Pubblichiamo un profilo di Kate Millett, autrice di uno dei testi fondanti del femminismo contemporaneo, Sexual Politics. L’articolo è apparso originariamente sul New Republic; ringraziamo l’autrice.
di Maggie Doherty
traduzione di Milena Sanfilippo
Una mattina del 1970, in un giorno in cui avrebbe dovuto tenere un discorso alla Emory University, Kate Millett (ex scultrice, fresca di dottorato e adesso, con suo dispiacere, anche portavoce del movimento per l’emancipazione femminile) si alzò dal tavolo della colazione e vomitò su uno dei due tappeti persiani che coprivano il pavimento del suo appartamento sulla Bowery. Suo marito, lo scultore Fumio Yoshimura, la guardò sgomento. Il costoso tappeto era entrato da poco nella vita di Kate: l’aveva acquistato durante una settimana di «gloria libertina» in cui spese tutti gli ottocento dollari guadagnati con la vendita del suo primo libro, Sexual Politics [trad. it. La politica del sesso, Rizzoli, Milano 1971] per comprare due tappeti e una vecchia auto. Ben presto il libro avrebbe fatto guadagnare alla Millett 30.000 dollari, una piccola fortuna all’epoca. Per usare le sue parole, era «vergognosamente, inutilmente ricca». Era anche molto infelice.
Erano stati diciotto mesi molto importanti per colei che amava definirsi una «scultrice di città», una donna abituata a bazzicare nei circoli bohémien. Nel febbraio del 1969, era candidata al dottorato in Inglese alla Columbia University ed era anche un’attivista femminista impegnata, membro dei gruppi Redstockings e New York Radical Feminists. Due mesi prima, era stata sollevata dall’incarico di insegnante alla Barnard a causa del suo coinvolgimento in prima linea nelle proteste studentesche del 1968. Senza alcuna fonte di sostentamento e, per usare le sue parole, «con le spalle al muro», iniziò a lavorare alacremente alla sua tesi.
La Millett decise di ampliare il suo saggio «pungente e arguto», anch’esso intitolato Sexual Politics, che aveva consegnato alla Cornell University l’anno precedente. Nella versione ampliata, avrebbe ripercorso il modo in cui la letteratura rifletteva la rivoluzione e la controrivoluzione sessuale. Come disse più tardi a Time, il progetto «si fece sempre più grande, finii quasi per elaborare una filosofia politica». Presentò la discussione nel 1970; uno dei tutor paragonò la lettura del lavoro alla sensazione di avere «i testicoli in uno schiaccianoci». Riuscì a far pubblicare il libro dalla Doubleday. Con la prima copia del libro tra le mani si sentiva sia nervosa che euforica, preoccupata per come sarebbe stato accolto dalla stampa ufficiale, ma anche per le reazioni delle altre femministe radicali sue colleghe.
Da entrambe le parti, le reazioni andarono oltre qualsiasi previsione della Millett. D’improvviso era desiderata in tutti i campus universitari. Fu invitata a partecipare ai talk show diurni (la madre, originaria del Minnesota, le raccomandò di non andare in tv con i capelli sporchi). Il suo libro appariva nelle vignette dei giornali. Il telefono squillava di continuo. Il suo ritratto, opera della pittrice Alice Neel, andò ad abbellire la copertina di Time: la rivista la incoronò «la Mao Tse-Tung dell’emancipazione femminile». Quando conquistò la copertina, Sexual Politics aveva venduto 15.000 copie ed era alla quarta ristampa.
Contemporaneamente, la Millett era richiesta nei raduni e nei caucus femministi. Il pubblico insisteva affinché rivelasse la sua identità sessuale e dalla sua risposta dipendevano molte cose. All’alba del decennio, il movimento era diviso sulla questione dell’omosessualità. Betty Friedan, che sembrava aver dato il via alla seconda ondata di femminismo con il suo libro del 1963 La mistica della femminilità, si era mostrata ostile nei confronti delle lesbiche: nel 1969 le aveva appellate «una minaccia color lavanda». Le lesbiche riutilizzarono l’insulto della Friedan stampandolo sulle loro t-shirt in occasione della protesta al Secondo Congresso di Unite Women, a New York. Così si presentava il burrascoso movimento femminista che la Millett avrebbe dovuto guidare. Dapprima si dichiarò bisessuale (deludendo la famiglia cattolica), poi lesbica. Questo la avvicinò a nuovi circoli di coordinamento, dove la sua vita sentimentale veniva osservata da vicino.
