La conversazione che segue è apparsa sul magazine Work in Progress di Farrar, Straus and Giroux ed è stata poi ripresa da Literary Hub. Ringraziamo FSG per averci permesso di tradurre il testo.
di Laura van den Berg e Emily St. John Mandel
traduzione di Stefania Standoli
Laura van den Berg, il cui primo romanzo Find Me è ora disponibile in versione tascabile, ed Emily St. John Mandel, autrice di Station Eleven (pubblicato in Italia da Bompiani con il titolo Stazione undici), hanno intrattenuto una corrispondenza da una parte all’altra del mondo per parlare di spazio aperto, di ciò che accade dopo la catastrofe, e della fine delle guerre tra i generi letterari.
Laura van den Berg: Durante le interviste per la promozione di Find Me, spesso la prima domanda – forse è stato lo stesso per te? – era qualcosa del tipo: «Sono usciti tantissimi romanzi distopici negli ultimi anni. Perché?» Un’osservazione senza dubbio accurata, e perciò una domanda alla quale mi sarei dovuta preparare meglio, ma lo confesso: mi ha sempre messo in grande difficoltà. Di certo ci troviamo sul precipizio di una catastrofe ambientale di dimensioni storiche, e il fatto di trovarci a guardare giù, in direzione della nostra stessa rovina, potrebbe essere uno dei fattori alla base dell’approccio distopico, ma… cos’altro? Premettendo che nelle prossime interviste potrei citarti per deviare l’attenzione dal fatto che non sono ancora riuscita a trovare una risposta valida alla domanda, ti chiedo: cosa pensi al riguardo?
Emily St. John Mandel: Anche a me è stata fatta questa domanda molte volte. E sì, ho trovato che l’ipotesi più immediata a cui ricorrere è che il nostro interesse per queste storie sia un riflesso naturale dell’ansia che sentiamo nell’epoca tesa in cui viviamo, ma d’altra parte, quando è mai parso che il mondo non stesse crollando? Quando è nata la nostra generazione, i nostri genitori si affliggevano all’idea di allevare i propri figli nel mondo post-bellico della Guerra Fredda che era sull’orlo di uno sterminio nucleare, e i loro genitori, a loro volta, si affliggevano a causa di qualcos’altro, e così via. Quindi sono completamente d’accordo con te nel pensare che il cambiamento climatico non sia la sola spiegazione.
Un paio di persone mi hanno suggerito che la nostra fascinazione per queste storie derivi dal fatto che desideriamo la redenzione, il che è interessante ma si scontra con lo stesso problema, tanto quanto la teoria del cambiamento climatico, ovvero: quand’è che non abbiamo sentito il desiderio di redimerci? Altre persone hanno suggerito che siamo attratti da certe storie perché non esistono più le frontiere, per cui incanaliamo la nostra brama di territori inesplorati nella finzione, adesso che non possiamo più trovarli qui sulla Terra. Trovo questa opzione magnifica e affascinante, ma, ancora: il mondo sopra il livello del mare è stato mappato da un bel po’ di tempo. Dunque nessuna di queste teorie che sento più frequentemente indica davvero il motivo per cui siamo tanto interessati a queste storie ora, in questo particolare momento.
Un’idea alla quale penso ultimamente è che forse ne siamo attratti perché vorremmo avere vite meno distratte. Siamo incatenati, distratti, e dipendenti dalla nostra tecnologia, e forse vi è una certa aspirazione a un mondo in cui i cellulari non funzionano più e in cui dobbiamo parlare di nuovo con la gente faccia a faccia e passare più tempo da soli con i nostri pensieri. O forse la spiegazione è più banale e semplice: l’influenza del romanzo La strada di Cormac McCarthy su una generazione di scrittori; o l’apprezzamento dei lettori per la literary fiction molto basata sulla trama. Oppure la risposta si trova in qualche combinazione delle ipotesi precedenti.
LVDB: Ah, il desiderio di una vita meno distratta mi convince molto come spiegazione. Anche la voglia di redenzione, l’ansia per la fine del mondo e il bisogno di trovare territori non tracciati sono spiegazioni sensate, certamente, ma, come hai detto tu stessa, non si tratta di cose totalmente specifiche dei nostri tempi. L’ambizione di avere vite meno distratte, invece, è molto tipica dei nostri tempi (in questo momento ho appena scritto un post su Facebook in cui chiedo consigli per aiutare gli studenti che ritengono che il loro lavoro sia ostacolato dalle distrazioni della tecnologia). Sopravviene molto spesso la sensazione che la nostra esistenza virtuale abbia preso il sopravvento sulla nostra vita ingigantendosi in qualcos’altro che sfugge al nostro controllo. Cosa accadrebbe se quel mondo virtuale fosse sradicato? E cosa salterebbe fuori, dentro di noi, di fronte a tutto quello spazio aperto?
