Torniamo a proporvi una riflessione sul mestiere dello scrittore, anche questa volta tratta da el malpensante. Oggi si parla di luoghi comuni e chiché letterari, vizi apparentemente inestirpabili per chi lavora con il linguaggio. L’articolo è di Leila Guerriero.
«Laparola»
di Leila Guerriero
traduzione di Alice Lucchiaro
Un’aria solenne e anacronistica è solita accompagnare la voce di alcuni scrittori quando si riferiscono alla materia prima del loro mestiere. L’autrice ricorre invece ad altre fonti per rendere giustizia alla vitalità della scrittura.
Sono uscita a correre e ritorno pensando alla parola «laparola». L’ho sentita pronunciare durante simposi, seminari, premiazioni, congressi, tutti posti zeppi di scrittori, editori, giornalisti, insomma di persone che hanno a che fare, in un modo o nell’altro, con la scrittura, con le sue difficoltà, i suoi ostacoli, le sue epifanie, i suoi pianeggianti terreni da pascolo quando tutto va bene e le sue tormente solari quando niente funziona. In quei posti, prima o poi, qualcuno sale sempre sul palco a parlare di quello che facciamo – scrivere – e dice, per esempio, «il meraviglioso mondo de laparola». O «voi, signori, che vi consacrate interamente a laparola». O «il regno de laparola». O «noi, devoti a laparola». O ancora, «Tizio, che arse e visse nell’ineguagliabile e magico mondo de laparola». E io mi sento malissimo – mi sento malissimo, davvero, a scrivere questo –, perché non poche volte la persona che dice cose come queste è una persona che ammiro, dalla quale ho imparato e continuo a imparare cose e che rispetto. Ma quando sento la parola laparola, penso «Ahi», e provo la stessa cosa che quando sento i politici dire «il popolo», «la gente» o pronunciare frasi come «il destino della nostra nazione»: sconforto, avvilimento senza fine.
Forse, la parola laparola è stata una trovata geniale quando qualcuno l’ha pronunciata per la prima volta. La stessa storia dei denti come perle, delle labbra come rubini, delle guance come mele: tutte gemme che, adesso, non arrivano neanche al rango di bigiotteria da quattro soldi perché, ormai, sono costruzioni svuotate di senso. Così, la parola laparola non dice – o non dice più – niente circa la commozione, l’asfissia, la trance, la solitudine o la dedizione che implicano la scrittura e la vocazione alla scrittura. Non parla del fango pericoloso del linguaggio. Del midollo debole del dubbio. Della gioia selvaggia per la scelta azzeccata. Non dice che sempre, ogni volta, tutta la vita, è come iniziare follemente da zero: predisporsi a essere, di fronte a ciascun testo, lo stesso brandello di carne dubbiosa, lo stesso sarcoma di impazienza, la stessa stupida curiosità incandescente. Quando Tizio dice che Caio si è dedicato anima e corpo a laparola, io non riesco a vedere la lieta crocifissione di Caio. Piuttosto, mi viene voglia di scappare, e sento un bruciore che assomiglia alla vergogna altrui.
Forse sono io. Forse il problema è mio. Forse ho sviluppato un’allergia esagerata per il luogo comune. Perché quelli che fanno uso della parola laparola sono solitamente persone votate alla scrittura, gente che ha piena coscienza di quello che può fare un aggettivo ben posizionato. Gente, insomma, che sa quello che fa.
Il poeta francese Bertrand Noël ha detto una cosa semplice: «Scrivere è come abbracciare un corpo che non si vede». La scrittrice brasiliana Clarice Lispector ha detto che scrivere è una maledizione, «ma una maledizione che salva». Il suo compatriota, Rubem Fonseca, che «il fine profondo di uno scrittore è gonfiare i cuori di paura». Paragonata con una qualsiasi di queste frasi, la parola laparola ha la potenza di un aforisma da poster: nessuna.
Qualche mese fa ho visto un film di Wim Wenders, Pina. È un documentario sulla coreografa e ballerina tedesca Pina Bausch, basato sulle testimonianze di molti componenti della sua compagnia. Ha due momenti impressionanti, epifanici, che provocano quel genere di spavento o di rivelazione che capita solo quando l’arte fa bene il proprio dovere, quando fa male in modo piacevole. Il secondo non c’entra, ma il primo di questi momenti è il seguente: uno dei ballerini della compagnia, un uomo biondo e pallido, dall’aspetto integro, come se l’avessero strofinato fino all’osso, racconta che, durante le ultime prove dello spettacolo Ifigenia, lui ballò malissimo. Il giorno della prima, Pina Bausch entrò nel suo camerino e lui, dopo una prova del genere, si aspettava, con un certo timore, di sentirsi dire qualche frase, qualche raccomandazione. Ma lei lo salutò soltanto e gli augurò buona fortuna. Stava già per andarsene quando, dalla porta, si girò e gli disse: «Ricorda: devi spaventarmi». L’uomo ballò come non aveva mai ballato prima. Quello che voglio dire, con molta modestia, è che la parola laparola non farà sì che balliamo come mai abbiamo ballato prima. Che non si trova lì dove si beve il fuoco crudo che serve per scrivere una certa cosa. Che la parola laparola non spaventa più nessuno.
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