Pubblichiamo un’intervista a Johnny Marr, in cui il chitarrista e cofondatore degli Smiths parla della sua autobiografia Set the Boy Free, della musica che gli è stata d’ispirazione e del suo rapporto con Morrissey. L’intervista è apparsa originariamente su Esquire e viene qui riproposta per gentile concessione dell’autore.
di Jeff Slate
traduzione di Michela Piattelli
Quando vado a pranzo a Tribeca con il leggendario chitarrista Johnny Marr, nel bel mezzo del frenetico tour promozionale del suo memoir Set the Boy Free, ci metto poco a realizzare che il fondatore degli Smiths non solo è un risaputo vegetariano (ciotola di riso al chili con aggiunta di tofu per l’apporto proteico, se proprio volete saperlo), ma è anche astemio, e ordina un tè verde molto poco rock’n’roll seguito da uno shottino di soda e mirtillo rosso.
«La scelta del mio stile di vita non è stata affatto una reazione a qualcos’altro», mi dice Marr, che a cinquantatré anni è ancora acuto e ipercinetico come sempre. «Ho colto l’occasione di cambiare rotta perché lo stile rock’n’roll su un uomo di mezz’età cominciava a sembrarmi trito e ritrito. Lo vedevo come qualcosa di datato che mi avrebbe trattenuto nel passato. Cioè, mettiamola così: se avessi pensato che bere e drogarmi mi avrebbe reso un musicista più interessante, in questo momento lo starei facendo. Ma come hanno capito in molti, il gioco non vale la candela».
Per i fan degli Smiths, il libro di Marr farà da contraltare a Autobiography, il memoir dell’ex frontman Morrissey, uscito nel 2013. Ma come tutti i fan del rock alternativo sanno benissimo, Marr ha fatto molto altro nella sua carriera oltre a fondare quel gruppo, e Set the Boy Free è un viaggio lungo il viale dei ricordi che vede la partecipazione del cast stellare con cui si è intrattenuto in veste di superchitarrista a noleggio, e farà probabilmente da guida a chiunque abbia mai sognato di prendere in mano una chitarra e provare a guadagnarsi da vivere con la musica perché, di fondo, Set the Boy Free è un libro scritto da un appassionato di musica per altri appassionati di musica.
ESQ: Quello che ho ricavato dal libro, e ciò che probabilmente ho sempre saputo su di te, è che rispetto alla musica sei prima di tutto un fan, e che hai sempre collezionato dischi. Ma di memoir e biografie di artisti rock ne hai letti molti?
JM: Quando ero in tour con gli Smiths, ai primi tempi, leggevo un sacco di roba sugli Stones. E ricordo di aver letto un libro fantastico su James Brown. Quelle letture mi davano un’idea concreta del mondo della musica, ed erano spesso avvincenti, ma era solo per farmi un po’ di cultura prima di tornare in studio di registrazione.
ESQ: Quando eri agli inizi, aver scoperto nelle tue letture il primo manager degli Stones, Andrew Loog Oldham, è stata una rivelazione per te, a quanto pare. Ti ha aiutato a incanalare le tue ambizioni, come se il suo modo di fare le cose fosse un piano d’azione per realizzare i tuoi obiettivi quando non ce n’era neanche uno a disposizione, di certo non per chi cresceva nella Manchester dei primi anni Ottanta.
JM: Be’, era prima ancora che scrivesse la sua autobiografia, per cui si trattava solo di spizzichi e bocconi che prendevo in biblioteca da interviste molto rare. L’altra cosa che ho capito è che i miei eroi sono tutti anche dei fan. Penso che sia interessante quando i musicisti giovani arrivano che sembrano già maturi, come se fossero degli esperti. Possono non avere esperienza in studio, e non averla negli affari, ma quando Bob Marley realizzava Catch a Fire, sapeva che le armonie vocali dovevano somigliare a quelle degli Impressions. E sapeva come si doveva applicare il panning all’immagine stereo nel missaggio. Insomma era un ragazzino, evidentemente senza esperienza, ma era esperto.
