Claire Vaye Watkins è autrice della raccolta di racconti Battleborn (uscita nel 2013 e vincitrice dello Story Prize, del Dylan Thomas Prize, del Frank O’Connor Award e dello Young Lions Award) e del romanzo Deserto americano, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2015. Nel 2012 era stata nominata dalla National Book Award Foundation come una dei 5 migliori scrittori statunitensi sotto i 35 anni.
Questo saggio è comparso originariamente nel novembre 2015 sul blog della rivista e casa editrice Tin House, dando vita a un infuocato dibattito online; è stato successivamente segnalato da Flavorwire e Longreads fra i migliori esempi di critica letteraria pubblicati online nel 2015. Viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice.
di Claire Vaye Watkins
traduzione di Michela Piattelli
Qualche nota introduttiva
Fino a poco tempo fa ho insegnato in un’università privata specializzata in materie umanistiche in Pennsylvania, a Lewisburg, una cittadina situata nell’esatta zona di sovrapposizione fra tre insiemi. Disegnateli mentalmente: chiamate il cerchio n. 1 zona degli Amish, il cerchio n. 2 zona del carbone, il cerchio n. 3 zona delle trivelle.
I paesi vicino Lewisburg hanno nomi come Shamokin Dam, Frackville, Minersville e Coal Township. E forse avrete sentito nominare un posto che si chiama Centralia, una città fantasma dei giorni nostri per via di un giacimento di carbone che arde sottoterra dal 1962, eruttando fumo e monossido di carbonio, costringendo le persone ad abbandonare le loro case e avvelenando quelle che si rifiutano di farlo. A proposito, si prevede che quel giacimento continui ad ardere per altri 250 anni. Perciò se non avete mai fatto un giro a Centralia, avete ancora tempo. Centralia dista circa una sessantina di chilometri dalla mia vecchia casa, e la gente della Buffalo Valley, il posto in cui abitavo, vi faceva spesso delle gite di un giorno. Quindi in pratica l’unica cosa che dovete sapere di questa particolare zona della Pennsylvania centrale è che a Centralia – un paesino ribollente di esalazioni nocive – ci andavamo in vacanza.
La Buffalo Valley puzza di merda di maiale, allevamenti industriali di cani o rifiuti bruciati, a seconda della direzione in cui soffia il vento. Non è raro, quando si fa un’escursione, imbattersi in un campo nero di catrame dove hanno da poco raso al suolo una foresta secolare e il terreno è ancora impregnato di gasolio. Descritto così sembra tutto molto squallido, e lo era, persino per me, una persona con una grande resistenza allo squallore e con un debole per i paesaggi violentati. Vivere lì, ora che sono scappata lo posso ammettere, ha corroso una parte della mia anima. Arrivare in macchina al paese vicino per una visita di controllo dalla ginecologa era come attraversare A sangue freddo di Capote. Nel periodo in cui ho vissuto nella Pennsylvania centrale l’aggettivo che usavo di più per descrivere quel posto agli amici lontani era «mortifero».
E ciononostante la cittadina di Lewisburg, dove si trova questa costosa università privata, è in realtà piuttosto gradevole. Ci sono leziose villette vittoriane e signorili case di mattoni in stile coloniale, tutte torrette, vetrate colorate e verande con letti. Market Street è costeggiata da parchi e bed and breakfast e negozietti d’altri tempi: una calzoleria, un macellaio, un riparatore di aspirapolveri, una cioccolateria, una libreria indipendente, un cinema art déco con una sola sala dove mettono vero burro fuso sui popcorn. La piazza della città vanta un albero di Natale d’inverno, spaventapasseri d’autunno e concerti e teatro all’aperto d’estate. Ogni strada è illuminata da lampioni sferici vecchio stile, l’orgoglioso simbolo della città. È un posto, come ribadiscono spesso i residenti, dimenticato dal tempo.
Per farla breve, nella zona del carbone, degli Amish e delle trivelle Lewisburg non somiglia quasi per nulla ai suoi vicini, che dal tempo sono stati ricordati tutti fin troppo bene. Ovviamente, dipende dall’università: un anno passato in quel college, che si trova a circa tre ore da New York, costa 62.368 dollari. In generale il campus può essere ben descritto dalle parole che usa Frederick Busch per l’ambientazione del suo meraviglioso racconto «Ralph the Duck», un «campeggio del Nordest per gente viziata». I soldi che provengono dalla scuola, dal corpo docente, dagli studenti e dai loro genitori sostengono l’economia locale. Semplice.
