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«La letteratura fa esplodere le cose», intervista a Juan Cárdenas

Juan Cárdenas SUR

Pubblichiamo oggi un’intervista Juan Cárdenas, lo scrittore, traduttore e critico d’arte colombiano autore di Ornamento. L’articolo, uscito originariamente su Letras Libres, viene qui riprodotto per gentile concessione di Paula Corroto. Buona lettura!

 

di Paula Corroto
traduzione di Chiara Gualandrini

 

Juan Cárdenas (Colombia, 1978) va al cuore della letteratura. Come se fosse uno scienziato. Ama esplorare e far esplodere quelle che definisce «le potenzialità della fiction». Lo ha fatto in Zumbido [il suo primo romanzo pubblicato nel 2010 da 451 editores  e inedito in Italia n.d.r.] e lo fa in Ornamento, in cui si intrecciano i temi tipici della sua poetica: la scienza, la religione, la droga e la violenza celata. Cárdenas ha vissuto quindici anni in Spagna, ma da quattro è tornato nel suo paese natale, la Colombia. In questa intervista ci racconta il ritorno a casa. E la difficoltà di riadattarsi. Ci racconta storie di donne, di scienziati e di droghe. Secondo lui, viviamo tutti in un mondo violento, seppur in modi molto diversi.

 

Nel 2014 te ne sei andato dalla Spagna. Nel tuo ultimo romanzo [El diablo de las provincias pubblicato dalla casa editrice spagnola Periférica nel 2017 n.d.r.] il tema principale è riadattarsi al proprio paese d’origine.

Sì, ho giocato in maniera ironica con la metafora dell’utero materno, quando vivi per molto tempo all’estero il ritorno nel proprio paese è un’esperienza davvero estrema, perché ti provoca una sensazione di estraneità costante. Sono un po’ straniero in Spagna e lo sono un po’ anche in Colombia. Non mi trattano come uno del posto da nessuna parte. E il libro parla molto di questo, di come si articola un punto di vista in cui c’è uno stato di allerta permanente. Osservi la realtà come una cosa complessa, ma che continua a lanciarti indizi che ti permettono di individuare dei filoni narrativi.

 

Quel è stato l’aspetto più difficile del ritorno a casa?

Tutto, soprattutto perché non stavo tornando in Svizzera ma in Colombia, a Bogotá, ed è stata davvero dura. Ora sto viaggiando molto per l’America Latina. La Colombia è un paese dai forti contrasti. Con l’Instituto Caro y Cuervo insieme a Juan Álvarez abbiamo realizzato un progetto in tutta la regione del Pacifico con i narratori orali delle comunità nere. Abbiamo viaggiato quattro mesi per tutta la costa. Io vengo da quella stessa regione, anche se per modo di dire perché la zona costiera è estremamente irregolare. Fra le persone che abbiamo incontrato ce n’erano alcune che vivevano a sessanta chilometri dal mare eppure non lo avevano mai visto. I collegamenti interni sono pressoché inesistenti. È una realtà così sfaccettata che è un lavoro complicato.

 

Però la Colombia non è più il paese violento di quando te ne sei andato.

Ci sono forme di violenza che sono più esplicite e non sono più diffuse come qualche anno fa, ma la violenza si mostra in tanti altri modi. Esiste una violenza storica ed economica, che non è specifica della Colombia ma di tutto il mondo, e che si manifesta in ogni luogo con caratteristiche differenti. In Colombia prende l’aspetto di megaprogetti di espansione agricola e mineraria, del narcotraffico… Una serie di dinamiche che hanno a che fare con l’economia mondiale e che esercitano una violenza molto forte sul territorio. Anche se abbiamo firmato la pace con le FARC e siamo in una fase politica che non sappiamo dove ci porterà di preciso, è innegabile che queste dinamiche esistano ancora e siano la causa della violenza strutturale che c’è in Colombia.

 

Fra queste dinamiche c’è la droga, un tema molto presente nei tuoi romanzi. E coincide con il boom televisivo delle serie sui narcotrafficanti. Anche se è chiaramente fiction, trasmettono quello che è accaduto davvero?

