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Juan José Saer: un’intervista inedita, 15 anni dopo

redazione Interviste, SUR

Pubblichiamo un’intervista allo scrittore argentino Juan José Saer rimasta a lungo inedita, nella quale l’autore di «L’indagine» parla delle sue opere, del suo rapporto con Borges e del suo posto nella letteratura argentina. Ringraziamo l’autrice e la rivista «Ñ».

“Lo perseguitai per telefono da varie città europee, finché disse di sì”, racconta l’autrice di questa intervista che ebbe luogo nel febbraio del 1997 a Parigi, dove risiedeva lo scrittore argentino. In un incontro di oltre due ore, parlò di Borges, dei suoi personaggi e del suo posto nella letteratura argentina. “Ho molta voglia di scrivere ancora molte cose”, diceva allora, alla soglia dei 60 anni.

di Norma Dominguez
traduzione di Raffaella Accroglianò

L’appuntamento era nel bar di un hotel, vicino alla stazione di Montparnasse e, secondo quanto disse, a pochi metri da casa sua. Juan José Saer si era già seduto a un piccolo tavolo rotondo e sembrava rilassato. Aveva un pullover di lana color avana, una giacca di pelle scamosciata, e un lieve sorriso, amichevole, che dava sicurezza. Era il 24 febbraio del 1997 e ‘el Turco’, come lo chiamavano i suoi lettori, stava per compiere 60 anni. In quel periodo, l’Argentina era scossa per l’assassinio di José Luis Cabezas e in Francia ancora si usavano i franchi, ma tutta l’Europa parlava di una moneta comune che si sarebbe chiamata euro.

Lo scrittore di Santa Fe, autore di opere meravigliose come El limonero real (1974), Nadie nada nunca (1980), Cicatrices (1969) e La pesquisa (1994; L’indagine, Einaudi 2006), fra le altre, viveva a Parigi da quasi tre decenni e visitava Buenos Aires ogni volta che se ne presentava l’occasione. Fu una chiacchierata-intervista di quasi due ore, che occupò tutta la mattina fino a mezzogiorno. La chiacchierata iniziò con temi generali, quasi irrilevanti, poi cominciammo questa intervista che con il passare dei minuti acquisì sempre più significato: parlava di Las nubes (1997), annunciava La grande (2005) e si augurava l’apparizione, un giorno o l’altro, dei suoi Papeles de trabajo (2012).

Mi hanno detto che sta per pubblicare un nuovo libro…

Sì. Sto terminando un romanzo che uscirà a settembre, per Seix Barral, e contemporaneamente sto preparando un libro di saggi, alcuni già pubblicati e altri inediti. I più recenti sono già noti, perché si tratta di richieste che mi sono state fatte, di collaborazioni, ma tutti insieme non sono mai stati pubblicati, ad eccezione di un volumetto intitolato Para una literatura sin atributos (1986). Questo però sarà molto più voluminoso: conterrà tutti i saggi, carte rimaste nei cassetti, scritti negli anni ’60, ’70 e ’80. Tutti quelli più o meno recuperabili e passabili.

Saranno pubblicati solo in Argentina?

Sì, per ora sì. Poi, contemporaneamente, nello stesso periodo, esce a São Paolo (Brasile) l’edizione portoghese di La pesquisa. Di modo che probabilmente andrò anche lì nella stessa occasione.

Di cosa tratta il nuovo romanzo?

Be’, in verità non mi piace molto raccontare la trama dei miei libri, non perché ci sia qualche segreto o qualche superstizione, ma perché in genere la trama è sempre abbastanza secondaria. A volte non c’è neanche… Ma in questo caso ce n’è un po’ di più. (Stava parlando di Las nubes (1997), anche se il titolo lo scoprii appena apparve nelle librerie porteñe, perché ancora non lo rivelava).

Di più? Più suspence, più poliziesco?

È una vicenda che accade nel 1804, ma scritta molti anni dopo da un medico psichiatra che aveva una clinica nella cintura di Buenos Aires con un altro medico, e che va in una città del nord (al nord del Río Paraná), a cercare quattro o cinque malati mentali per condurli nella sua clinica. Fa tutto il viaggio da questa città con i matti. Ci sono anche alcuni soldati, due o tre prostitute che sempre seguono i soldati, e una monaca con deliri mistico-sessuali. È una specie di western, in realtà. Non avevo ancora affrontato il genere.

Dal poliziesco al western?

Sì. Dal poliziesco al western. Ci sono anche indigeni. È un romanzo che avevo voglia di scrivere da molto tempo.

E l’ha fatto mettendoci tutto, persino una suora con deliri mistico-sessuali. Sembra quasi più forte della pornografia!

La pornografia non è interessante. Non mi piace. In realtà, quando cambio canale e all’improvviso appare uno di quei canali, tutto piovigginoso, con righe ovunque, che non si vede nulla, ecco, quello mi sembra interessante. Perché non si vede nulla e bisogna immaginarsi tutto!

Mi ha fatto arrossire. Torniamo al western. Riappaiono i personaggi di sempre?