Ma non ho capito il vero rapporto tra la cittadina e l’università finché una delle mie allieve, di Youngstown, nell’Ohio, non ha raccontato quanto piacesse a sua madre venire a Lewisburg, come a ogni visita dicesse: «Guarda che amore quella cioccolateria, guarda come brillano quei lampioni. La adoro Lewisburg!» La mia allieva, più acuta di quanto consideriamo di solito le nuove generazioni, ha detto alla madre: «Per forza ti piace. È fatta apposta per te».
Quello che intendeva, credo, è che Lewisburg, Pennsylvania, è una cittadina di una regione mineraria allo stesso modo in cui la città Disney di Celebration è un sobborgo di Orlando. Lewisburg, come altre innumerevoli cosiddette città universitarie, è una Bedford Falls in loco parentis. È un parco a tema in stile topolino, ma di campagna, per persone giovani che vogliono l’illusione della distanza, che vogliono la sensazione di partire per un viaggio, con tutta la scoperta di sé che questo comporta. È fatta apposta per loro, ed è fatta apposta per i loro genitori, che sopporteranno questa distanza e questa imminente e stravagante scoperta di sé, a patto che si accompagni con la pittoresca atmosfera campagnola, con il controllo di una città aziendale, e con tutta la sicurezza che 62.368 dollari possono acquistare.
Tutto questo per dire che negli ultimi quattro anni ho vissuto in un luogo tutto votato alla compiacenza.
Stephen Elliott arriva in città
Passiamo ora a uno dei miei sottogeneri preferiti di gossip letterario: gli scrittori che si comportano male. Quale convegno di scrittori sarebbe completo senza?
È l’autunno del 2009 e io sono all’ultimo dei tre anni del mio corso di laurea specialistica. Il corso ospita un reading dello scrittore Stephen Elliott, un personaggio da circo Barnum che, oltre a essere autore di romanzi e memoir, dirige la rivista letteraria online The Rumpus. L’università non gli fornisce un alloggio, quindi il responsabile del corso sparge la voce affinché, dietro sua richiesta, qualcuno lo ospiti per la notte. Mi offro volontaria. Kyle Minor, un altro scrittore nonché ex allievo del corso, va a prendere Stephen all’aeroporto. Io, Stephen e Kyle andiamo a pranzo e parliamo di Denis Johnson, dei nostri lavori in corso e dei nostri agenti. Sei mesi prima mi sono aggiudicata un’agente fenomenale, e ancora impazzisco per il fatto che, cercandola su Google, compaiono nomi come Junot Díaz e Jonathan Safran Foer. Ho un racconto che sta per uscire su Granta, una raccolta in dirittura d’arrivo, e sono impaziente di parlare di tutto questo con scrittori che ci sono passati. Dopo pranzo, Stephen fa un pisolino a casa mia mentre io vado a fare lezione. Ritorno e lo accompagno al suo reading, poi a un bar con gli altri studenti, poi a prendere delle ciambelle mentre torniamo a casa. Stephen flirta con me per tutta la serata e una volta tornati a casa prova, con quella che definirò benevolmente una notevole ostinazione, a convincermi a farlo dormire nel mio letto invece che sul materasso che gli ho gonfiato nell’altra stanza. Declino più volte la sua proposta prima che si plachi, cosa che avviene solo dopo avergli detto che mi sto vedendo con qualcuno. Dorme sul materasso gonfiabile, e la mattina facciamo colazione e lo accompagno in macchina all’aeroporto.
Qualche ora dopo, un’amica mi inoltra la newsletter di Daily Rumpus che Stephen ha scritto in aeroporto e ha inviato ai suoi iscritti, presumibilmente qualche migliaio di lettori, scrittori e fan del suo sito. L’oggetto è «Ascoltato per caso a Columbus». Della visita Stephen ha scritto:
Mi sono davvero divertito, anche se non saprei dire esattamente perché. Forse sarà stato il tragitto dall’aeroporto con Kyle Miner [sic], che vive la tipica vita da neolaureato con un libro di racconti all’attivo e un paio di bambini, che insegna su a Toledo, sta completando quello che sembra un fantastico romanzo e sta considerando l’idea di iscriversi a Legge. O forse sarà stata Claire, la studentessa che mi ha ospitato. O la passeggiata per andare a comprare le ciambelle il mercoledì sera alle 22.30, che in quella città sembra un’ora tarda, soprattutto sulla via principale.
Ho provato a infilarmi nel letto di Claire. Era un letto grande e comodo. Lei ha detto di no, come lo avrebbe spiegato al ragazzo con cui stava cominciando a uscire? Le ho detto che non c’era nulla da spiegargli, non sarebbe successo nulla. È come dormire con il tuo amico gay. Ma lei non ne era così sicura. Aveva bevuto e io non bevo. Ho dormito sul materasso gonfiabile nell’altra stanza.
