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«Cerco parole o presto la mia voce», conversazione con Silvia Sichel

redazione Interviste, SUR, Traduzione

In merito al progetto sulle Giornate della Traduzione letteraria, pubblichiamo oggi un’intervista a Silvia Sichel che, in oltre vent’anni d’attività, ha tradotto circa ottanta titoli tra romanzi, saggi e racconti per varie case editrici.
Ringraziamo la traduttrice per averci concesso questa intervista e per aver condiviso la sua esperienza. Buona lettura.

Edizioni SUR: Chi desidera avvicinarsi alla traduzione, oltre a una grande passione per la letteratura, ha studiato una o più lingue straniere. Conoscere una lingua a un livello avanzato non è però sinonimo di essere dei buoni traduttori. Da cosa dipende una buona resa del testo, oltre che da una conoscenza approfondita della propria lingua madre? Studio, letture o una dote innata?

Silvia Sichel: La conoscenza approfondita di una lingua è semplicemente un prerequisito. Che sia indispensabile comprendere a fondo l’originale e saper fare un’analisi critica del testo, è ovvio.  Quindi studio e tante letture. Intendo una lettura ragionata, non il divorare libri in modo vorace e acritico. C’è una sensibilità per la lingua che si affina con il tempo. Leggendo molto, s’impara a riconoscere i vari registri, uno spettro di toni che va dal più alto al più basso, dall’astratto al concreto. In sostanza, è una continua ricerca della propria voce che, nel caso del traduttore, viene messa al servizio dell’opera di un altro. Anche i giornali sono una fonte importante, di prima mano, offrono una parte del lessico del tempo.

ES: Tradurre autori viventi vs tradurre classici. Quanto è importante il confronto con l’autore? Quando non è possibile contattarlo come cambia l’approccio al testo?

SS: Ho tradotto più spesso autori contemporanei e considero il confronto con l’autore importantissimo e molto proficuo. Se ne ho la possibilità, lo contatto per esporgli i miei dubbi. Ho quasi sempre trovato molta disponibilità. Con alcuni autori è nato anche un rapporto di stima, di simpatia. Detto questo, la decisione ultima spetta a me, visto che la traduzione è mia, ma gli scrittori con cui ho avuto modo di dialogare non mi hanno mai imposto delle scelte. Oltre che per la voce che gli presta, lo scrittore può contare sul suo traduttore anche per un consiglio. Mi è capitato di recente che un autore mi chiedesse di leggere il romanzo che aveva appena terminato e non ancora consegnato.

Con i classici o una nuova traduzione di un testo già tradotto l’approccio è certamente diverso. In quel caso, per esempio, mi sono procurata le traduzioni precedenti, che non si devono ignorare. Prima però ho lavorato lasciandole riposare nella libreria, perché è molto difficile non venire permeati da un’altra versione su cui, oltretutto, è già intervenuto il revisore.

ES: Hai mai riletto la tua prima traduzione? Cosa si prova a rileggersi dopo tanti anni?

SS: Ho riletto traduzioni fatte in passato, in occasione dei seminari che tengo. A volte provo una specie di sperdimento, come se stessi leggendo un romanzo che apro per la prima volta. Mi capita di andare a controllare se una certa frase l’ha cambiata in ultima battuta il redattore o se ho scritto proprio io quelle parole. Non perché non mi piacciano, ma perché mi stupiscono. Le ho scritte io, ma ormai sono diventate di un altro, sono il libro tradotto.

ES: Quanto è o non è riconosciuto il mestiere del traduttore? In un mondo ideale, quale prassi dovrebbero adottare gli editori per tutelare e valorizzare la categoria?

SS: Ci sono due aspetti da prendere in considerazione: il riconoscimento culturale e quello economico. Mi soffermo brevemente sul primo, che è un problema più generale.  Nel nostro paese, come si sa, c’è una scarsa consapevolezza del lavoro del traduttore, snobbato a volte anche da chi lavora nella e per la cultura. Questa mancanza è indice di arretratezza. Indebolisce, inoltre, la forza contrattuale della categoria. Soprattutto per questo è fondamentale insistere affinché il nome del traduttore non sia mai dimenticato ed è importante parlare del mestiere ai lettori. L’editore dovrebbe coinvolgere il traduttore anche nella fase di presentazione del libro.