La Millett non era preparata a questo genere di attenzioni (anni dopo avrebbe parlato della sua lunga battaglia contro la depressione). Appassionata e impulsiva, non aveva l’indole adatta a diventare portavoce di un movimento. «Meglio muoversi con più equilibrio come Friedan, Gloria e le altre», ragionò in seguito. «Tutte politiche di gran lunga migliori. Ma io non sono una politica. Non sono neanche la Kate Millett dell’emancipazione femminile». Nonostante non fosse contraria ai viaggi all’estero – aveva studiato letteratura vittoriana a Oxford e scultura in Giappone – i continui spostamenti si fecero sentire. Non a caso, il suo memoir di quei giorni è intitolato In volo. Le parole che vi ricorrono sono «impazzita», «frastornata» e «sopraffatta».
Sebbene, forse, non sia stata la figura «politica» che la sua epoca richiedeva, l’influenza politica della Millett è innegabile. Quasi cinquant’anni dopo la pubblicazione del libro, le sue argomentazioni sulla politica della cultura riemergono con notevole frequenza. La pubblicazione di una nuova edizione di Sexual Politics – uscita quest’anno per la Columbia University Press – testimonia il rinnovato interesse per la sua opera. In un tempo in cui i mutamenti strutturali promessi dalle femministe negli anni Settanta sembrano difficili da immaginare, figuriamoci da ottenere, la fiducia della Millett nell’importanza della rappresentazione culturale è una conferma. Forse, come suggerito dalla stessa Millett, un nuovo modo di leggere può generare un miglior modo di vivere.
Non sono molte le tesi che iniziano con la lettura accurata di una scena di violenza anale. Ma quella di Kate Millett non era la solita tesi. Nonostante avesse presentato richiesta per un dottorato in Inglese, spaziava ampiamente tra le varie discipline. Due lunghe sezioni sulla storia dell’emancipazione femminile e sull’oppressione sessuale («La rivoluzione sessuale» e «La controrivoluzione») erano affiancate da studi di quello che la Millett definisce il «riflesso letterario» del patriarcato. Attingendo a Weber, Engels e Arendt, tra gli altri, la Millet puntava a mostrare come la relazione tra i sessi fosse caratterizzata da «predominio e subordinazione». Sosteneva che questo rapporto di potere fosse istituzionalizzato, una forma di «colonizzazione interiore», un tipo di oppressione «più resistente di qualsiasi genere di segregazione e più rigido della stratificazione di classe». I bambini venivano fatti familiarizzare con il loro ruolo nel «sistema di caste», acconsentendo così a un sistema di disuguaglianze ancor prima che potessero comprendere il mondo in simili termini. «Anche se può sembrare attenuato», scriveva la Millett, «il dominio sessuale persiste come l’ideologia forse più infestante della nostra cultura e impone la sua fondamentale concezione di potere».
Per dimostrare la tesi dell’esistenza di questo ordine mondiale, sceglieva quattro scrittori da studiare come «agenti culturali», autori che avevano «rispecchiato e influenzato degli atteggiamenti mentali». D.H. Lawrence, Henry Miller e Norman Mailer venivano sviscerati per la loro misoginia e il loro misticismo sessuale, mentre Jean Genet veniva elogiato per aver esplorato la psicologia dell’oppressione sessuale. Lawrence, affermava la Millett, aveva definito l’amore come «dominazione dell’altra persona». Miller era la voce dello «sprezzo e del disgusto», uno scrittore le cui opere erano segnate da «ostilità nevrotica» e «sessismo aggressivo». Mailer, che era ancora una celebrità letteraria nel periodo di attività della Millett, era visto come «prigioniero del culto della virilità» che dipinge «la mascolinità come un capitale spirituale incerto, costantemente in cerca di nuove energie e minacciato da tutte le parti». La Millett esaminava attentamente la scena di violenza anale del romanzo di Mailer Un sogno americano del 1965 e la descriveva come un «grido di richiamo per una politica sessuale in cui la diplomazia ha fallito e la guerra è l’ultima risorsa politica di una casta dominante che vede la sua posizione in pericolo di vita».