Si suppone che sia un manoscritto trovato da un personaggio (un vecchio espediente, potremmo chiamarlo). Dal personaggio di La pesquisa che sta cercando l’autore del manoscritto nei negozi greci, e a un certo punto trova questo manoscritto in biblioteca.

Soldi?

Sí. Soldi trova questo manoscritto e Tomatis lo manda a Pichón Garay, a Parigi. Glielo manda in un dischetto e Pichón Garay lo legge sullo schermo del suo computer. Quindi l’architettura di questo manoscritto è il manoscritto stesso. Contemporaneamente ci sono una serie di cose, oltre al viaggio. Viaggiano nel bel mezzo di un’inondazione, e poi ci sono una serie di catastrofi…

Accade sulla costa?

Sì. E all’inondazione si aggiunge una specie di estate anticipata di san Giovanni, e poco a poco comincia fare un caldo atroce. Dopo viene la Tormenta di Santa Rosa, che li colpisce. E anche un grande incendio a La Pampa, e devono rifugiarsi in specie di laghetto, e l’acqua comincia a bollire. Come dicevo, si svolge sempre in pianura, nelle vicinanze del Río Paraná.

Si ha la sensazione che ogni suo romanzo sia un frammento di un grande e unico romanzo. C’è qualcosa di vero in questo?

Effettivamente è un po’ così. Questa sarebbe la mia intenzione in un certo senso, ma in modo meno lineare. E quando si aggrega un elemento, tutto il sistema, la relazione e le proporzioni delle diverse parti si modificano, cambiano. Questa è un po’ l’intenzione.

Riprende spontaneamente le storie passate?

Quando scrivo un racconto, in genere, ho sempre in testa, se non tutto l’insieme per lo meno una parte delle cose anteriori o di quelle che verranno dopo.

Si identifica con uno o vari dei suoi personaggi?

Con tutti. Tutti dicono che quello che mi somiglia di più è Tomatis. Non ci credo molto. Non credo in questo…

Ma in qualcosa crede…

Credo che tutti i personaggi di un autore sono un po’ l’autore stesso. Ricordo che una volta Borges criticava Punto contro punto (Point Counter Point, 1928) di Huxley. Un romanzo molto alla moda (mi pare negli anni ’70). Fu una sera, durante una cena, che conobbi Borges. Avevo appena finito di leggere Punto contro punto, e mi era piaciuto molto, e a un certo punto lui disse: “Non mi piace questo romanzo perché dice che tutti i personaggi sono lui”. Allora mi parve un’argomentazione valida. Ma adesso, pensandoci retrospettivamente, non credo che avesse ragione. Credo che tutti i personaggi di Cervantes sono Cervantes e tutti i personaggi di Dostoevskij sono Dostoevskij. E la differenza di caratteri diversi, l’opposto, cioè Yago e Otello, sono entrambi parte della stessa persona, di Shakespeare. È un po’ così che vedo le cose.

Come descrive la sua relazione con la figura di Borges?

Diciamo che Borges è Borges. Certi aspetti della sua epica, della sua visione tradizionalista, sono quelli che meno mi motivano della sua opera. Mi annoiano. Le storie dei compari sono ben scritte, ma neanche queste mi sembrano interessanti come altre. Mi propongo sempre di demistificare l’epica; mi sembra quasi necessario dopo che quello che ha vissuto il nostro paese…

Torniamo al suo romanzo. Pichón trova il dischetto. Il personaggio cresce con il suo creatore?

Certo. Il sistema di riferimento che ho scelto fa sì che accada questo naturalmente. Ma, per esempio, il protagonista del mio prossimo romanzo avrà 29 anni e sarà un venditore di vino. (Molti anni dopo seppi che parlava di Nula, il protagonista di La grande, il suo romanzo postumo, pubblicato nel 2005).

È consapevole del posto che occupa oggi nella letteratura argentina?

No. Non lo so. Non penso mai al posto che occupo. Non penso a me stesso in assoluto. Penso in relazione con i miei libri. Se giudicassi in base alla ripercussione che hanno i miei libri, la ripercussione giornalistica, la critica e tutto il resto, penserei di occupare un posto importante. Ma questo è ciò che si vede. Poi c’è molta gente di cui ignoro l’opinione, alla quale probabilmente non piacciono i miei libri. Ma non penso mai in questi termini.

E a cosa pensa?

Penso alla coerenza interna di ciò che scrivo. Questo sì che mi preoccupa. Mi preoccupa scrivere cose nelle quali non credo. Non potrei farlo. Ma non come credo politico o morale, bensì estetico. Soprattutto in una frase o in una parola nella quale non credo, o in una frase che mi sembra che non possa veniire da me. Riconosco immediatamente una cosa che ho scritto da una che non ho scritto. È uguale. Per esempio, un foglio che si mescola con i miei, lo leggo e dico “questo non l’ho scritto io” ed effettivamente è così. E un’altra cosa che mi preoccupa, alla quale penso, e invecchiando penso sempre più spesso, è che mi piacerebbe continuare a creare con la stessa energia, perché ho una gran voglia di scrivere ancora molte cose.

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