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Cabrera Infante, l'illusionista delle parole

redazione Guillermo Cabrera Infante, SUR

Presentiamo oggi un saggio del 1997 del premio Nobel Mario Vargas Llosa sullo scrittore cubano Guillermo Cabrera Infante. Il testo costituisce una postfazione al romanzo La ninfa incostante.

di Mario Vargas Llosa
traduzione di Giulia Zavagna

L’umorismo, i giochi di parole, il cinema e un’ostinata nostalgia per una città che forse non è mai esistita sono gli ingredienti principali dell’opera di Guillermo Cabrera Infante. L’Avana che troviamo nei suoi racconti, nei romanzi e nelle cronache, e che lascia un ricordo così vivido nella memoria del lettore, deve sicuramente – come la Dublino di Joyce, la Trieste di Svevo o la Buenos Aires di Cortázar – molto più alla fantasia dello scrittore che ai suoi ricordi. E tuttavia esiste, contrabbandata nella realtà, più vera di quella che è servita allo scrittore da modello: viva quasi solo di notte, in convulsi anni prerivoluzionari, scossa dai ritmi tropicali, fumosa, sensuale, violenta, giornalistica, bohémien, gioiosa e criminale, nella sua deliziosa eternità di parole. Nessuno scrittore moderno di lingua spagnola, con l’eccezione forse dell’inventore di Macondo, è stato capace di creare una mitologia cittadina forte e colorita come quella di quest’autore cubano.

Quando, nel 1964, lessi il manoscritto di Tre tristi tigri (allora il libro si intitolava Vista dell’alba dal Tropico), mi resi subito conto che Guillermo Cabrera Infante era un grandissimo scrittore, e lottai come un leone perché vincesse il Premio Biblioteca Breve, della cui giuria facevo parte. Due giorni dopo la premiazione, sulla mia scrivania della Radio-Televisione Francese, dove mi guadagnavo da vivere, suonò il telefono. «Sono Onelio Jorge Cardoso», disse una voce squillante. «Ti ricordi? Ci siamo conosciuti a Cuba, il mese scorso. Senti, ma perché hanno dato quel premio, a Barcellona, a quell’antipatico di Cabrera Infante?» «Il suo romanzo era il migliore», risposi, cercando di ricordare chi fosse il mio interlocutore, «ma hai ragione. L’ho conosciuto la sera del premio, e, in effetti, mi è sembrato antipaticissimo». Non molto tempo dopo, ricevetti una copia di Così in pace come in guerra con una dedica piuttosto scomoda: «Per Mario, da un tale Onelio Jorge Cardoso». Qualche anno più tardi, quando il caso volle che, esiliato da Cuba ed espulso dalla Spagna, che gli negò l’asilo politico, Guillermo si rifugiasse a Londra, in uno scantinato a Earl’s Court, a pochi passi da casa mia, mi confessò che per colpa mia aveva smesso di fare agli amici lo scherzo della falsa identità.

Ovviamente, non era vero. Per una battuta, una parodia, un gioco di parole, un’acrobazia dell’ingegno, una carambola verbale, Cabrera Infante è sempre stato disposto a farsi tutti i nemici del mondo, a perdere gli amici, e forse anche la vita, perché per lui l’umorismo non è, come per tutti i comuni mortali, un divertissement dello spirito, un semplice intrattenimento che rilassa l’animo, ma un modo compulsivo di sfidare il mondo così com’è e di mandare all’aria le certezze e la razionalità su cui si sostiene, facendo luce sulle infinite possibilità di delirio, sorpresa e assurdità che nasconde, e che, in mano a un abile giocoliere del linguaggio come lui, si possono scambiare per abbaglianti fuochi d’artificio intellettuali o per delicata poesia. L’umorismo è il suo modo di scrivere, ovvero qualcosa di molto serio, che compromette profondamente la sua esistenza. È il suo modo di difendersi dalla vita, il metodo sottile di cui si avvale per disattivare le aggressioni e le frustrazioni che lo minacciano ogni giorno, scomponendole in miraggi retorici, giochi e scherzi. In pochi sospettano che buona parte dei suoi saggi e delle sue cronache più interessanti, come quelli apparsi alla fine degli anni Sessanta su Mundo Nuevo, sia stata scritta quando il mondo sembrava cadergli addosso: ridotto praticamente a paria e confinato a Londra, senza passaporto, senza sapere se la sua richiesta di asilo sarebbe stata accettata dal governo britannico, sopravviveva a malapena con due figlie piccole, grazie all’amore e alla forza della straordinaria Miriam Gómez, ed era attaccato senza tregua da impavidi giornalisti che, prendendosela con lui, si guadagnavano le proprie credenziali da «progressisti». E tuttavia, invece di lamenti o ingiurie, dalla macchina da scrivere di questo scrittore braccato, con i nervi a fior di pelle, uscivano risate, freddure, assurdità geniali e fantastici passi di illusionismo retorico.