Esaminando la letteratura in questo modo, insieme alla storia politica e nei termini del suo contenuto politico, la Millett mirava a dare un contributo alla sua disciplina e, allo stesso tempo, portare un cambiamento nel cosiddetto mondo reale. Nel 1970, le donne guadagnavano poco più di cinquanta centesimi per ogni dollaro intascato da un uomo e la loro presenza nelle professioni era solo al 9%. Harvard aveva appena due professoresse di ruolo. Il mondo accademico, per non parlare della società che studiava, aveva urgente bisogno di cambiamento. «Sono partita basandomi sul presupposto che c’è spazio per una critica che prenda in considerazione il più ampio contesto culturale in cui la letteratura viene concepita e prodotta», scriveva nella prefazione. «La critica che nasce dalla storia letteraria ha una portata troppo limitata per farlo. La critica che parte da considerazioni estetiche, il “New Criticism”, non ha mai ambito a tale obiettivo». Sexual Politics è polemico, ma anche accademico. È fitto, ricco di note a piè di pagina. Il suo stile potrebbe essere correttamente definito laborioso.
C’è un vantaggio in questo tipo di approccio: la Millett poteva avanzare idee iconoclaste con rigore accademico. Attingeva dall’antropologia e dalla storia giuridica per denunciare l’istituzione del matrimonio e della famiglia, da lei definita «un’unità patriarcale all’interno di un sistema patriarcale». Invocava una rivoluzione sessuale che descriveva come «la fine dei tabù e delle inibizioni sessuali tradizionali, in particolare di quelli che minacciano il matrimonio monogamo patriarcale: omosessualità, “illegittimità”, sessualità adolescenziale, pre ed extra coniugale».
Queste idee erano radicali, ma erano anche in linea con il momento storico. Nel 1970 furono pubblicati un mucchio di libri femministi, inclusi La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone e L’eunuco femmina di Germaine Greer. Queste donne erano amiche e collaboratrici di Kate Millett. Come lei, sostenevano l’abolizione della monogamia, del matrimonio, della famiglia nucleare. La La Firestone descrisse il «sistema di classi sessuali» in termini molto simili a quelli della Millett. Definiva la gravidanza «barbarica», elogiava la fecondazione artificiale e immaginava un’utopia in cui i bambini, come Eros, potessero muoversi liberamente per il mondo. Germaine Greer, australiana con dottorato a Cambridge, esortava le donne ad assaggiare il proprio sangue mestruale, dissuadendole dal mantenere relazioni monogame. «Le donne», asseriva, «non hanno idea di quanto gli uomini le odino». Parole simili non sarebbero state fuori posto nel libro della Millett.
Oggi appare straordinaria la serietà con cui la cultura dominante si avvicinò a queste idee rivoluzionarie, senza per questo averle approvate. Queste donne furono largamente recensite, spesso positivamente. Le vendite dei libri furono impressionanti: La dialettica dei sessi fu un bestseller e la prima tiratura dell’Eunuco femmina andò esaurita nel giro di qualche mese. Erano invitate a tenere discorsi proprio insieme agli uomini che avevano sfidato: la Greer affrontò Mailer in un «Dialogo sulla liberazione delle donne» nel 1971. Nel numero di agosto, con la Millett in copertina, Time pubblicò cinque articoli sugli obiettivi e le pratiche organizzative del femminismo radicale.
Non tutti erano pronti a prendere sul serio queste autrici. In una recensione cavillosa e paternalistica per Harper’s, il critico Irving Howe definì la Millett una «mente della classe media», una «ideologa», un «uomo camuffato da donna». La liquidò come «una ragazzina che non sa nulla della vita» (la Millett aveva trentaquattro anni). La sua applicazione della teoria marxista alle relazioni fra i sessi risultò particolarmente irritante a Howe, che colse l’occasione per ricordare alla Millet e alle sue colleghe che la vera disuguaglianza assumeva la forma dell’oppressione di classe. «Le donne dell’Upper East Side di Manhattan sono semplicemente delle “schiave” come lo sono le mogli dei raccoglitori d’uva in California?», domandava. «E se così fosse, queste “schiave” sono possedute dalla stessa tipologia di padrone?»
