benedetto raggiunge il picco di massima tensione e complessità estetica di tutta la sua narrativa. Questo perché, sotto più punti di vista, Zama è un romanzo eccezionale: eccezionale per la sua originalità formale e l’invenzione di una lingua letteraria; eccezionale per l’introduzione dell’esistenzialismo nel contesto latinoamericano e per il modo in cui disarticola i procedimenti del romanzo storico; eccezionale per il momento in cui viene prodotto.
In effetti, la pubblicazione di Zama nelle Ediciones Doble P di Buenos Aires, a metà degli anni Cinquanta, anticipa l’intenso rinnovamento narrativo che, dal punto di vista editoriale e di pubblico, diede origine al cosiddetto boom della letteratura latinoamericana. Strettamente contemporaneo alla letteratura di Juan Rulfo (La pianura in fiamme venne pubblicato nel 1953 e Pedro Páramo due anni dopo), il romanzo di Di Benedetto stila, in un colpo solo, il certificato di morte del regionalismo nella storia della letteratura argentina e quello di nascita del «regionalismo non regionalista» – secondo la definizione di Beatriz Sarlo –, che troverà nella narrativa di Héctor Tizón e Juan José Saer i suoi massimi esponenti. Con Zama, dunque, ci si avvia verso quella profonda riformulazione della fiction regionalista degli anni Sessanta che, con il suo rifiuto per il pittoricismo e per il colore locale e attraverso l’incorporazione di temi e forme narrative di carattere universale, riprende in un certo senso ciò che aveva preannunciato Jorge Luis Borges in «Lo scrittore argentino e la tradizione», dove invocava per la letteratura argentina – in quanto letteratura secondaria e marginale – l’enorme libertà di «trattare tutti i temi europei, trattarli senza superstizioni, con un’irriverenza che può avere, e ha già, conseguenze felici».
Eravamo lì, tra andar via e rimanere
Dedicato alle «vittime dell’attesa», Zama racconta, in particolare, l’attesa agonizzante di Diego de Zama, un funzionario sudamericano dell’impero coloniale spagnolo, nella Asunción del Paraguay di fine Settecento. Sospeso in quella città, alla quale è stato destinato per un breve periodo, Diego de Zama attende il momento per potersi trasferire in una sede di maggior prestigio all’interno dell’amministrazione coloniale, sia essa Buenos Aires, Lima, Santiago de Chile o l’agognata Madrid. Nel corso del romanzo, Zama aspetta: aspetta una nave che porta notizie della sua famiglia, rimasta a Buenos Aires, aspetta il suo trasferimento a terre più promettenti, aspetta le monete di uno stipendio sempre in ritardo, aspetta una raccomandazione, aspetta di essere il protagonista di un atto eroico che lo riscatti.
Diego de Zama aspetta e la sofferenza provocata da questa attesa lo logora fino a diluire il suo io nella pura autodistruzione: «Le ho detto chi era Zama», dice Zama di se stesso: «l’energico, il realizzatore, colui che aveva ridotto alla pace gli indios, che aveva fatto giustizia senza usare la spada […] quel corregidor: un uomo di legge, un giudice; un uomo senza paura». Zama può dire chi era perché nel lungo presente del racconto, che comprende nove anni, non può più dire chi è. Nel presente, Zama è solo un uomo che aspetta e che continuerà ad aspettare, proprio come i protagonisti del suo contemporaneo Aspettando Godot di Samuel Backett, del 1952: «Mi domandai, non perché vivessi, ma perché fossi vissuto», riflette Zama poco prima dell’agonia finale. «Pensai che era stato per l’attesa e mi chiesi se aspettassi ancora qualcosa. Mi parve di sì. Si aspetta sempre altro». Tuttavia, ciascuna delle tre parti del libro (1790, 1794 e 1799) mostra i diversi aspetti della frustrazione generata da tale attesa: la delusione sessuale, la miseria economica, la sconfitta finale nel suo tentativo di «acquistarmi meriti grazie a una qualche impresa» tramite la cattura del fuorilegge Vicuña Porto.
A sua volta, se come sostiene Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso far aspettare è la prerogativa costante di qualunque potere, Zama è anche una lunga metafora sui vincoli tra i centri economici, politici, culturali e le rispettive zone di dominazione. Perché Diego de Zama, come molti intellettuali latinoamericani, è un sudamericano che pensa di essere europeo e che disdegna l’eredità indigena e creola per sognare un futuro che si trova dall’altra parte dell’Atlantico. In questo senso, Noé Jitrik, in un pionieristico studio del 1959, sosteneva che Di Benedetto attribuisce a Zama un atteggiamento più contemporaneo rispetto al suo personaggio: quello dei latinoamericani che, idealizzando l’Europa, vivono male in America e si rifiutano di concepire il progetto americano che definisce ogni rapporto possibile con un’America in costruzione.
Il passato perduto
I critici dicono che Di Benedetto abbia letto libri su libri di storia e geografia prima di scrivere Zama; che abbia confrontato cartine, città e distanze; che abbia osservato incisioni e dipinti dell’epoca e che si sia documentato sugli usi e costumi degli spagnoli, dei criollos e degli indigeni nelle città coloniali. Può essere vero, e sicuramente lo è; tuttavia, non ci sono tracce di queste letture nel romanzo. Di Benedetto sceglie di dimenticare o di confondere i suoi appunti di lettura attraverso la cancellazione del dato storico o del luogo geografico preciso. E così, deduciamo che l’azione si svolge ad Asunción del Paraguay grazie ai riferimenti ambientali e alla menzione di etnie indigene, boschi, foreste e fiumi; ma il nome della città non compare mai. In questo modo, Zama sceglie di non essere un romanzo storico dal momento che non ha nessuna pretesa di verosimiglianza propria del genere né cerca di interpretare il passato tramite una ricostruzione storica. In particolare, è Juan José Saer, uno dei lettori più devoti dell’opera di Di Benedetto, a confutare con maggiore enfasi l’ipotesi di concepire Zama come romanzo storico. E lo fa sostendendo che in questo romanzo non c’è nessun tipo di ricostruzione linguistica, perché la lingua in cui è scritto non corrisponde a quella di nessuna epoca in particolare: «Se in certi punti sembra risvegliare qualche eco storica, ovvero quella di una lingua datata, tale lingua non è in alcun modo contemporanea agli anni in cui si suppone che si svolga l’azione, ma è invece precedente di circa due secoli: è la lingua classica del Siglo de Oro». In effetti, l’uso deviato della metafora e un’aggettivazione che si allontana intenzionalmente dalla norma dello spagnolo classico, insieme al procedimento dell’ellissi e alla riduzione della frase alla sua minima espressività, fanno di Zama l’apice di condensazione della poetica di Di Benedetto.
A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, Zama conserva l’attualità di un classico. Un classico che, secondo la giusta affermazione di Italo Calvino, non finisce mai di dire quello che ha da dire perché si tratta di un testo che contiene una molteplicità di significati, nei quali ogni nuovo lettore scopre cose nuove. Considerato come un romanzo storico, esistenzialista, sperimentale o poetico, ancora oggi Zama resta al di fuori di ogni classificazione perché possiede quella dimensione vitale tipica di ogni testo classico, che si ricrea a ogni lettura come un incessante esercizio dell’immaginazione.
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