È per questo che la sua prosa è una delle creazioni più personali e insolite in lingua spagnola, è una prosa esibizionista, lussuosa, musicale e invadente, che non può raccontare nulla senza raccontare, al contempo, se stessa, frapponendo ogni volta le proprie alterazioni e capriole, le proprie sconcertanti trovate, tra la narrazione e il lettore, in modo che questo, spesso, nauseato, scisso, assorbito dalla frenesia dello spettacolo verbale, si dimentichi del resto, come se la ricchezza della pura forma rendesse il contenuto un mero pretesto, un accidente prescindibile. Discepolo parsimonioso di quei grandi giocolieri inglesi del linguaggio, come Lewis Carroll, Laurence Sterne e James Joyce (di cui ha tradotto, in modo impeccabile, Gente di Dublino), il suo stile è, nonostante tutto, inconfondibilmente suo, di una sensorialità e un’euritmia, che lui, a volte, in preda ad accessi di nostalgia per la terra che si è visto strappare e senza la quale non può vivere né, soprattutto, scrivere, si impegna a definire «cubane». Come se gli stili letterari avessero una nazionalità! Non ce l’hanno. In realtà, è uno stile solo suo, creato a propria immagine e somiglianza, dalle sue fobie e filie – l’orecchio finissimo per la musica e il linguaggio orale, la memoria elefantiaca per i dialoghi dei film che gli sono piaciuti e le conversazioni con cari amici e detestati nemici, la passione per la grande arte, così sudamericana e spagnola, del pettegolezzo e della burla delirante, e soprattutto l’oceanica informazione letteraria, politica, cinematografica e personale che in qualche modo ogni giorno raggiunge la sua tana di Gloucester Road, impastata di libri, riviste e videocassette – e si trova ad anni luce di distanza da quello di altri scrittori cubani come lui: Lezama Lima, Virgilio Piñera o Alejo Carpentier.

Poiché ama molto il cinema, vede tanti film, ha scritto sceneggiature e raccolto vari volumi di saggi e critiche cinematografiche, molti hanno l’impressione che Guillermo Cabrera Infante sia, in realtà, più vicino alla cosiddetta settima arte che alla vecchia letteratura. È un errore comprensibile, ma clamoroso. In realtà, e sebbene l’autore stesso probabilmente non lo voglia, né se ne renda conto, si tratta di uno degli scrittori più letterari che esistano, vale a dire, più schiavizzati dal culto della parola, della frase, dell’espressione linguistica, al punto che questa felice servitù lo ha portato a creare una letteratura fatta essenzialmente di un uso esclusivo ed escludente della parola prima che di qualsiasi altra cosa, una letteratura che, al fine di inebriarsi a tal punto con le parole, al fine di potenziarle, rigirarle, esprimerle e lustrarle e giocarvi, spesso riesce addirittura a dissociarle da ciò che esse rappresentano: le persone, le idee, gli oggetti, le situazioni, i fatti, la realtà vissuta. Qualcosa che, nella nostra letteratura, non accadeva dai gloriosi tempi del Siglo de Oro, il secolo d’oro spagnolo, con i parossismi concettuali di Quevedo o le labirintiche architetture d’immagini di Góngora. Cabrera Infante si è servito del cinema molto più di quanto non l’abbia servito, come Degas faceva con la danza, Cortázar con il jazz, Proust con le marchese e Joanot Martorell con i rituali cavallereschi. Leggere le sue cronache e i commenti ai film – soprattutto quella strabiliante raccolta che è Un oficio del siglo xx (1963) – è leggere un genere nuovo, che ha le vesti di una critica, ma è in realtà molto più artistico ed elaborato di una recensione o di un’analisi, un genere che racchiude sia il racconto sia la poesia, solo che il suo punto di partenza, la materia che gli dà vita, non è l’esperienza vissuta, né quella immaginata dall’autore, ma quella vissuta da quei sogni animati che sono gli eroi dei film, e dai registi, dagli sceneggiatori, dai tecnici e dagli attori che li realizzano con i loro sforzi. Una materia prima che stimola Cabrera Infante, esalta la sua immaginazione e la sua loquacità e lo porta a inventare quei preziosi brani così persuasivi che sembrano ricreare e spiegare il cinema (la vita), quando, in realtà, non sono nient’altro che (nientemeno che) finzioni, letteratura.

Cabrera Infante non è un politico, e sono sicuro che sottoscriverebbe in tutto e per tutto la frase di Borges: «La politica è una delle forme del tedio». La sua opposizione alla dittatura cubana ha motivazioni più morali e civiche che ideologiche – un amore per la libertà piuttosto che un’adesione a una dottrina partitica – ed è per questo che, sebbene durante la sua lunga vita di esiliato siano usciti molte volte dalla sua penna e dalla sua bocca chiari improperi contro il castrismo e i suoi complici, ha sempre conservato la propria indipendenza, senza mai identificarsi con nessuna delle tendenze dell’opposizione democratica cubana, locale o in esilio. Ciononostante, almeno per una ventina d’anni, gran parte della classe intellettuale latinoamericana e spagnola, corrotta o intimidita dalla Rivoluzione Cubana, l’ha considerato un appestato. Atteggiamento che l’ha penalizzato non poco, per non dire disintegrato. Tuttavia, grazie alla sua vocazione, all’ostinazione e, naturalmente, grazie alla meravigliosa compagnia di Miriam, è sopravvissuto alla quarantena e all’assillo da parte dei colleghi, proprio come aveva resistito all’altro esilio, finché, poco a poco, gli avvenimenti politici degli ultimi anni e un generale cambio dei venti e delle realtà ideologiche hanno finalmente fatto sì che il suo talento fosse riconosciuto da un ampio pubblico, restituendogli il diritto di cittadinanza. Il Premio Cervantes che gli è appena stato concesso non è solo un atto di giustizia nei confronti di uno scrittore. È anche un risarcimento a un creatore singolare che, per colpa dell’intolleranza, del fanatismo e della codardia, ha passato più di metà della sua vita a vivere come un fantasma e a scrivere per nessuno, nella più rigida solitudine.

Berlino, dicembre 1997

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