In attesa dell’uscita di Storia del denaro, vi presentiamo oggi la seconda parte di un’intervista di Walter Lezcano ad Alan Pauls, in occasione della nuova edizione del suo primo romanzo, scritto quando aveva appena ventun anni: El pudor del pornógrafo (Anagrama). Potete leggere la prima parte dell’intervista qui.
di Walter Lezcano
traduzione di Francesca Signorello
WL: Nei tuoi romanzi c’è un tono, un ritmo, ma soprattutto un modo di raccontare molto marcato. Che posto occupano nella tua narrativa la creazione di una storia solida e la costruzione di personaggi che restino impressi nella memoria dei lettori?
AP: Per me, scrivere è, in sostanza, trovare una certa frequenza linguistica, una frequenza verbale. È tutto subordinato a questo. Il fatto che la frequenza sia continua o discontinua dipenderà poi dal tipo di progetto. Soprattutto negli ultimi dieci o quindici anni ho lavorato parecchio su un’idea di frequenza continua. Come qualcosa che non si interrompe mai. Non so se in El pudor questo si nota. Forse il mio primo romanzo si trovava ancora in una via di mezzo. Prima di rileggere El pudor, ho pensato che una delle cose che mi avrebbero scosso di più, perché mi avrebbero fatto percepire il libro come estraneo, come scritto da un altro, sarebbe stato lo stile del romanzo. E in effetti mi sono accorto che lo stile sembra davvero quello di un altro, anche se, al tempo stesso, riconoscevo una certa familiarità. Lo sforzo di ottenere un ampio respiro della frase, per esempio. Insomma, per me scrivere è sempre stato questa cosa qui. I libri che mi piacciono non sono quelli che raccontano storie o inventano personaggi che superano la vita reale, né tantomeno quelli che descrivono un’epoca storica in maniera fedele. Questi libri possono anche interessarmi, ma solo se sembrano come trascinati da una specie di flusso, di piacere, di cortocircuito verbale o stilistico che mi parli in termini letterari. Che contenga una frequenza sonora. Se questo non c’è, è improbabile che mi incuriosisca. E la cosa è abbastanza evidente in quello che faccio. In letteratura non è la trama a interessarmi o coinvolgermi.
WL: C’è un tema che compare spesso nel tuo primo romanzo, El pudor del pornógrafo, come anche nell’ultimo, Storia del denaro. Ed è la pornografia. Cos’è che ti attrae di questo universo?
AP: Sì, mi interessava e continua a interessarmi. Ora meno di prima. Forse è un genere che non è cambiato molto negli ultimi trent’anni. A cambiare, invece, è stata la visibilità della pornografia. Oggi è meno clandestina, meno colpevole, più culturale. La pornografia è diventata parte della cultura come tutto il resto. Negli anni Sessanta o Settanta era difficilissimo vederla come un fenomeno interessante da studiare seriamente, finché non spuntò Susan Sontag e si mise a parlare di pornografia, e allora il mondo intellettuale disse: ah, lì possiamo trovarci qualche significato interessante.
Da buon masturbatore, feci uso di pornografia da adolescente, com’è naturale. E non appena ebbi voglia di scrivere sul serio, ed è questo nel mio caso il fatto interessante, cominciai a leggere con interesse riviste porno. Queste riviste, in un primo momento, erano solo uno stimolo, ma dopo mi conquistarono come genere. Perché una cosa interessantissima delle riviste pornografiche di allora era che bisognava scriverle, ma non c’erano scrittori disposti a farlo. Mi ricordo che avevo tredici o quattordici anni, avevo guardato un numero di «Playboy» e mi stavo facendo una sega. Poi, dopo essermela fatta, mi misi a leggere soddisfatto il servizio di venti pagine che c’era sul numero che avevo sottomano. Di solito i servizi erano su Marlon Brando o Truman Capote o Nabokov. Venivano subito dopo la foto in doppia pagina delle donne quasi nude. A quei tempi, c’era una zona della grafica sessuale che oscillava tra l’oggetto puramente indecente, strumentale, e l’oggetto culturale da leggere. Così io mi misi a leggere la rivista in quanto tale e cominciai a interessarmi parecchio al genere epistolare. Nelle riviste porno, la rubrica di posta sul sesso è una sezione classica, istituzionale. Perfino in quelle più hard, come «Penthouse». Ed era una cosa che mi sembrava straordinaria. Come può un fenomeno come la pornografia, che è essenzialmente un discorso hard, e che sembrerebbe un discorso senza discorso, avere invece un discorso proprio? Tutte le donne nude, le orge, i cazzi in primo piano, tutto questo doveva essere necessariamente accompagnato da testo. Quello della posta sessuale è un genere molto affascinante perché esiste qualcuno che ha vissuto quello che c’è scritto lì. Tutti i testi sono di carattere confessionale e rappresentano un immaginario che è quello che vende nella rivista. È un circolo stranissimo in cui la finzione sessuale contagia l’esperienza dei lettori e alimenta, a sua volta, in chi scrive nella rubrica sessuale, una prosa che oscilla tra il provocante,il disinvolto e l’osceno. E poi questa rubrica ha sempre una risposta a tutte le domande. Risposte che oscillano sempre tra lo scientismo di bassa lega e la psichiatria sessuale di terz’ordine. E così, a un certo punto, tutto questo mi è sembrato molto più interessante delle foto hard della pornografia. Mi è parso che lì ci fosse un oggetto complesso che condivideva metà delle sue caratteristiche con tutti quegli oggetti che mi piacciono ancora oggi: le cose miste, ambigue, ecc. Cioè, la pornografia continua a interessarmi parecchio. Forse non più come genere. A incuriosirmi è piuttosto il momento pornografico delle manifestazioni culturali di alto livello. Per esempio, mi interessa tantissimo quando al cinema c’è un momento porno: un primo piano della fica di una donna o Rocco Siffredi che viene chiamato a lavorare in un film d’autore come quello di Catherine Breillat. Mi interessa questo: come mai c’è un punto in cui l’arte, per una ragione qualsiasi, attraversa un momento porno. È questo il momento in cui è obbligata a mostrare tutto. E ora che questi particolari sono diventati più visibili, tollerabili e tolleranti, mi incuriosisce anche come mostrare tutto consista ancora, in un certo senso, nel far vedere un cazzo che entra in una fica o in un culo, non so, da qualche parte, insomma. È strano che questo continui a essere ancora oggi sinonimo di pornografia.