Queste serie mi sembrano proiezioni della fantasia collettiva, il frutto dell’idea che si sono fatti i paesi che le guardano dei paesi in cui la droga viene prodotta. I colombiani con ci si identificano, è difficile riconoscervi la storia del nostro paese perché non rappresentano veramente quello che è stato, quello che è successo. Ma, nonostante tutto, è inevitabile che abbiano conseguenze sulla percezione che abbiamo. Adesso la Colombia è piena di turisti che fanno il tour di Pablo Escobar, vanno a visitare i luoghi del narcotraffico, la Hacienda Nápoles. Ed è interessante perché storicamente la Colombia è il luogo dove sono passate molte rotte dell’economia mondiale. È diventata presto un centro di produzione e distribuzione della droga… perché la droga è l’altro grande motore del capitalismo.

 

Per questo ne parli tanto nei tuoi libri?

Sì, è un aspetto che mi interessa molto. Uno dei primi scrittori che iniziò a pensare alle droghe in questo senso è stato William Burroughs. Si è reso conto molto presto che le droghe erano uno strumento di emancipazione, di conoscenza, ma anche di assoggettamento e controllo. E ha cercato di esplorare la metafora della droga. Mi sembra molto più interessante recuperare questo lascito che trattarlo in termini giornalistici come fa Narcos, impoverendo ancora di più la metafora della droga. Mi sembra più interessante espanderla, vedere il significato che ha la droga nella società contemporanea. È una questione interessante dal punto di vista letterario.

 

Ti interessa molto anche il campo scientifico. Da piccolo credo desiderassi fare lo scienziato. Per questo i tuoi personaggi sono scienziati, ricercatori e biologi?

Lo scopo di qualsiasi disciplina è cercare di inventare un modo per leggere il mondo, di avvicinarlo alla conoscenza. E tutti questi impulsi in un certo senso sopravvivono ed esistono tra loro delle connessioni sotterranee: la religione e la scienza e la letteratura… non sappiamo bene come operano, ma la letteratura cerca di esplorare le connessioni sotterranee fra mistico e religioso e scientifico. In sintesi, si tratta di essere in grado di intendere la letteratura come uno strumento di conoscenza dove tutto questo confluisce. La letteratura non è un’operazione matematica – e per fortuna non lo è – ma in letteratura c’è moltissima geometria, come nella musica. In letteratura c’è moltissima approssimazione scientifica, molti procedimenti euristici che vengono dalla scienza, o si utilizzano in campo scientifico e vengono applicati anche alla letteratura.

 

È interessante il dibattito che sollevi sulle donne e la sperimentazione sul corpo femminile.

Non scrivo mai pensando a dibattiti strettamente congiunturali. I libri fanno queste cose involontariamente. Sono temi che fluttuano e che tu afferri, ma non c’è una volontà consapevole. Succede soprattutto nella letteratura francese degli ultimi decenni. Ci sono libri che mi piacciono molto, è una letteratura molto attenta ad analizzare i problemi della società contemporanea. Penso ad autori come Carrère, Houellebecq, Despentes… Mi sembra una strumentalizzazione delle potenzialità della fiction, e credo che le possibilità della fiction non vadano strumentalizzate. Dovrebbero muoversi in direzione opposta. Quello che bisognerebbe fare è sfruttarle, liberare la loro energia repressa.

 

In questo senso la letteratura latinoamericana va in direzione opposta a quella europea o anglosassone?

Credo che la grande letteratura di tutto il mondo finisca sempre per liberare le potenzialità della fiction. Questo significa essere in grado di immaginarne le potenzialità. Tuttavia le implicazioni politiche possono essere infinite. Se le potenzialità della fiction vengono strumentalizzate o messe in atto da una tesi o una narrazione precostituita, questo non libera alcuna energia. Costringe anzi a un’operazione di servilismo, e la grande letteratura fa tutto il contrario. Fa esplodere le cose.

 

© Paula Corroto, 2017. Tutti i diritti riservati.

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