EStJM: Non è affascinante da contemplare? Anch’io mi trovo a meditare sulla questione assumendo il concetto di «spazio aperto» – qualche mese fa ho deciso di prendere una pausa da Twitter per un paio di settimane in modo da avere più tempo per leggere e, quando ho effettuato la disconnessione, mi è davvero parso che attorno a me si fosse dischiusa un’enorme quantità di spazio. È stato come se la mia vita fosse in qualche modo immediatamente meno ingombra, e questa sensazione di ottenere spazio mi piace così tanto che da allora non mi sono più connessa. Immagino che abbandonare del tutto il mondo virtuale darebbe questo tipo di percezione, solo più intensa.
LVDB: Mi ritrovo davvero molto in quello che dici. Anch’io provo a staccare la spina, con piccoli gesti ogni giorno – tendo a non portarmi dietro il cellulare molto spesso. Quando sono troppo satura, il mio spazio cerebrale ne soffre decisamente. Al momento mi trovo in Australia, e amo lo spazio cerebrale che si schiude quando sono così fisicamente lontana da casa e fuori dai circuiti virtuali.
Ecco un’altra cosa che forse potrebbe essere tipica dei nostri tempi: nell’articolo «2015 Was the Year the Literary Versus Genre War Ended», pubblicato su Vice, Lincoln Michel ha sostenuto che «è tempo di dichiarare la fine delle guerre tra i generi letterari». Stazione undici è stato, credo, il tuo primo tentativo di immergerti in ciò che potremmo vagamente descrivere come narrativa speculativa – lo stesso vale per me e per Find Me. Eri preoccupata di come sarebbe stato etichettato il libro?
EStJM: Certo. Sono cresciuta leggendo romanzi speculativi e nutro un enorme rispetto per il genere – voglio dire, è un onore tremendo quando il tuo libro viene infilato nella stessa categoria generale dei romanzi di Margaret Atwood, no? – ma non mi è mai davvero piaciuto vedere il libro etichettato così. Ho sempre trovato le catalogazioni di genere nella narrativa assurdamente soggettive. In quel pezzo su Vice, per esempio, Lincoln Michel si riferisce a me come una «scrittrice letteraria», presumibilmente sulla base degli stessi tre titoli di backlist che in Francia mi hanno fatta affermare come «scrittrice di thriller». E mi sembra che le etichette di genere spesso finiscano per alienare i lettori i quali, se vogliamo essere onesti, mi preoccupavano per motivi meramente finanziari: ero preoccupata che chi non era abituato a leggere opere di fantascienza non avrebbe acquistato Stazione undici se fosse stato catalogato come fantascienza o narrativa speculativa. Tu avevi la stessa paura?
LVDB: Sì e no – ti sembra una risposta abbastanza vaga?
Anche io trovo la categorizzazione di genere altamente soggettiva, tanto che le etichette si sono rese quasi irrilevanti ai miei occhi. Ma certamente non tutti la pensano così, quindi ho un po’ temuto che l’etichetta di «narrativa distopica» avrebbe allontanato quei lettori a cui non piacciono le distopie. Sull’altro lato della medaglia, siccome Find Me è quasi completamente incentrato sulla storia di una tipa stramba che cerca di farsi strada in un mondo molto strano, mi preoccupavo che i lettori che erano stati attratti dall’etichetta di distopia sarebbero rimasti frustrati dalla natura ellittica del libro. Dato che attorno al narratore, in un certo senso, germogliava un po’ alla volta il mondo in tutta la sua complessità, ogni volta che un intervistatore mi chiedeva perché avessi scelto di scrivere un romanzo distopico o fantascientifico c’era sempre quella frazione di secondo in cui pensavo: Aspettate, che? Davvero ho fatto una cosa del genere?
EStJM: Lo stesso vale per me! Neanch’io credevo di scrivere un romanzo sci-fi. Eppure sembra io cada in questa trappola a ogni libro – mi sono sempre predisposta a scrivere semplicemente literary fiction (qualunque cosa significhi) con una spinta fortemente narrativa, e quindi mi sorprende quando la gente ci attacca sopra un’etichetta di genere. Perciò, in tutta onestà, immagino che al quarto libro avrei dovuto aspettarmelo.
