In questi giorni la redazione si è sparpagliata nelle case di tutti noi: ecco allora i dispacci dalle sedi distaccate di SUR, che mai come adesso si sente una CASA editrice. Oggi scrive Marco Cassini, editore.
Se fai l’editore, proprio come credo capiti a chi imprende in qualunque altro settore, il tuo tempo è costantemente diviso in due: la parte che vorresti dedicare al cuore del tuo lavoro (leggere libri, informarti, valutare proposte editoriali, inventare collane, progettare eventi, comunicare idee, conversare con autori, traduttori, agenti, librai, colleghi editori) e quella, preponderante, che ti tocca dedicare a tenere intatta protetta funzionante e in piedi l’impalcatura su cui l’altra parte, il tuo progetto, si regge; senza il quale anzi il lavoro editoriale sarebbe un mero esercizio di stile.
Provo a raccontarvi il modo in cui, nei miei giorni di forzata clausura, la prospettiva di un tempo pressoché infinito da poter interamente dedicare all’appagante correzione di bozze del romanzo di Manuel Puig Il tradimento di Rita Hayworth si sia trasformata essa stessa in un mezzo tradimento – di quelle aspettative che, ormai un quarto di secolo dopo aver imparato questo mestiere, continuo ancora ingenuamente a nutrire. Il mio tête-a-tête con il piccolo Toto, protagonista di questo romanzo ambientato nella provincia argentina degli anni Quaranta, è stato interrotto da telefonate con la banca (si è smagnetizzata una carta di credito aziendale), col socio (che provvedimenti prendere a livello gestionale in seguito all’emergenza), con la responsabile dell’amministrazione (ultimi ritocchi ai dati di bilancio), il consulente del lavoro (modalità di attivazione dello smart working), il distributore (quali lanci di libri rimandare e quali confermare), riunioni via zoom con la redazione per rimodulare il piano editoriale, le scadenze, le uscite, e per farci coraggio a vicenda. Per tirarci su abbiamo deciso di raccontarci in questi brevi diari, di mandarci audioricette sulla chat della redazione, e di fare un gioco, il #fantastrega, mettendo in palio una cena a chi tra noi indovinerà più candidati alla dozzina e alla cinquina e il vincitore finale dello Strega. E l’idea stessa che una sera potremo uscire, andare a cena fuori!, è già un sollucchero.
Toto mi aspetta fiducioso, con la sua fissazione per il cinema e le dive in bianco e nero da colorare coi pastelli, ed è paziente se sa che lo trascuro per lavoro: quel lavoro servirà a portare in giro anche la sua storia. Quello che ho timore di confessargli è che nei frangenti in cui maneggiare le bozze sarebbe complicato – sotto la doccia, o mentre cucino e lavo i piatti – lo tradisco con l’audiolibro del Colibrì di Sandro Veronesi letto da Gifuni. E non riesco, specie quando lo ascolto usare i toni della disperazione e dell’ironia, a non pensare ad accenti simili usati da Fabrizio nelle letture pubbliche che ha fatto del nostro Un certo Lucas di Julio Cortázar: pazza idea.
Lucas, le sue meditazioni ecologiche
In quest’epoca di ritorno sfrenato e turistico alla Natura, in cui i cittadini guardano alla vita di campagna come Rousseau guardava al buon selvaggio, solidarizzo più che mai con: a) Max Jacob, che in risposta a un invito a passare il fine settimana in campagna, disse fra lo stupefatto e l’atterrito: «La campagna, quel posto dove i polli vanno in giro crudi?»; b) il Dr. Johnson, che a metà di un’escursione nel parco di Greenwich espresse con energia la sua preferenza per Fleet Street; c) Baudelaire, che portò l’amore per l’artificiale fino al concetto stesso di paradiso.
Un paesaggio, una passeggiata nel bosco, un tuffo in una cascata, un sentiero fra le rocce, possono appagarci esteticamente solo se ci viene assicurato il ritorno a casa o in albergo, la doccia lustrale, la cena e il vino, le chiacchiere dopo cena, il libro o le carte, l’erotismo che tutto riassume e ricomincia. Diffido degli ammiratori della natura che ogni tanto scendono dall’automobile per contemplare il panorama e fare cinque o sei salti fra le rocce; quanto agli altri, quei boy-scout a vita che hanno l’abitudine di vagabondare sotto enormi zaini e barbe smisurate, offrono reazioni per lo più monosillabiche o esclamative; tutto sembra consistere nel fermarsi di tanto in tanto come stupidi davanti a una collina o a un tramonto che sono le cose più frequenti che si possano immaginare.
Le persone civili mentono quando cadono nel deliquio bucolico; se gli manca lo scotch on the rocks alle sette e mezzo di sera, malediranno l’istante in cui hanno abbandonato casa per andare a soffrire tafani, insolazioni e spine; quanto a quelli più vicini alla natura, sono stupidi quanto lei. Un libro, una commedia, una sonata, non hanno bisogno di ritorno a casa né di doccia; è là che tocchiamo l’apice di noi stessi, dove siamo il massimo che possiamo essere. Ciò che cerca l’intellettuale o l’artista che si rifugia in campagna è tranquillità, lattuga fresca e aria piena di ossigeno; con la natura che lo circonda da ogni lato, lui legge o dipinge o scrive nella luce perfetta di una stanza ben orientata; se esce a fare una passeggiata o si affaccia a guardare gli animali o le nuvole, è perché si è stancato del suo lavoro o del suo ozio. Non si fidi, caro mio, della contemplazione assorta di un tulipano quando chi contempla è un intellettuale. Lì non c’è altro che tulipano
+ distrazione, o tulipano + meditazione (quasi mai sul tulipano). Non troverà mai uno scenario naturale che resista più di cinque minuti a una contemplazione ostinata, mentre nella lettura di Teocrito o di Keats, soprattutto nei passaggi in cui compaiono scenari naturali, sentirà svanire il tempo. Sì, Max Jacob aveva ragione: i polli, cotti.
Julio Cortázar, Un certo Lucas, traduzione di Ilide Carmignani
Se molte delle cose che succedono questi giorni non vediamo l’ora che finiscano, altre avremmo voglia di recuperarle o tenerle con noi. Come un proposito per l’anno nuovo, io vorrei conservare la telefonata «solo per sapere come stai», da quanti anni non ci succedeva?, il bird couching™ di quando osservo dal divano gli uccellini venire timidamente a mangiarsi le briciole che gli lascio sul terrazzino, guardare un film in contemporanea commentandocelo su whatsapp, darsi appuntamento su skype per bere un bicchiere di vino in compagnia o con qualcuno che vuole fumare a metà.
E, piccola gioia solitaria, il tempo per osservare, giorno dopo giorno, ora dopo ora, alcuni progressi altrimenti invisibili intorno a me: il ciuffo d’ananas che avevo interrato ad agosto ha ormai una sua personalità ma le sue foglie aguzze continuano a crescere impercettibilmente. La pianta che avevo comprato per festeggiare la nuova edizione del Colore viola di Alice Walker ha fatto moltissimi peperoncini viola, con cui ho condito più di qualche piatto cucinato in questi giorni casalinghi (come la pasta e patate con la scorza di parmigiano, il mio signature dish). Mesi fa avevo messo in un vasetto un seme di albicocca (recuperato al termine di una delle nostre chiassose lontanissime pause pranzo in redazione, in extremis prima che la virtuosa collega che mangia sempre frutta lo gettasse nella spazzatura), e quando ormai non ci speravo più ecco spuntare delle foglioline giusto in questi giorni, che mi hanno confermato, senza alcun dubbio: «Tutto andrà bene».
Marco
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