È meraviglioso continuare a pensare come un fan. Quando nel libro parlo del mio incontro con Bruce Springsteen, e di quando mi spiegò la sua filosofia secondo cui ogni biglietto venduto per un concerto è un contratto con un fan, in quel momento ho capito che sapeva perfettamente cosa significava essere fan, perché lo è anche lui. E Paul McCartney, se gliene dai occasione, è capace di parlarti per tutto il giorno di Buddy Holly. Perciò penso che le persone che sono davvero motivate e che vogliono avere successo… in parte è un fatto genetico, ma in parte nasce da una qualche ossessione. Ed è quell’ossessione che fa di loro degli esperti.
ESQ: Là fuori ci sono dei ragazzini che scoprono gli Smiths, o scoprono te grazie a qualcuna delle altre cose che hai fatto, dato che hai suonato con un sacco di gente. È stato anche per questo motivo che hai scritto il libro, perché là fuori potrebbe esserci uno di quei ragazzini o ragazzine e il libro potrebbe essere il suo piano d’azione?
JM: No, per niente, ma a metà della lettura il mio agente mi ha detto: «Questo libro è come un manuale». Credo che in parte sia perché è molto idealistico. Ma io lo sono di carattere. Per cui in quel senso, è un po’ come un manuale. Ed è molto bello che lo possa essere.
ESQ: Parliamo della prima volta che sei venuto in America, con gli Smiths, e hai suonato al Danceteria. Era un locale newyorkese abbastanza famoso, a quel tempo.
JM: Era la prima volta in assoluto che andavo in America. Negli anni ho sentito dire che quella sera si sarebbe esibita anche Madonna, ma non ne sono sicuro per cui non ne ho parlato nel libro. Non volevo trasformare delle voci in un dato di fatto. Ad ogni modo, era la notte di San Silvestro del 1983. Mi sono trattenuto lì tutta la notte ad ascoltare il dj, e mi è piaciuto un sacco. Mi interessava molto perché il mio coinquilino faceva il dj, e potevo ascoltare tutto in anteprima, e mi piaceva parecchio quel tipo di club music. Mi è stata d’ispirazione. Ma sapevo che il gruppo che volevo mettere su sarebbe stato una guitar band, il che dipendeva dall’aver frequentato l’Haçienda [famigerato night club di Manchester]. Era un enorme fabbricato senza un cazzo di nessuno, con circa undici o dodici persone, in genere, forse venticinque il mercoledì sera. Era un mix molto interessante di quello che arrivava da New York e di quello che sarebbe diventato il movimento indie nel Regno Unito. Ci potevi trovare musica dance, ma ci potevi anche trovare Homosapien di Pete Shelley, con quella fantastica chitarra acustica a dodici corde. Quello è un ottimo esempio di disco ibrido. E mi ha colpito parecchio. E l’altra cosa che mi ha influenzato era tutta quella roba electro che stava venendo fuori. Era senz’altro qualcosa in cui immaginavo di poter inserire il gruppo che avevo in mente.
ESQ: Non c’era nessuno che stesse facendo quello che avevi in mente tu. Non avevi qualche dubbio?
JM: Avevo un inguaribile ottimismo, ma fondamentalmente avevo anche tre persone che credevano in me: Joe Moss, che sembrava Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo, che diventò il mio manager; la mia ragazza Angie, che è davvero, davvero fantastica e che credeva in me; e quando ho conosciuto Morrissey, anche lui ha creduto in me. Senza quelle tre persone, non sarei mai stato in grado di sfruttare il mio ottimismo e la mia tendenza all’iperattività. Avevo tre persone molto, molto fighe che mi dicevano: «Ce la puoi fare. Ce la puoi fare. Ce la puoi fare». Non puoi fare mai nulla da solo. Devi essere sempre circondato di persone positive.
ESQ: Ti piace scherzare sulla tua reputazione di iperattivo.
JM: Il termine iperattività mi sembrava molto riduttivo, per cui quella tendenza me l’appuntavo un po’ come un distintivo. Ed ero profondamente consapevole del fatto che ero giovane e magrolino e sovreccitato ma sai, ero proprio come una piccola rockstar. Ed era prima ancora che mi pagassero!
