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I miei viaggi a Tehuantepec. Intervista a Manuel Álvarez Bravo 2/2

redazione Interviste, SUR

Pubblichiamo la seconda parte del testo del fotografo messicano Manuel Álvarez Bravo. Qui la prima parte.

L’intervista è a cura dello studioso cileno Luis Roberto Vera e compare nel suo libro «Umbral y Horizonte. Ensayos sobre artes plásticas II (1982-1984)».

traduzione di Amaranta Sbardella

Il mio primo viaggio a Tehuantepec fu di mero piacere, per scoprire la località, nei primi anni Trenta. Il fatto dello sciopero sarà stato attorno al 1934.

Con l’aeroplano si arrivava fino a San Jerónimo Ixtepec, luogo di vento e di gazze: ancora mi ricordo quegli uccelli che schiamazzavano tutto il tempo e i numerosissimi mercatini dove si vendevano frutta, fiori e iguane.

Il treno da Coatzacoalcos si fermava a Mogoñé, dove si coltivava molta frutta. (C’erano degli ananas piccoli, costavano tre, cinque centesimi, provi a immaginare, s’era negli anni Trenta, cinque centesimi per un ananas!)

Juchitán mi piacque meno di Tehuantepec. C’era sì un lungo mercato ma gli mancava quella vitalità e vivacità di Tehuantepec. Qui le persone si sedevano a vendere attorno a un albero, un albero corallo, se non ricordo male, e non in un giorno speciale di mercato, bensì tutti giorni: portavano i loro prodotti, compravano i frutti, le iguane. Lì le tortilla hanno dei buchi, uno andava al mercato e le portava con sé. Sì, mi piaceva molto. Le donne si accomodavano così, in questa specie di piccoli mercati improvvisati. Ma una di loro era veramente particolare, girava la voce che il curato del posto avesse abusato di lei e da allora fosse diventata un po’ matta. Aveva un non so che di mistico. Non gliel’hanno raccontato? Ah, era veramente curioso, sarebbe interessante fare delle ricerche, perché è un vero e proprio filone del romanzo ispanoamericano. Quella donna era davvero intrigante. Aveva una casetta piccola e angusta circondata dai rovi, quasi una stamberga, dove non c’era spazio neanche ad immaginarselo, forse pure per gli animali che aveva. Si recava al mercato e si metteva a parlare di cose mistiche. Di lei ho una fotografia, un po’ fuori fuoco, perché ero tra la folla e scattai in pochissimo tempo, volevo evitare che se ne accorgesse. Guardi la posizione della mano, in una postura mistica. Parlava di queste cose e le donne, le venditrici di fiori – mi sembrava ci fossero quasi solo fiori, fiori e banane –, le ridevano dietro ma mai in faccia, e le regalavano della frutta.

Sempre a Tehuantepec, nel quartiere di San Blas, quartiere zapoteco incredibilmente bello, scattai una foto a una ragazza che sembrava davvero un’antica zapoteca. Le altre la prendevano in giro perché la stavo fotografando. Anche quello era un mercatino, e, quando la motteggiarono, lei assunse un’aria di sfida e le affrontò.

Ah, cavolo, dimenticavo! Una cosa interessantissima! Di mattina a Salina Cruz passava il treno, non ricordo l’ora esatta ma non molto presto. Visto che, di tutto il distretto, il treno si fermava lì, io andavo spesso alla stazione con un sarto; anche lui era fotografo e aveva a Salina Cruz una piccola casa e lo studio. Faceva alle tehuane foto molto convenzionali ma comunque notevoli, forse si trovano ancora sue cartoline. Quando non passava il treno, le tehuane camminavano sui binari ed erano molto belle da vedere. Noi andavamo lì per quello, e quando poi arrivava il treno, era tutto un formicolare di gente che scendeva alla stazione con la merce per fare colazione. Eccezionale. Vendevano un atole caldo che veniva versato in tazze comuni e dozzinali. L’atole faceva una schiuma di cioccolato. Pensi che cosa sofisticata, non ha idea di quello che era! Poi vendevano, e mi sa che solo a Oaxaca lo fanno ancora, dei bastoncini lunghi così, ne posso cercare uno per farglielo vedere, se vuole. Chieda di questi bastoncini, li chiamano «alcahuetes», noccioline, si usavano a mo’ di cucchiai perché l’atole è piuttosto denso. L’atole, che prelibatezza.

Che altro dire di Tehuantepec? Be’, sì, il fiume. La prima volta che ci andai era quasi secco. Ci tornai con Diego Rivera, tempo dopo, e il fiume si era ingrossato ma era meno bello. Molte persone, donne, bambini, ci facevano il bagno. Andavo lì per scattare foto alle donne; una volta si misero a protestare, e allora un bambino disse: «Ma lascialo fare! Che hai i brufoli?», me lo ricordo benissimo… Sì, le cose mi tornano in mente all’improvviso, così…

In quel periodo a Tehuantepec non scattai altre foto di nudo. Poi il Presidente municipale vietò alle donne di fare il bagno nel fiume svestite. Quando ci tornai con Diego Rivera, lasciavano solo il busto all’aria ed era divertente vedere le gonne fluttuare nell’acqua.

Un giorno, mentre uscivamo con Diego dopo aver fatto colazione, ci fermammo sulla porta e lui mi disse: «Manuel, pensi che la fotografia è più veloce del disegno?» «Credo di sì, Diego» «Guarda, sta venendo una tehuana. Hai con te la macchina?» «Certo!» «Allora vediamo…» Tira fuori la macchina e il resto, aprila, imposta il diaframma, allunga il soffietto, prepara e scatta, Diego aveva già bell’e fatto il suo disegno.