Ora, mi rendo conto di non essere unica e speciale, che ogni donna che scrive ha una borsa piena di storie come questa. Esiste probabilmente tutto un brulicante sotto-sottogenere chiamato «Stephen Elliott arriva in città». Vi racconto la mia storia qui in parte perché è stata la primissima volta in cui mi sono scontrata in prima persona con un comportamento apertamente misogino da parte di uno scrittore maschio, e quindi forse è stata la più istruttiva. Ho imparato parecchio da quella newsletter di Daily Rumpus (affermazione che nessuno ha mai fatto prima d’ora). Voglio sottolineare che non sto presentando Stephen Elliott come un farabutto, ma come un personaggio del tutto emblematico. Voglio mostrarvi come, attraverso l’incontenibile flusso di coscienza del suo monologo spedito per e-mail a qualche migliaio di lettori, mi abbia fatto fare un giro su una barca col fondo di vetro nella mente di un certo tipo di scrittore maschio.
Ho scorso lo schermo su e giù, leggendo e rileggendo, e da quella barca col fondo di vetro ho visto un mondo dove Kyle Minor era Kyle Minor, uno scrittore «con un libro di racconti all’attivo e un paio di bambini, che insegna su a Toledo, sta completando quello che sembra un fantastico romanzo e sta considerando l’idea di iscriversi a Legge». Mentre io ero Claire, senza cognome, «la studentessa», proprietaria di un letto grande e comodo. Fino a quando la mia amica non mi ha inoltrato quell’e-mail, ero convinta che, siccome scrivevo, ero una scrittrice, punto. Se scrivevo male ero una cattiva scrittrice, se scrivevo bene ero una brava scrittrice. Semplice. Ero, mi rendo conto, altrettanto ambiziosa di Kyle Minor e Stephen Elliott. Amavo i libri quanto li amavano Kyle e Stephen, leggevo quanto loro, e lavoravo con altrettanto impegno per mettere le parole giuste al posto giusto. Ma adesso una mailing list di Google Groups mi metteva davanti all’evidenza del fatto che, per Stephen, Kyle era uno scrittore e io una ragazza ubriaca.
Ma andassero affanculo, giusto? Cosa diceva Tina Fey a proposito dei sessisti sul posto di lavoro? Passarci sopra, sotto e attraverso. Ma il problema dell’usare una canzoncina di Sesame Street nel rispondere al sessismo è che se leggete quell’e-mail come ho letto io quell’e-mail, come mi stavano insegnando a leggere – vale a dire, con attenzione e curiosità, più e più volte – vi scorgerete qualcosa di più della storia che si è raccontato Stephen su di me come scrittrice o, in questo caso, come non-scrittrice. Io vi ho scorto, sotto forma di frasi e paragrafi – la mia area di competenza – come ci siano volute solo poche righe per passare dalla mancanza di considerazione professionale al sentirsi in diritto di fare sesso al trattarmi come un oggetto, fino al trasformarmi in una demente.
Ora, non so voi, ma io tendo a credere che il sessismo esercitato in ambito professionale attraverso l’infantilizzazione artistica sia una rottura, una cosa frustrante, scoraggiante, ma distinta e separata da quelle violente espressioni di misoginia che si è largamente concordi nel definire orribili: la violenza domestica, la schiavitù sessuale, lo stupro. Stephen Elliott non mi ha stuprata, non ha provato a stuprarmi. Non sto neanche lontanamente insinuando che lo abbia fatto. Sto dicendo che una negazione sessista, il rifiuto di riconoscere una scrittrice femmina come scrittrice, come una propria simile, come una persona, va di pari passo con il sentirsi in diritto di farci sesso. No, più che andare di pari passo, ne è praticamente un presupposto. Gli esseri umani sono grandi recipienti aperti, capaci di quasi tutto – se leggete lo sapete – ma non puoi picchiare la madre dei tuoi figli, o violentare una tua amica d’infanzia mentre è svenuta, o presentarti davanti a una confraternita universitaria femminile dalle parti di Santa Barbara e metterti a sparare, senza esserti prima convinto e aver lasciato che la nostra cultura ti convincesse che quelle donne sono meno che umane.
So che è forte come analogia. Voglio che lo sia.
In questo caso, Stephen Elliott ci mette a portata di mano un chiaro esempio di un’idea ribadita di recente da Rebecca Solnit nella sua importante raccolta di saggi Men Explain Things to Me: queste cose esistono lungo un continuum. Il rifiuto sessista di riconoscere le donne come artiste e la presunzione di essere in diritto di farci sesso che serve a rendere accettabile nella nostra cultura una cosa come lo stupro – che è molto accettabile nella nostra cultura – non sono separati da ampi divari di principio. Guardate qui, sono due paragrafi dello stesso resoconto, separati solo dalla pressione di un tasto.