Tralasciando il tono paternalistico e sessista, Howe non aveva tutti i torti. Il problema era che, trattando il genere sessuale come una categoria a sé stante, si tendeva a oscurare la categoria economica, e insieme anche la razza e l’identità sessuale. La Millett e le altre femministe radicali, sue compagne, avevano spesso ignorato alcune differenze determinanti tra donne – bianche e nere, benestanti e proletarie – appellandosi alla «sorellanza».
Nei primi anni Settanta, qualcuno già metteva in discussione l’ideale di sorellanza. The Black Woman: An Anthology uscì nello stesso anno di Sexual Politics. Curata da Toni Cade Bambara, l’antologia presentava le scrittrici che sarebbero diventate centrali per il femminismo nero: Nikki Giovanni, Audre Lorde, Alice Walker e la stessa Bambara. Questa raccolta di poesie, racconti e saggi celebra la vita delle donne di colore, mentre analizza prescrizioni e proscrizioni associate sia al Black Power che al movimento di emancipazione femminile. Nell’introduzione la Bambara chiedeva: «Quanto contano per le donne nere le verità, le esperienze, le scoperte delle donne bianche? Alla fine le donne sono soltanto donne?» Rispondendo alla sua stessa domanda, rifletteva:
Non so se le nostre priorità siano le stesse, se le nostre preoccupazioni, i nostri metodi siano uguali o perfino somiglianti abbastanza da consentirci di fare affidamento su questo nuova schiera di esperti (bianche, donne).
Per la Bambara e le autrici antologizzate, la razza e il sesso erano due categorie distinte ma sovrapposte che si univano a formare un’unica, rafforzata forma di oppressione. La scrittrice Frances Beal la definì «duplice condanna». Quasi vent’anni dopo la pubblicazione di The Black Woman, Kimberlé Crenshaw mise a punto la «teoria dell’intersezionalità» come un modo per analizzare le divergenti forme di discriminazione che i membri dei gruppi oppressi possono subire. La diffusione capillare del concetto di intersezione – adesso invocato in contesti che spaziano dai programmi dei corsi universitari ai tweet di Hillary Clinton – ci dà la misura della nostra distanza dal periodo di Kate Millett.
Se oggi cercate Kate Millett su internet, troverete diversi articoli che evidenziano la sua apparente obsolescenza e tentano di ripristinarne la fama. Il primo è scritto dalla stessa Millett. Il suo personal essay del 1998 per il Guardian, «The Feminist Time Forgot» [«La femminista dimenticata dal tempo»], descriveva le sue difficoltà nel trovare un lavoro. Con le finanze in declino e i libri fuori catalogo, Kate avanzava il timore che la sua generazione di femministe non fosse riuscita a «creare una comunità indispensabile per sostenersi a vicenda» e che ora ci si trovasse di fronte a una «lacuna tra la visione di una generazione e quella della successiva».
L’anno seguente, quando Sexual Politics era ancora fuori catalogo, una giornalista setacciò la Bay Area per trovare una copia. «Come mai la grande Kate Millett è quasi scomparsa dalla coscienza collettiva?», chiedeva Leslie Crawford. Saltando al 2013, anno in cui la Millett è stata inserita nel National Woman’s Hall of Fame, v’imbatterete in Katie Ryder la quale sostiene che «Kate Millett è ancora importante». Nel 2000 la University of Illinois Press ha ristampato gli otto libri della Millett. La nuova edizione di Sexual Politics della Columbia University Press, uscita all’inizio di quest’anno, contiene un’introduzione della giurista Catharine MacKinnon e una postfazione di Rebecca Mead, redattrice del New Yorker. Sostenendo che «molte cose sono rimaste immutate» dal 1970, la Mead ci ricorda che i cambiamenti strutturali e legislativi sono rimasti indietro rispetto ai mutamenti culturali. «In qualche modo», scrive, «sembra che abbiamo ottenuto il cambiamento culturale promesso dal femminismo senza la contestuale trasformazione politica».