ESQ: C’è senz’altro qualcosa di magico nel modo in cui è successo tutto quanto. Aver avuto delle persone che hanno creduto in te è stato certamente il fattore decisivo. C’è tanta gente che ha talento ma che, per un motivo o per l’altro, non riesce mai a sfondare. Ma c’è un pizzico di magia anche nel fatto che tu sia riuscito a introdurti nel magazzino della Rough Trade e a incontrare la persona che ti avrebbe fatto firmare con l’etichetta, e c’è stata della magia nel modo in cui hai conosciuto Morrissey – e nel fatto che immaginavi la scritta Morrissey e Marr, messa tra parentesi, fin dall’inizio. E poi, già dalle prime due canzoni che avete scritto insieme, era come se avessi riconosciuto all’istante qualcosa di speciale in lui.
JM: Be’, prima di tutto, ho sempre creduto di aver avuto un sacco di fortuna. Ma so anche che la fortuna te la devi creare. Non puoi limitarti a parlare di quello che vuoi fare mentre cazzeggi al bar, o a fantasticarci sopra mentre guardi la televisione.
ESQ: Be’, un sacco di gente non avrebbe voluto collaborare con Morrissey. È un tipo eccentrico, e tu eri molto giovane – e i giovani sono piuttosto intransigenti. Ma non l’hai preso per un matto, né hai dato peso a cose che un’altra persona della tua età avrebbe potuto notare e non apprezzare, di lui.
JM: Non me ne importava proprio nulla. Volevo solo un cantante. La nostra amicizia è stata da subito molto, molto forte. Mettiamola così: la fortuna non la crei dal nulla. Se stai lì a perdere tempo parlando e basta, non succederà niente. Io mi sono dovuto andare a cercare l’indirizzo di Morrissey. Sono dovuto tornare alle case popolari, e ho dovuto bussare a degli sconosciuti per avere quell’indirizzo. E per arrivare a casa sua, sono dovuto salire su un cazzo di autobus, e restarci per un’eternità.
Sapevo che era un azzardo. Ma avevo lo spirito del rock’n’roll. Era una specie di idealismo rock, ma non ero affatto ingenuo. Giravo spesso per le strade di notte tirando calci alle lattine, senza un posto dove andare. Capitava un sacco di volte. Quel genere di disperazione ti può buttare a terra, e dovevo combatterla ogni volta. Per cui cercavo di mantenere il mio innato ottimismo. Quando i miei amici si bucavano a vicenda, mi toccava tenermi su e starmene per conto mio. Era dura. Era l’anno zero, hai presente? Era abbastanza squallido. Perciò, ecco, confidavo nella magia. Ma ne avevo passate abbastanza da sapere cosa fosse lo squallore. Vedevo mio padre che ogni giorno scavava dei buchi del cazzo in mezzo alla strada, e i miei amici che erano disoccupati. E dalla mia parte avevo soltanto la chitarra, lo spirito positivo e la mia ragazza.
ESQ: Parliamo di come suoni la chitarra. Mi ha sorpreso scoprire quanto siano stati importanti per te Iggy and the Stooges e soprattutto James Williamson. Spuntano spesso nel libro, soprattutto negli anni della tua formazione.
JM: Sono dei grandi. Iggy salta fuori in tutto il libro. Non lo conosco bene ma ci siamo incontrati un paio di volte. Pensa molto in fretta. È molto acuto. È stato incredibile realizzare, come hai osservato tu, che ruolo enorme abbia avuto nella mia vita. Raw Power… lo comprai perché un mio amico mi aveva detto che una canzone che stavo scrivendo a quel tempo somigliava a «Gimme Danger». E quella copertina!
ESQ: Mi ha fatto lo stesso effetto, quella copertina, perciò ho portato a casa il disco, e mi aspettavo che fosse in un certo modo, per via del collegamento con Bowie, ma quando ho iniziato ad ascoltarlo non era affatto come credevo. Era ruvido e pazzesco e brevissimo, e mi ha fatto impazzire.