Quando ho detto: Sono una scrittrice, Stephen ha sentito: Sono una ragazza. E, siccome ero una ragazza, quando ho detto: No, non puoi dormire nel mio letto, lui ha sentito una persona che «non era così sicura». Ho continuato, nella sua mente, a non essere sicura, e solo l’uomo che stavo frequentando – per usare l’espressione infantilizzante di Stephen, «il ragazzo con cui stava cominciando a uscire» – poteva essere sicuro al posto mio. La storia che si è raccontato Stephen è diventata: «Aveva bevuto e io non bevo». Dal momento che non ero una scrittrice, né una persona, sono stata facilmente trasformata in una ragazza ubriaca incapace di dire la sua.
Fino a oggi, intendo.
Guardare ragazzi che fanno cose
Ma voi tutto questo lo sapete già, anche se non ne avete sentito parlare di recente, anche se non ne avete sentito parlare ad alta voce. Non mi interessa il motivo per cui Stephen ha fatto quello che ha fatto. Avevo scelto women’s studies come materia complementare, quindi ci arrivo. Quello che mi incuriosisce è cosa ho fatto io con ciò che ha fatto lui.
Per anni, ho pensato che quell’incontro fosse stato istruttivo. Lo descrivevo come ho fatto sopra, come una sorta di rivelazione. Oggi penso: magari fosse così. Dopotutto, è molto meno pesante trovarti davanti a un’abiezione di cui in precedenza eri stata completamente e sinceramente ignara che davanti a una che cercavi di fingere che non esistesse. In verità, il fatto che la nostra cultura consideri gli scrittori maschi più importanti di me non è stata una rivelazione. Stavo ricevendo i messaggi presenti nella e-mail di Stephen fin da molto prima che la mia amica me la inoltrasse – tutte le donne li ricevono. Viviamo in una cultura che ci odia. Ce ne accorgiamo. La misoginia è l’acqua in cui nuotiamo.
Cioè:
Da ragazzina avevo un solo intenso e incessante passatempo, sebbene questa non sia la parola giusta, sebbene non lo siano neanche hobby o passione. Ho praticato questa attività con devozione religiosa e più a lungo di quanto riesca a ricordare. Ho provato a smettere di recente, da quando mi sono allontanata da Bedford Falls, più o meno da quando è nata mia figlia. Ma quasi tutta la mia vita era organizzata intorno a questa attività. Riempivo le mie giornate svolgendola, trascorrevo tutto il mio tempo libero e una grande quantità di tempo che non era libero svolgendola. Quell’hobby, quell’interesse, quella passione era: guardare ragazzi che fanno cose.
Ho guardato ragazzi che suonavano la batteria, la chitarra, che cantavano, li ho guardati giocare a football, a baseball, a calcio, a biliardo, a Dungeons and Dragons e a Magic: The Gathering. Li ho guardati giocare a golf. Proprio l’altro giorno li ho guardati giocare a una specie di versione sudata e intellettuale del basket. Li ho guardati lavorare sui motori delle loro macchine e alle loro tesi specialistiche. Ho guardato ragazzi che costruivano cose: rampe da skate, librerie, sceneggiature, carriere. Ho guardato ragazzi che andavano sullo skateboard, sullo snowboard, che recitavano, andavano in bici, facevano boxe, dipingevano, si azzuffavano e bevevano. Probabilmente potrei scrivere una serie di sei romanzi autobiografici pieni di virtuosismo basati esclusivamente sugli anni passati a guardare ragazzi che giocavano a Resident Evil e a Tony Hawk’s Skateboarding. Ho guardato i ragazzi nel mio tempo libero, ho guardato i ragazzi nella mia vita sentimentale e ho guardato i ragazzi nel corso della mia formazione. Ho guardato Melville, ho guardato Salinger, ho guardato Ford, Flaubert, Díaz, Dickens, ho guardato anche quando non mi piaceva particolarmente quello che vedevo – soprattutto in quel caso, perché dimostrava che c’era qualcosa di sbagliato in me, qualcosa che volevo aggiustare. Per cui ho guardato Nabokov, ho guardato Thomas Hardy, ho guardato Raymond Carver. Ho letto le donne (alcune, ma non abbastanza) ma non le ho guardate. Mentalmente, non gli davo un megafono. Gli scrittori con i megafoni nella mia testa non erano Mary Austin, o Louise Erdrich, o Joan Didion, o Joy Williams o Tony Morrison, nonostante tutte loro siano state altrettanto importanti per me di ognuno degli scrittori maschi che ho nominato, o anche di più. Eppure, ho guardato i ragazzi, li ho guardati per imparare. Volevo scrivere qualcosa che sarebbe piaciuto a Cormac McCarthy, qualcosa che avrebbe indotto Thomas Pynchon a uscire allo scoperto per lodarlo, qualcosa per cui David Foster Wallace avrebbe scritto una fascetta pubblicitaria dall’oltretomba.