Tuttavia, i dibattiti culturali odierni incombono: in tal senso, il ritorno di Sexual Politics è tempestivo. Solo negli ultimi sei mesi abbiamo assistito ad accese dispute letterarie che confermano l’eredità di Kate Millett. Basti pensare alla discussione riguardante Jonathan Franzen, uno scrittore che oggi attira sdegno sia per il contenuto antifemminista dei suoi romanzi, che per i commenti sessisti durante le interviste. Oppure si prenda in considerazione il botta e risposta dello scorso anno tra Rebecca Solnit e una rivista maschile. Quando la Solnit ha parodiato la lista di Esquire, «Gli 80 libri che ogni uomo dovrebbe leggere», ha sottolineato sia l’assenza di autrici che la discutibile rappresentazione dei personaggi femminili. Molti di questi libri, ha affermato, erano in sostanza «istruzioni sulle donne come non-persone». Alla replica dei lettori uomini la Solnit ha risposto, citando Kate Millett, che i libri influenzano il punto di vista maschile sulle donne e sul sesso: alcuni lasciano intendere che gli uomini possano esercitare il loro diritto su entrambi, a loro piacimento. Ancora una volta, il confine tra letteratura e vita appare molto sottile.
Eppure, oggi è difficile immaginare un qualunque lavoro di erudizione letteraria – figurarsi una tesi di dottorato – che permetta al suo autore di finire sulla copertina di Time. Sebbene il mondo accademico contemporaneo vanti un certo numero di intellettuali pubblici, la maggior parte dei suoi studiosi continua a scrivere per un pubblico di specialisti (dopotutto, sono assunti per fare proprio questo). La Millett, al contrario, scriveva negli anni del declino di quella che Louis Menand chiamò l’età della «critica eroica», un tempo in cui la posta in gioco del dibattito letterario sembrava alta. I libri potevano rivelare informazioni sull’orientamento politico e perfino sulla morale della persona che li sceglieva. Se volevi cambiare il modo in cui le persone vivevano e amavano, di sicuro intendevi cambiare il modo in cui leggevano.
Questa fede nella letteratura – e in particolare, la fede nello studio accademico della letteratura – è forse l’aspetto che più caratterizza l’opera di Kate Millett come prodotto di un’altra epoca. Colpisce il fatto che negli anni successivi al suo primo libro, quando dedicava il suo tempo alla causa della «liberazione degli omosessuali», l’autrice si rese conto che la cosa migliore che potesse fare non era parlare, organizzare, insegnare ma scrivere un libro di critica letteraria, un «Sexual Politics su gay ed etero, un approccio accademico e oggettivo più convincente agli occhi delle autorità». Kate progettò il lavoro durante una notte trascorsa nella sua colonia artistica femminista di Poughkeepsie: «In primo luogo stabilire una teoria sulle due culture, la nostra società segregata. Poi rinvenire nella letteratura omosessuale la verità emotiva dell’esperienza così com’è stata vissuta». Il libro non vide mai la luce, ma il sogno della sua realizzazione ci parla di cosa significasse essere una studiosa di letteratura e una femminista radicale nei primi anni Settanta.
«In futuro gli storici diranno che ho sbagliato tutto?», si chiede la Millett nella sua autobiografia In volo. La risposta dev’essere no. Sexual Politics avrà le sue mancanze intellettuali e politiche, come ogni testo che documenta un modo di pensare proprio del passato. Ma l’opera di Kate Millett ha mostrato il modo in cui azione politica ed espressione culturale si compenetrano. Entrambi gli ambiti sono necessari per approdare a quella «coscienza alterata» che, secondo la Millet, avrebbe segnato la rivoluzione sessuale e dato origine a «un mondo che possiamo generare dal deserto che abitiamo». Non siamo ancora usciti da quel deserto, in qualche modo siamo più smarriti che mai. Ma la cultura, ci ha insegnato Kate Millett, può aiutarci a trovare la nostra strada verso una terra migliore.
© Maggie Doherty, 2016. Tutti i diritti riservati.
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