Continuiamo a seguire la polemica Kodama vs Katchadjian, dopo che María Kodama, vedova Borges, ha accusato lo scrittore Pablo Katchadjian di plagio nell’opera El Aleph engordado.
Pubblichiamo oggi l’opinione del critico Christopher Domínguez, che prende le parti di Kodama. Il pezzo è uscito su El Universal, che ringraziamo.
«Un Borges obeso»
di Christopher Domínguez
traduzione di Giada Poggianti
«Sembra che Katchadjian pensi che alcuni lettori de L’Aleph non siano in grado di capire la sua soggettività»
Il caso ha già fatto il giro del mondo e gli interessati ne sono a conoscenza. Uno scrittore argentino, Pablo Katchadjian (1977) è stato querelato da María Kodama, erede universale dei diritti di Borges, per essere “intervenuto” su uno dei più celebri racconti di colui che era stato il suo sposo, L’Aleph (1949). Katchadjian è stato accusato di aver riprodotto senza permesso, e dato alle stampe nel 2009 in una modesta edizione di 200 copie, il racconto completo (e con un errore di stampa). Non si tratta di plagio, perché Katchadjian, a partire dal titolo e poi in un post scriptum, chiarisce di aver aggiunto circa 5 mila parole all’originale di Borges. Si tratta di riproduzione illegale di materiale altrui, cosa che ha acceso la polemica sul fino a che punto sia intoccabile la proprietà intellettuale.
I difensori di Katchadjian sono una legione, dal suo avvocato Ricardo Strafacce, stimato biografo di Oswaldo Lamborghini, a César Aira (che accoglie festosamente l’animo sperimentale dell’accusato, il quale ha giocato anche con il Martín Fierro, ordinandone alfabeticamente i versi e con risultati meravigliosi, secondo l’autorevole opinione di Aira), passando per il messicano Luigi Amara, che ci ricorda che disegnando baffi e barba da moschettiere alla Gioconda, Marcel Duchamp non ha tolto niente al quadro di Da Vinci, ancora a disposizione dei turisti giapponesi al Louvre (saranno passati un paio di anni da quando, cercando la sezione neoclassica del museo, dove sono nel mio, mi sono imbattuto, miracolosamente da solo, nel volto della celeberrima signora protetta da un vetro antiproiettile simile a quello della papamobile di Wojtyla). Allo stesso modo, chiunque può leggere L’Aleph originale scaricandolo da internet (e non so nemmeno se è legale), andando in biblioteca o comprandolo in una libreria di prestigio, come si diceva una volta.
Sola, molto sola, è rimasta la vedova Kodama, accusata di essere, come Salvador Dalí nell’anagramma che Breton appioppò al pittore, un’altra “Avida Dollars”, che oltre ad essere insaziabile nel suo zelo crematistico, è antiborgesiana (non borgiana, dato che Georgie era Borges, non Borgia) perché non capisce che l’autore di «Pierre Menard, autore del Chisciotte» avrebbe applaudito l’iconoclastia adiposa di Katchadjian. Io non voglio prendere parte al linciaggio di María Kodama. La signora ha esercitato, forse con eccessivo impegno, i diritti concessi dalla legge sulla proprietà intellettuale, e se queste leggi devono essere cambiate o estinte (come reclamano i militanti dei partiti pirata) se la vedano i congressi nazionali e le convenzioni internazionali. È stata, a volte, esagerata nell’emettere inopportune sentenze letterarie, come nel caso del Borges (2006) di Adolfo Bioy Casares, secondo me uno dei grandi libri della letteratura ispanoamericana di tutti i tempi, secondo lei un obbrobrio (quello sì, bello grosso) di smodatezze e falsità messe in bocca a Borges da chi era stato il suo migliore amico. Una qualche colpa del torto ce l’ha Daniel Martino, il compilatore di questo Borges, che, per quel che ne so, si è risparmiato di dare spiegazioni non solo aneddotiche ma anche filologiche su come Bioy Casares abbia composto il libro, fatto che può destare sospetti. Ma questa è un’altra storia.
Venuto a conoscenza dello scandalo, ho pagato nove dollari e ho scaricato L’aleph engordado. La sera prima ho riletto, con inalterato sentimento, il racconto di Borges, e la mattina seguente li ho messi a confronto. Ecco la mia conclusione: nessuno deve andare in galera per una stupidaggine come quella commessa da Katchadjian, anche se l’avvocato della Kodama, di fronte all’indignazione internazionale, ha già abbassato il profilo al suo caso dicendo che la condanna maggiore per l’accusato, con il processo arrivato in terzo grado, sarebbe obbligarlo a lavori socialmente utili (non lo manderanno mica in un liceo della Grande Buenos Aires a scrivere 9 mila volte sulla lavagna L’Aleph, L’Aleph, L’Aleph…?)
Nessun amante della letteratura può essere contrario alla “letteratura sperimentale”, perché tutta è così quando nasce un genere. Lo sarà stato L’Odissea, per lo meno quando qualcuno l’ha letta per la prima volta a stampa, lo sono stati il Don Chisciotte, l’Ulisse e Il museo del romanzo della Eterna di Macedonio Fernández, per non parlare della grande poesia posteriore al 1910. Tuttavia El Aleph engordado è un buon esempio di quello che succede quando una persona di poco talento incorre nell’accademismo – perché è quello il fatale destino di ogni innovazione – “intervenendo” su un’opera e imitando, fino alla noia, pratiche che esistono già da mezzo secolo (il Laboratorio di Letteratura Potenziale, di Raymond Queneau, è stato fondato nel 1960 e il Collegio di Patafisica ancora prima).
Nonostante la iattanza di Katchadjian, che nel suo post scriptum giustificatorio osa dire che «i migliori momenti» del suo testo «sono quelli in cui non si può sapere con certezza che cosa è di chi», che suona come un presuntuoso «anch’io posso essere Borges», mi dispiace rovinargli la festa con la mia vaga delusione. La sua mano maldestra è percepibile da qualsiasi buon lettore di Borges e i paragrafi innestati sono parodie ridicole, rimesse allo stile di Eduardo Galeano, romanticismo da quattro soldi intorno al personaggio di Beatriz Viterbo, dialoghi volgari impensabili nella prosa borgesiana. Pare che dietro al megavanguardista si nasconda un’attempata istitutrice tradizionalista perché sembra che Katchadjian pensi che alcuni lettori poco istruiti de L’Aleph non siano in grado di capire la sua soggettività, i suoi maliziosi giochi di parole, la sua ironia libresca. Mosso da compassione, ha deciso così di “ingrassare” il racconto per renderlo esplicito e comprensibile e ha fatto de L’Aleph una narrazione non solo didattica ma anche logorroica, che non toglie niente e ancora meno aggiunge all’originale borgesiano. Confido che Pablo Katchadjian venga esonerato dalla giustizia e tenga lezioni di intertestualità e postpoesia in una qualche università gringa. Non gli mancheranno le offerte. E intanto L’Aleph, quello di Borges, rimane lì, incolume, accecante.
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