Ho ricostruito nella mia creazione artistica l’immortale passatempo della mia adolescenza: guardare i ragazzi, emularli, cercare di attirare l’attenzione di quelli che non hanno idea della mia esistenza.
Sull’invisibilità
A proposito di cose invisibili: immaginatemi nel New Mexico, dove sono andata a insegnare per una settimana. In Colorado è appena stata legalizzata la marijuana e un’amica di quelle parti mi regala una canna. Mi avvicino a un’altra scrittrice, proveniente dall’Alaska, che se ne sta in piedi da sola vicino alla scintillante piscina dell’albergo. Faccio due chiacchiere.
Dico: Quindi, da quanto tempo vivi in Alaska?
Lei dice: Be’, sono eschimese, quindi…
Le chiedo se vuole dividersi la canna con me. Sembra guardinga, il che mi lascia interdetta. L’ho sentita parlare di erba in un’altra occasione e sono abbastanza sicura che la pensiamo allo stesso modo sull’argomento.
Proprio qui?, domanda.
Sì, dico io, guardandomi intorno per capire cosa la stia disturbando. È buio, ci sono solo le luci della piscina che risplendono, e siamo le uniche persone qui fuori. Le stelle in cielo sono pazzesche.
Lei dice: Ma qui l’erba non è legale.
Io faccio presente che è legale in Colorado, e che il Colorado confina con il New Mexico.
E se qualcuno chiama la polizia?
Non la chiamano la polizia! Sei pazza? Siamo clienti dell’albergo.
E se ci arrestano?
A questo punto siamo entrambe totalmente interdette, non ci capiamo per nulla. Io sto pensando: Rilassati. La gente fuma erba nei parchi delle città, ai festival musicali, sui sentieri delle escursioni. L’ultima volta che ho fumato è stato a un matrimonio nel Maine.
Dico: Dai, mica ci arrestano per una cannetta. Siamo professoresse, che cazzo!
Ok, dice lei alla fine, rilassandosi. Ma se chiamano la polizia sarà meglio che mi nascondi sotto il tuo mantello invisibile di privilegio bianco.
In momenti come questo, quando il fatto di essere bianca mi si materializza davanti e io riesco a vederlo, la cosa mi imbarazza da morire e mi arrabbio moltissimo con me stessa per non esserne sempre tanto consapevole quanto lo sono lì in quel goffo, doloroso, assurdo, fondamentale momento. Voglio smettere di vederlo, renderlo di nuovo invisibile, e di solito lo faccio, perché mi fa sentire meglio. Io ho questo lusso.
Altri non ce l’hanno.
Ho visto scrittori diventare scuri di pelle proprio davanti ai miei occhi. Mio marito, per metà cubano ma reso ancora più tale durante un colloquio di lavoro, si è sentito dire da uno studioso bianco, che si stava specializzando in letteratura afroamericana, che il fatto di aver inventato e immaginato certi aspetti di Cuba nel suo romanzo era «un problema» e che secondo questo professore bianco nel descrivere Cuba lui aveva commesso vari «errori».
La mia migliore amica, una basca americana, pubblica un libro ambientato nei Paesi Baschi spagnoli e Publishers Weekly lo elogia come «esotico quanto basta». La mia biblioteca iBooks classifica Joshua Cohen come autore «letterario» e Toni Morrison come autrice «afroamericana». Pensateci un attimo: è o/o. Vale a dire, secondo iBooks, che non puoi essere un’autrice afroamericana e letteraria. Ed è stato solo due anni fa che, su Wikipedia, certi autori americani che i redattori sospettavano essere in possesso di una vagina sono stati rimossi dalla categoria «scrittori americani» e trasferiti alla categoria «scrittori americani donne». Queste categorie – scrittrice o studentessa, scrittrice o ragazza, scrittore donna, eschimese, latinoamericano, letterario o afroamericano – contano. Come disse Sontag a Mailer: «Le parole contano, Norman». Influenzano il modo in cui viviamo – la possibilità o meno di fumare una canna vicino alla piscina di un albergo nel New Mexico senza avere paura di essere arrestate; la possibilità o meno che qualcuno capisca il nostro no quando lo diciamo – e influenzano il modo in cui scriviamo.