LVDB: Ma forse stiamo raggiungendo un punto in cui queste distinzioni hanno meno importanza? Quanto mi piacerebbe. Do i numeri, per esempio, quando sento un collega professore di scrittura creativa blaterare, spesso in maniera piuttosto orgogliosa, sul fatto che nei suoi corsi non prende in considerazione nessuna storia in cui compaia, per dirne una, un lupo mannaro (Angela Carter?!) perché ciò la renderebbe un’opera «di genere».
EStJM: Piacerebbe anche a me, sì! Abbiamo una tale mania per la classificazione… A volte tutto sembra essere una questione di «bianco o nero», «uno o zero», «di genere o letterario», e non penso che tali divisioni siano particolarmente utili. Ma sì, credo che le barriere stiano crollando, il che rende questo un momento molto eccitante sia per gli scrittori che per i lettori. L’anno scorso Joshua Roth ha pubblicato un articolo interessante sul sito del New Yorker, nel quale notava come chiaramente un libro possa appartenere a più di un genere soltanto, il che dovrebbe essere scontato ma, per qualche motivo, a volte non lo è. È un modo di guardare al problema che trovo stimolante e di largo respiro. Mi piace l’idea che, se Stazione undici e Find Me sono libri di fantascienza, sono anche literary fiction. Non c’è motivo per cui un dato testo non possa essere, per dire, un romanzo speculativo e anche letterario e anche un thriller e anche un romanzo rosa.
E sì, per l’amor del cielo, quelli che escludono automaticamente intere categorie di fiction («se c’è un lupo mannaro dentro non conta») probabilmente non dovrebbero insegnare scrittura creativa. Uno dei miei libri preferiti degli ultimi anni è Zona uno di Colson Whitehead che è, naturalmente, un travolgente romanzo sugli zombie scritto benissimo. Mi è rimasto dentro come pochi altri libri.
LVDB: Oh, adoro quest’idea che un libro possa rientrare in più di un solo genere. Quasi tutti i miei romanzi preferiti sono, in un modo o nell’altro, di questo tipo.
Un altro fenomeno di cui recentemente si è discusso molto sono i romanzi distopici scritti da donne. Entrambi i nostri libri sono stati citati nel saggio più interessante di Sloane Crosley, «It’s the End of the World as She Knows It», in cui l’autrice sostiene che «la cosa curiosa è che le scrittrici donne hanno una visione radicalmente diversa – e interiore – dello stesso panorama». Io ritengo che Find Me sia un romanzo profondamente introspettivo, per cui questa interpretazione ha molto senso in base alla mia personale esperienza con la forma, ma ero curiosa di sapere cosa pensi tu delle idee della Crosley.
EStJM: Mi è piaciuto molto quel saggio. Mi ha particolarmente intrigata la sua tesi secondo cui nell’ambito della nostra narrativa post-apocalittica le donne tendono ad assumere una prospettiva maggiormente interiorizzante, perché la condizione di sentirsi fisicamente non protette non è una circostanza particolarmente nuova o degna di nota per noi. Rispetto a Find Me, ti sembra un’idea fondata? La maggior parte dell’azione post-apocalittica di Stazione undici si svolge due decenni dopo il crollo del sistema sociale, semplicemente perché mi sembrava molto più interessante che scrivere di schizzi di sangue e cannibalismo. Non avevo analizzato sul serio le ragioni per cui raccontare la violenza e il pericolo fisico non fosse affatto interessante per me, ma quando ho letto il pezzo della Crosley, la sua interpretazione mi ha convinta. Mi sono trovata a pensare: «Ok, certo. Sentire un senso di rischio mentre cammino per strada non è una situazione post-apocalittica, è la condizione standard quando si esce la sera in qualsiasi quartiere».
LVDB: È un’interpretazione valida anche per quanto riguarda Find Me, soprattutto visto che la narratrice ha una memoria frammentaria che prende forma sin dall’infanzia – e da molti punti di vista questa catastrofe interiore è la forza primaria che conduce il romanzo (che è anche per fortuna privo di scene di cannibalismo). Il mondo esterno l’ha già tradita, ha già violato la sua sicurezza, molto prima che lo facesse il disastro dell’epidemia. È anche interessante notare che entrambe abbiamo concepito modi per mantenere la focalizzazione su ciò che avviene dopo. Nel tuo caso, impostando la sezione post-apocalittica due decenni dopo che l’epidemia di influenza georgiana ha colpito il mondo, e nel mio, creando un contagio che uccide svariate centinaia di migliaia di persone, ma recede misteriosamente prima di attraversare i confini americani e diventare un’assoluta Fine del Mondo. Ci sono state altre motivazioni per le quali hai voluto lavorare principalmente sul paesaggio del periodo successivo al disastro?