JM: Ruvido. È un buon termine per definirlo. «Penetration», per me, è al livello di James Brown. «I Need Somebody»? È straordinaria. La prima volta che l’ho ascoltata era autunno. Quando sono tornato a casa dal negozio di dischi erano le cinque e mezza-sei ed era buio. Fuori dalla finestra c’era la luce dei lampioni, questa luce arancione che filtrava dentro questa cameretta buia. E io guardavo fuori al di là degli edifici dove vivevo una volta – le case popolari, quelle che in America chiamate projects – e l’unica cosa che salvava il panorama era che non c’era nulla a coprire l’orizzonte, perché non c’erano palazzoni. Insomma ero lì, senza nessuno intorno, con quella luce arancione che entrava dalla finestra, e ho fatto partire Raw Power per la prima volta. E quando è arrivata «I Need Somebody», mi ha parlato in un modo che era malinconico, sensuale e con un tocco di rassegnazione. Avevo già deciso in base a poche tracce che quell’album rappresentava il potere salvifico del rock’n’roll. È molto banale da dire, lo so, ma cose del genere le divoravo, mi ubriacavo di ribellione. Era come se fossi stato messo a parte di una qualche conoscenza segreta. E in quel momento ho capito che l’unico modo per uscire dalla situazione in cui mi trovavo era di diventare bravo.
ESQ: Quindi il tuo stile si è davvero originato da lì, o quasi.
JM: Sì. È stata decisamente una reazione contro il machismo del rock di metà anni Settanta.
ESQ: I fan degli Smiths che ci leggeranno mi ammazzano se non ti chiedo del tuo incontro con Morrissey di qualche anno fa.
JM: Lo capisco. Il bello di aver parlato di quell’incontro è che, penso per caso, grazie al solo fatto di aver raccontato come è andato, l’ho quasi demistificato. Perché ecco cos’è stato, solo due vecchi amici seduti in un pub. Roba molto ordinaria.
ESQ: Ma per i fan, quella versione non è attendibile. Pensano «Oddio, come andrà a finire?» Ma in realtà non va a finire in nessun modo, e viene fuori che era solo un incontro tra due vecchi amici.
JM: È quello che intendo con demistificare. Capisco come la possano vedere gli altri, ma quando sono andato a quell’appuntamento con Morrissey non avevo nessuna intenzione di parlare di una reunion del gruppo, né immaginavo che sarebbe capitato. Ma ero curioso. Ed è stata una conversazione davvero, davvero interessante e io ero davvero, davvero contento che ci fossimo ritrovati, e abbiamo fatto quello che facevamo sempre: abbiamo parlato di quali dischi ci piacessero. Ed eccolo lì a parlare a manetta degli Shocking Blue, che sono un gruppo olandese, e non riuscivo a fargli cambiare argomento! E poi io ho parlato a manetta dell’esperienza con i Modest Mouse a Portland, nell’Oregon – perché all’epoca quello era un argomento enorme per me – e di tutti gli altri gruppi che seguivo al tempo.
ESQ: Be’, quella è stata sempre la base del vostro rapporto.
JM: Esatto. È ciò che abbiamo sempre avuto in comune. Le nostre personalità, però, sono ancora molto diverse, per cui penso che non sia cambiato nulla. Ma è una di quelle cose che le persone vogliono sapere, perché è un episodio interessante. Scrivere la storia della mia vita e non inserirlo nel libro sarebbe stato semplicemente assurdo per me. E sono felice di poterlo condividere con gli altri.
ESQ: A me sembra che ci sia un punto fermo dopo quell’episodio, ma ad altri probabilmente sembrano puntini di sospensione. Credo che la differenza sia questa: ciò che ne traggono le persone. A me sembra che, anche mentre ne parli, tu non voglia tornare indietro.
JM: Sì, è così. È una cosa che i musicisti comprendono. I fan a volte no. Perciò posso capire che il mondo esterno – i fan – quello che vorrebbe è che cominciassimo a fare riunioni con un mucchio di uomini d’affari per cinque o sei mesi, pianificando album e tour, ma è una cosa che non succederà.
© Jeff Slate, 2016. Tutti i diritti riservati.
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