Il «piccolo uomo bianco che si annida in fondo a tutti noi»
È stata Toni Morrison a far notare che Tolstoj non scriveva per lei, a dire che lei scriveva rivolgendosi alle donne nere. Il che ti fa domandare: Per chi sto scrivendo, io? A chi mi sto rivolgendo con la mia scrittura?
Per quanto mi riguarda, finora ho scritto per fare colpo su vecchi uomini bianchi. Innumerevoli decisioni su cosa scrivere e come scriverlo le ho prese sulla base di un tacito consenso verso le opinioni dei letterati bianchi di sesso maschile. Non solo consenso ma supplica, ricerca di approvazione, desiderio di piacere.
Ma a chi mi riferisco quando dico letterati bianchi di sesso maschile? Sembra una teoria del complotto, uno dei miei generi preferiti dello storytelling americano. Mi riferisco alle persone e alle voci reali e immaginarie che occupano posizioni di potere (o almeno di influenza) nella scrittura e nell’editoria, ma soprattutto mi riferisco all’uomo che ho io dentro la testa. James Baldwin ha scritto del «piccolo uomo bianco che si annida in fondo a tutti noi» ma il mio è alto. È un fumatore incallito con i capelli bianchi che viene dal New Mexico, lo scrittore di racconti chiamato «il vero erede di Cheever». È Lee K. Abbott l’uomo che sento parlare dentro la mia testa. Questo ha poco a che fare con Lee come persona, un mentore che ammiro, uno scrittore che adoro, il cui incoraggiamento mi ha aiutato ad arrivare davanti a voi, e del cui sostegno faccio tesoro. Non sto parlando del Lee K. Abbott che una volta durante un seminario si è rivolto a me, che ero una studentessa al primo anno della specialistica orfana di madre, un topo del deserto senza un cappotto invernale decente e con un disperato bisogno di approvazione, e mi ha chiesto, dato che gli avevo consegnato un racconto che gli era piaciuto: «Claire, chi sono i grandi scrittori del Nevada?» E quando io ho farfugliato qualcosa su Robert Laxalt e Mark Twain mi ha fermato e ha detto: «No. Sei tu». Non sto parlando dell’uomo Lee Kitteridge Abbott ma di ciò che rappresenta. O meglio sto parlando di entrambi, della rappresentazione e dell’uomo in sé: non sapevo forse che gli sarebbe piaciuto quel racconto, che parla di un vecchio cercatore d’oro che si imbatte in una bella ragazza data per morta e abbandonata nel deserto?
Lieta che ti piaccia, Lee. È scritto apposta per te.
Sto parlando di un reading che ho fatto nel Montana d’autunno, un periodo dell’anno in cui il paesaggio era così bello che non rientravo quasi mai a casa, durante il quale un cowboy bianco di mezza età inoltrata – chiamiamolo il Vecchio Figlio di Puttana – si è messo in fila per gli autografi, in mezzo alle ragazze castane con gli occhiali, e quando è arrivato davanti a me ha detto: «Di solito non leggo roba del genere ma Tom McGuane ha detto che sei in gamba». Sto parlando del fatto di essere al tempo stesso riconoscente per l’amicizia e l’incoraggiamento che mi ha offerto Tom McGuane ma anche arrabbiata e sfinita per averne avuto bisogno. Il Vecchio Figlio di Puttana non mi avrebbe letto se Tom non avesse detto che ero in gamba. Mi sto nascondendo sotto il mantello invisibile di privilegio maschile di Tom. Non sono in discussione Tom McGuane o Lee K. Abbott o Jeffrey Eugenides o Christopher Coake o Chang-Rae Lee, che mi hanno tutti offerto consigli e amicizia per i quali sono estremamente riconoscente. Ma perché le loro voci dovrebbero essere più forti nella mia testa di quella di Karen Russell, che è un autentico genio, una persona dalla generosità smodata nonché, si spera, la mia futura co-moglie? Perché dovrebbero essere più forti di Antonya Nelson, che ha scritto la più illuminante recensione di Battleborn che io abbia mai letto? Perché dovrebbero essere più forti di Erin McGraw, che ha letto Battleborn in ogni sua incarnazione, che mi ha insegnato come trovare un lavoro e tenermelo, che mi ha scritto un centinaio di lettere di raccomandazione e ha fatto praticamente qualunque cosa per me tranne mettermi in mano oggi questo microfono?