EStJM: Ho trovato il tuo romanzo una ventata d’aria fresca proprio per questo motivo: quel territorio «successivo alla catastrofe ma non da Fine del Mondo» mi ha affascinata. E sì, ho avuto altre motivazioni per lavorare principalmente su quel tipo di paesaggio, ovvero che a mio avviso la narrativa del tipo guarda-quanto-è-terrificante-la-fine-del-mondo è stata sfruttata fin troppo. Il che non significa che non potrebbe ripresentarsi in qualche modo scenograficamente originale – voglio dire, si potrebbe ribattere che la narrativa della seconda guerra mondiale sia stata riproposta fino alla nausea, ma negli ultimi anni ho letto un paio di libri di guerra straordinari – però mi sembrava un sentiero già percorso e non ero interessata a scrivere quel tipo di storia.
LVDB: In tutto questo parlare dell’attualità della letteratura distopica, rischiamo di perdere di vista il fatto che ha una lunga tradizione alle spalle (la Crosley, nel suo articolo, cita L’ultimo uomo di Mary Shelley, che fu pubblicato nel 1826). Ci sono dei romanzi appartenenti al genere che ami consigliare ai lettori?
EStJM: Sì! Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller. L’ho letto quando avevo circa quindici anni e mi è rimasto molto impresso. Inoltre, dico sempre a tutti di leggere Le stelle del cane di Peter Heller, che ho adorato. Una delle ragioni per cui sono andata con la casa editrice Knopf è perché rappresentava l’opportunità di lavorare con l’editor di Peter Heller. Tu quali libri ami consigliare alla gente?
LVDB: Ammetto che non conoscevo Un cantico per Leibowitz fino ad ora, ma l’ho appena cercato su internet e sembra fantastico, quindi finisce dritto nel mio scaffale. Grazie! Non lasciarmi è senza dubbio uno di questi: Ishiguro è uno dei miei eroi. Cecità di Saramago. L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares. Il libro d’esordio di Fiona Maazel, Last Last Chance, è uno di quei romanzi che mi è rimasto dentro anche a distanza di anni. Mi ha colpito soprattutto l’atmosfera: un virus letale imprevedibile e la vita quotidiana che deve andare avanti… la narratrice, per esempio, è una tossicodipendente, e va in riabilitazione circa a metà della storia, di conseguenza il «mondo precedente» è ancora lì, ma è reso sempre più stravagante e bizzarro. Infine c’è questo romanzo che s’intitola The Orange Eats Creeps di Grace Krilanovich. Si può discutere se sia corretto definirlo un libro distopico (c’è quantomeno una distopia personale), ma ne sono ossessionata. Anche questo è un romanzo d’esordio, e ogni anno spero sia l’anno in cui Grace Krilanovich pubblicherà il suo secondo libro (senza fretta, Grace). Una delle cose più belle dell’essere stata parte di questo mondo distopico per un certo numero di anni è stato lo stimolo a leggere libri appartenenti al genere, e ciò mi ha rapidamente rivelato quanto siano vaste le possibilità, e infinite le forme che un tale mondo può assumere.
EStJM: Oh sì, anch’io aggiungerei Non lasciarmi alla mia lista. E The Orange Eats Creeps mi è piaciuto tantissimo, anch’io spero ogni giorno che esca un nuovo libro di Grace Krilanovich. (Come ti ha già detto lei, Grace, non c’è fretta). L’ampia gamma di disastri è una delle cose che, a mia volta, amo maggiormente del genere. Non credo che noi scrittori siamo una categoria particolarmente pessimista, ma sembra proprio che trascorriamo una quantità tremenda di tempo a immaginare la fine di ogni cosa.
© Laura van den Berg, Emily St. John Mandel, 2016
La seconda raccolta di racconti di Laura van den Berg, The Isle of Youth, ha vinto il Rosenthal Family Foundation Award conferitole dall’American Academy of Arts and Letters ed è stata premiata con il Bard Fiction Prize. Find Me è il suo primo romanzo.
Emily St. John Mandel è nata in Canada, nella Columbia Britannica. Il suo ultimo libro, Stazione undici, è stato finalista al National Book Award ed è entrato nella lista dei bestseller del New York Times. I suoi romanzi precedenti sono Last Night in Montreal (pubblicato in italiano da Leggereditore con il titolo La musica delle parole), The Singer’s Gun e The Lola Quartet.
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