A San Mateo del Mar si trova la laguna di Xadani, dove vidi un pescatore. Calzoncini tirati su, acqua al ginocchio, era un uomo grosso e forte; di punto in bianco infilava la mano nella rete e afferrava un pesce, gli staccava la testa e la coda per mangiarselo così, completamente crudo. Risputava testa e coda in acqua, forse questo attirava altri pesci, non lo so, fatto sta che se lo mangiava crudo. Xadani, questo era Xadani. Che bel paesaggio!

Ora mi stavo ricordando di un altro aneddoto. Ogni volta che mi recavo lì, andavo a trovare una ragazza molto graziosa, un vero incanto. In un’occasione, mentre parlavamo fitto fitto dietro il cortile – a molte non piaceva farsi vedere mentre s’intrattenevano con uno “straniero”, va’ a sapere perché – le raccontai del Messico, lei era molto interessata al Messico e spalancava gli occhi quando le descrivevo le bambole smisurate dietro i grandissimi cristalli delle vetrine. E alcune bambole grandi, i manichini, portavano addosso i vestiti in vendita. «Allora, cosa vuoi che ti porti la prossima volta?» «Un paio di scarpe.»

Per quel che mi ricordo in quel periodo, negli anni Trenta, ancora nessuno indossava le scarpe, né le guarache, i sandali in pelle. Poi partii per lo Yucatán, trascorse del tempo, e un giorno, ricordandomi di lei, comprai dei sandali molto bellini – ora proprio non so che nome hanno nello Yucatán –, erano di quei sandali che si facevano all’epoca, con i cordini di vernice rosa o azzurro. Glieli portai ma, al mio arrivo, – pensi un po’ che coincidenza – un telegrafista se l’era già portata in Messico. Aveva proprio la fissa del Messico, no?

Però sì, cavolo, che periodo.

Mi torna in mente un altro posto, no di Tehuantepec ma di Oaxaca, un posto piuttosto attraente: Yalalag. Ah! Magari fosse rimasto come era prima, in una sola parola, straordinario.

Ci andai nei primi anni Trenta con un’amica di Diego Rivera e Tina Modotti, Frances Toor, o meglio, Pancha Torres, come la chiamava Diego. La Toor dirigeva una rivista, Mexican Folkways, e doveva viaggiare fino a Yalalag perché conduceva alcune ricerche sui festeggiamenti della Settimana Santa nel paese. All’epoca un viaggio del genere era emozionante: prima salimmo in un posto della sierra – credo si chiamasse Santo Domingo – dove dormimmo con due sentinelle indigene armate di fucili. Passammo la notte all’addiaccio e non chiudemmo occhio, chissà se per la tensione del viaggio o per il freddo; bevemmo tutto il tempo caffè zuccherato col piloncillo, buonissimo, da una caffetteria che chiamavano pato. Fu piacevole perché vicino a noi le sentinelle continuarono a canticchiare per tutta la notte.

Il giorno dopo montammo a cavallo. Oggi ci dovrebbe essere una strada ma prima si andava a cavallo o a dorso di mulo. E in alcune pietraie vulcaniche, troppo ostiche, dovevamo procedere a piedi tirando gli animali. In più tutti quei posti erano poverissimi, da far paura, e, non essendo equipaggiati, ogni volta che arrivavamo da qualche parte pretendevamo di mangiare qualcosa. A volte ci facevamo bastare delle piccole tortilla dure che riscaldavamo con un po’ di fagioli. Da altre parti, invece, non trovavamo neanche quelle. A San Pablo Cajonos entrammo in una capanna dove una donna stava macinando, ma ne aveva solo per suo marito, cosicché ci dovemmo accontentare di lime e mescal. Con lo stomaco vuoto andammo avanti fino a un’altra località dove io, che all’epoca fumavo molto, riuscii almeno a comprare delle sigarette, anche se vecchissime. Però, una volta arrivati a Yalalag, era il paradiso. Mi bevvi quattro o cinque tazze di cioccolata.

La mattina presto fummo svegliati da un rullare di tamburi; lì non s’ascoltava altro perché filavano la lana e quello era il suono, stranissimo ma piacevole, che facevano.

Il venerdì, poi, nella chiesa c’era la cerimonia delle Tenebre e accendevano una quantità incredibile di candele. Dopo arrivavano i musicisti con gli strumenti, alcuni dei quali erano molto lunghi, di legno, con un suono profondo, come alcuni strumenti orientali; tutti, però, suonavano le stesse note e cominciavano in maniera alternata dall’inizio, a canone, in modo tale che quando uno era a metà cominciava l’altro. Un’emozione straordinaria perché sembrava una fuga e, visto che erano accese solo le candele, non si vedeva nulla ad eccezione dei volti bianchi dei fedeli. Ma c’è un’altra cosa interessantissima: non so perché mi venne un sospetto e andai a controllare senza dare nell’occhio. Sul leggio avevano messo un libro, troppo piccolo perché fosse una partitura, e allora guardai bene, non era possibile, un vero libro, e in latino! Ci pensi! La gente non cantava, però quelle preghiere erano in latino e quindi senza dubbio i parroci gliele avevano insegnate. Perciò, man mano che scorrevano le pagine, non leggevano la musica ma se la ricordavano a memoria con l’ordine delle preghiere. Roba da non credere!

Be’, sì, cavolo, che tempi, quelli.

Cuadrante de San Francisco, Coyoacán, Città del Messico, sabato 26 giugno 1982.

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