L’assordante verità è che mentre scrivo mi domando, nel profondo del cuore: Che ne penserebbe Philip Roth? Che ne penserebbe Jonathan Franzen? Quando la risposta è probabilmente: nulla. Più sconcertante è domandarmi perché cerco di dimostrare il mio valore agli occhi di scrittori la cui opera, in molti casi, non ammiro particolarmente. Ho da poco finito di leggere Indignazione di Roth, e mi ha lasciato soltanto una sincera curiosità di sapere se Roth è consapevole che di questi tempi anche le brave ragazze fanno i pompini.
Sto cercando di comprendere un fenomeno che si verifica nella mia testa, e forse anche nella vostra, tale per cui il patriarcato bianco suprematista determina quello che scrivo.
Ho scritto Battleborn per gli uomini bianchi, rivolta a loro. Se guardate quel libro sotto una certa luce, lo vedrete come un esercizio di autoumiliazione, frutto di un particolare tipo di follia working-class, ma al femminile. Naturale, quindi, che Battleborn sia stato ben accolto dall’establishment letterario dei maschi bianchi: è stato scritto apposta per loro. Tutto il libro è un tentativo di compiacerli. Guardate, ho detto con i miei racconti: So scrivere di vecchi, so scrivere di sesso, so scrivere di aborti. So scrivere in modo cazzuto, imperturbabile, non sentimentale. So scrivere di un vecchio a cui viene duro!
Ecco i lampioni, ecco il cinema con una sola sala. È tutta un’architettura di compiacenza. È roba fatta apposta per loro.
Sa scrivere come un uomo, hanno detto, con il che intendevano dire: Sa scrivere.
Un tizio su Twitter dice:
«Un sacco di ragazze (oltre al qui presente maschio bianco) hanno amato il tuo libro. Dovrei forse dirgli di non tener conto della loro esperienza di lettrici?»
Se vi piace il mio libro ve ne sono grata. Ma vi ricordo che le persone che vivono ai margini sono disposte a fare parecchia strada per accettare e persino amare cose non fatte per loro né rivolte a loro: è tutta la vita che ci addestrano a farlo. Non sto cercando di convincere nessuno che la sua reazione di lettore è sbagliata, sto solo cercando di raccontare cosa è successo dentro la mia testa quando ho creato il libro, di fare un onesto inventario della gente a cui non mi ero rivolta con la mia scrittura (sebbene credessi di averlo fatto): le donne, le ragazze, le persone di colore, gli abitanti più poveri delle zone rurali, la gente del West, la mia mamma morta.
Il che è spaventoso di suo, ma ancora più terrificante perché quel libro pensavo di scriverlo per me stessa. Ero convinta che la creazione artistica fosse qualcosa di separato da tutto il putridume della nostra cultura, quando in realtà non ne è separata. Ne è composta.
Quanto detto fin qui
è o un’improvvisa illuminazione sul piano estetico/artistico/personale o il mio rituale attacco di nervi pre-pubblicazione; forse un po’ dell’una e un po’ dell’altro. Vi dirò questo: da quando è nata mia figlia non ho più scritto nulla di significativo. È facile dire: Hai avuto una bambina, adesso sei impegnata, col tempo andrà meglio, e sono davvero felice di sentirlo da chi di voi lo ha detto. Ma mi chiedo se, almeno in parte, la ragione per cui non scrivo sia che non ci vedo. Il mio sguardo non è più lo sguardo di un’artista.
E come mai? Credo c’entri il fatto che non mi aggiro più molto nel deserto. Passo le mie giornate con una bambina e questo, a detta del patriarcato, non è roba da artisti. Ancora una volta sono una ragazza e non una scrittrice. Non l’ha detto nessuno. Non c’è bisogno che qualcuno lo dica. Sono io che lo dico a me stessa. Ecco la spaventosa efficienza della manipolazione mentale.
Dopo aver visto Girls per la prima volta la mia amica Annie McGreevy dice: «Ho avuto anch’io lo stesso tipo di esperienza, ma non sapevo che fosse ok tirarne fuori qualcosa di artistico». E forse ancora non è ok. Dopo aver partecipato a un incontro con Miranda July, Lena Dunham twitta questa citazione di Lorrie Moore, che a luglio sulla New York Review of Books scriveva: «Quando uno googla “Wes Anderson” e “fey” escono un sacco di foto di lui e Tina Fey».
Circa un anno fa ho avuto una bambina,
e se da una parte la mia vita è diventata improvvisamente più intensa, più spaventosa, più bella, più difficile e più profonda di quanto sia mai stata, mi sono anche ritrovata senza nulla di cui scrivere.
«Non mi sta capitando nulla», mi lamento con Annie. «Devo andare a sparare a un elefante».