WL: Cosa ne pensi dell’interpretazione che certi mezzi di comunicazione hanno dato del tuo romanzo El pasado, e del fatto che ne sei venuto fuori come uno specialista dell’amore?
AP: Dunque, ho sempre detto che tutto quello che sapevo sull’amore è scritto nel romanzo. E, se ne so qualcosa, la so in questa forma: in una forma romanzesca. Se conosco qualcosa di questo mondo, lo conosco da un punto di vista specificamente letterario. Perché io nella vita sono altrettanto vittima dell’amore come il primo imbecille che incontri per strada. Quello che posso dire, invece, è perché mi interessa il tema dell’amore, soprattutto quello dell’amore problematico o non consumato o impossibile. Il motivo è che si tratta di un potente motore estetico che produce una febbre estetica straordinaria. Io ne sono convintissimo. Non mi interessa tanto il rapporto tra due persone che si amano. Quello che mi interessa, invece, è il tipo di follia che scoppia quando in una relazione compaiono degli ostacoli. Questa può essere una deformità interessante.
WL: Cambiamo argomento. In un articolo recente hai usato l’espressione neoanalfabetismo di Twitter. Cosa ne pensi delle reti sociali e della rappresentazione della figura dello scrittore in questo ambito?
AP: Non ne capisco molto di reti sociali. Non ne faccio parte. Ma non ho neppure niente in contrario. Quello che vedo degli scrittori che condividono questo mondo è che, alla fin fine, sono sempre scrittori. Cioè, voglio dire, sono scrittori che scrivono. E per quanto il tuo Twitter o Facebook possa essere vivace e originale, nel momento in cui devi scrivere un romanzo devi comunque sederti, rimboccarti le maniche e cercare di scrivere un romanzo. E non potrai mai riuscirci snocciolando 6 milioni di tweet da 140 caratteri ciascuno. Quando Daniel Link, che è un tipo della mia generazione molto in sintonia con il mondo delle odierne tecnologie della comunicazione, scrive La Ansiedad, ormai parecchio tempo fa, un romanzo fatto tutto di e-mail, è uno scrittore che scrive un romanzo. È uguale a Puig quando scrive Il tradimento di Rita Hayworth o Una frase, un rigo appena o Sangue di amor corrisposto. La Ansiedad è un romanzo in cui si parla di invenzioni tecnologiche, di macchine di registrazione e riproduzione, ecc. Per quanto sia radicata l’idea che il modo di essere tecnologici oggi è far parte delle reti sociali, io ti dico: scrivere è scrivere. Io, in ogni caso, credo di essermi fatto un’idea di quello che succede in questo campo per quanto riguarda quella che potrei chiamare la nuova società. Si tratta più di un fenomeno sociale che di una comunità letteraria. Immagino che quello che potrei dirti io a questo proposito sia abbastanza convenzionale: la vita privata e l’esibizione, i selfie e via dicendo, la maldicenza e la logica del pettegolezzo. Stupidaggini, tutte stupidaggini. Che non mi interessano un granché.
WL: L’ultima domanda. Oltre che di letteratura, saggi e articoli, ti occupi molto di sceneggiature. So che in questo momento stai lavorando all’adattamento di La pista di ghiaccio di Roberto Bolaño.
AP: Sì, sono in pieno lavoro. Siamo arrivati circa a metà. Scrivere sceneggiature mi piace di più.
WL: Per chiudere volevo chiederti, a proposito di questi due tipi di letture a cui sei molto affezionato, quella dello spettatore e quella del lettore, quale di queste due attività ti ha regalato più soddisfazioni?
AP: Per me, sono due cose completamente diverse. Tutt’e due intensissime. Secondo me, la differenza principale sta nel fatto che il piacere di guardare un film implica un certo smarrimento. Per quanto io sia analitico, sia davanti al film più mainstream di Hollywood che a quello più raffinato ed esigente, al cinema sono sempre sotto incantesimo, o rapito da un’estasi, se vuoi, e questa è un’esperienza fortissima che fai al cinema. Io vado al cinema proprio per essere rapito. Invece, devo dire che l’esperienza con la lettura è sempre stata di compagnia. Per me la letteratura è una sorta di conversazione: confrontarsi con qualcosa, con una voce, con una memoria, con un’esperienza del linguaggio. In questo senso, leggendo, non sono mai stato rapito. Leggere significa entrare in un regime di scambio, di traffico. Nella lettura c’è un’economia che non esiste nella vista. La vista implica il piacere di essere sequestrati, e ovviamente riscuote molto successo. Perfino nella mia infanzia, davanti ai primi film che ho visto, ero uno spettatore completamente coinvolto. Del tipo: sequestratemi, violentatemi, derubatemi pure. Con la scrittura, invece, non ricordo niente di tutto questo, non ricordo che sia mai successa una cosa del genere. Penso che la letteratura mi abbia fatto diventare intelligente. E non credo che il cinema mi abbia fatto provare sempre una sensazione di questo tipo.
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