Annie risponde, con la cadenza lebowskiana che le viene a una cert’ora della notte: «Tesoro mio, sei una madre. Hai avuto una bambina. Ti stai sforzando di far funzionare il tuo matrimonio, dai. Stai cercando, nonostante la tua natura e la situazione in cui ti trovi, di essere una brava persona. Eccolo qua il tuo elefante!» Eppure quando metto per iscritto una qualche versione di tutto ciò sembra roba leziosa, o peggio. Credevo di avere abbastanza materiale per un romanzo ma quando l’ho buttato giù era un racconto, e un racconto che non mi sembrava neanche serio. Ho provato a scrivere un racconto sotto forma di questionario sulla depressione post-partum e mi sembrava lezioso. Casalingo. Per donne. La maternità mi ha rammollito. Filtro molto di più ciò che leggo e guardo. Non voglio più scrivere come un uomo. Non voglio venire elogiata per quanto sono «imperturbabile». Voglio essere perturbata. Voglio essere vulnerabile.
Sto cercando di scrivere qualcosa di urgente, sto cercando di essere disarmata e onesta, sto cercando di ascoltare, sto cercando di identificare e articolare i miei sentimenti più intimi, sto cercando di farli provare anche a voi, sto cercando un tipo di telepatia – tutte cose che tanto per cominciare sono davvero maledettamente difficili e a volte mi domando se, in una cultura in cui le donne sono soggette all’infantilizzazione e alla manipolazione, in una cultura che dice che il tuo «cuore telepatico» (per usare un’espressione di Lorrie Moore riferita a Miranda July) è sciocco e delicato e noioso e frivolo e roba da ragazzine, siano anche solo possibili.
Dentro la mia testa ho costruito una riproduzione in miniatura del patriarcato perfettamente funzionante. Mi piacerebbe molto romperla o darle fuoco. Ma temo di non sapere come fare. Anche se qualche idea ce l’ho.
Qualche idea:
Colpiamo in alto.
Non trasformiamo le persone ai margini in esploratori o spie del mainstream. Smettiamo di chiedere alle persone di parlare per tutto quel cacofonico segmento di umanità che condivide la stessa pigmentazione, gli stessi genitali o stimoli sessuali.
Passiamo più tempo in quei momenti imbarazzanti in cui appare chiara la nostra condizione di privilegio. Restiamo lì a riflettere, indugiamoci, invece di ritirarci nello status quo.
Continuiamo a contare, e parlare, e pensare ai numeri.
Diamo dei nomi alle cose che non ne hanno, come spiega Solnit, come non avevano un nome il «mansplaining» o la «cultura dello stupro» o le «molestie sessuali» prima che glielo dessero le femministe. Lasciamo che questi nomi cantino.
Ascoltiamo le storie che ci raccontiamo su noi stessi. Ricordiamoci che diventiamo le storie che raccontiamo. Un esempio: stavo parlando con la scrittrice Elissa Schappell di come entrambe non vedevamo l’ora che uscisse il nuovo libro di Carrie Brownstein. Ho chiesto a Elissa come si spiegava questa nuova tendenza dei memoir scritti da donne toste: Carrie Brownstein, Kim Gordon, Sally Mann, Amy Poehler. Era una tendenza dovuta alla vittoria di Patti Smith al National Book Award cinque anni fa? Era una tendenza indicativa di un nuovo movimento femminista? Elissa mi ha interrotto. «Continui a usare questa parola», ha detto. «Tendenza. Non è una tendenza. Noi siamo qui adesso. Non ce ne andiamo da nessuna parte. Noi siamo qui adesso».
Creiamoci un canone fai-da-te, che possiamo riempire individualmente con quello che amiamo leggere, con quello che ci parla e ci sfida e ci fa aprire, e all’interno del quale possiamo decidere da soli le nostre linee di discendenza artistica, con curiosità e vigore, piuttosto che provare a infilarci a forza in un canone preconfezionato donatoci da qualche stronzo bianco di Oxford.
(Comincerò io, smettendo di consumare fiato vitale per scusarmi del fatto che no, a dire il vero, anche se scrivo del West americano, Cormac McCarthy non ha avuto un’influenza rilevante su di me.)
Usiamo le nostre parole e i nostri sguardi per rendere visibile l’invisibile. Diciamo la verità.
Scriviamo, ognuno di noi, cose che siano non categorizzabili, piuttosto che roba che compiaccia e legittimi e codifichi quelle categorie.
Facciamo piazza pulita di questo sistema del cazzo e costruiamo qualcosa di meglio.
© Claire Vaye Watkins, 2015. Tutti i diritti riservati.
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