Certamente, è stato fatto molto negli ultimi anni per dare visibilità al traduttore, ma le iniziative sono partite dai traduttori stessi.

ES: Se non facessi la traduttrice, cosa faresti?

SS: Mah, avrei una crisi d’identità. Ho cominciato a tradurre (parola grossa in questo caso) greco e latino al liceo, ho continuato all’università cercando di pubblicare traduzioni di racconti o recensioni di opere tradotte dalle lingue che conosco su tutte le riviste che potevo, ho fatto l’interprete, ho lavorato come revisore di traduzioni di colleghi, ho tradotto più di ottanta libri. In breve, cerco parole o presto la mia voce da decenni. Con gli anni ho sentito l’esigenza di uscire spesso dalla stanza del traduttore, di insegnare lingue, traduzione (l’insegnamento mi piace ed è un confronto e un’occasione preziosa di aggiornamento), di partecipare a eventi, di trasmettere le mie esperienze, ma non riesco a pensarmi senza una pagina da tradurre. Ai tempi del liceo volevo fare la giornalista. Sempre di carta stampata si tratta. Di scrittura.

ES: Consigli per un aspirante traduttore (fare un altro mestiere non vale come risposta).

SS: Fare un altro mestiere non è una risposta che darei. Non si può pensare di intraprendere questa professione, in Italia poi, ignorando che il lavoro, specialmente all’inizio, non sarà costante e non offrirà abbastanza per mantenersi. Sarebbe bello, ma la realtà ci dice che è privilegio, o merito, di pochi. Preso atto di questo, si può cominciare a costruire il proprio sogno, o almeno a provarci, partendo da una solida formazione. Può valere il consiglio di presentare una proposta di traduzione di un’opera non ancora tradotta a case editrici che ne accolgono, dopo avere studiato a fondo il loro catalogo.  Diciamo che ci vuole molta costanza per aspirare a un mestiere precario, in cui non ci si può permettere di stare fermi ad attendere la proposta della casa editrice di riferimento nemmeno se si è traduttori esperti. Ma se si è convinti dei propri mezzi e si ha molta passione, bisogna tentare. Tradurre narrativa è appagante (anche frustante, a volte).

ES: Traduci dallo spagnolo e dal russo, due lingue e due universi molto lontani: com’è nata questa combinazione? Senti di avere maggiore affinità per una lingua o per l’altra?

SS: Un accostamento nato quasi per caso. Volevo iscrivermi a Lingue alla Statale, mi piaceva Milano, dove i corsi di inglese brulicavano di gente. Il russo e lo spagnolo erano poco frequentati allora (per non dire del greco moderno, la mia terza lingua che ho perso per strada). Il russo mi attraeva perché era una lingua che conservava tutti i casi, si parlava declinando, e lo spagnolo perché era la lingua di García Márquez, letto da ragazzina con l’approccio candido di chi non era ancora mai stato all’estero e vedeva l’America Latina già di per sé come un mondo magico. Due lingue che offrivano un patrimonio letterario straordinario. Tutto da scoprire, per me. Molti mi dicevano che non ci avrei lavorato. E invece eccomi qua. Queste mie due lingue straniere sono sempre state il mio strumento di lavoro. Le insegno. Le amo. Non voglio fare torto a una dicendo che provo più affinità per l’altra. A periodi alterni ho usato più l’una o più l’altra, ma le ho sempre coltivate entrambe. Il russo lo collego all’esperienza formativa, perché studiare in Unione Sovietica un tempo lo era, era una specie di avventura, così come lavorarci. Grazie allo studio del russo è arrivata la prima scoperta del concetto di traduzione letteraria. Al liceo nelle versioni dei classici greci e latini si mirava alla correttezza, alla resa di senso, non a quella stilistica. Le liriche si analizzavano, s’imparava la metrica, si faceva la parafrasi. La prima volta in cui ho veramente riflettuto sulla complessità della resa poetica è stato durante un seminario alla Statale. Si analizzava L’infinito di Leopardi nella versione di Anna Achmatova. E mi si è spalancato un mondo. Da quel giorno ho cominciato a far caso al nome del traduttore dei libri che leggevo. Con il russo parlato, poi, ho molta confidenza, grazie al lavoro di interprete. Lo spagnolo, invece, non è stata la lingua dell’avventura ma quella della maturità, della consapevolezza, e l’ho studiato pervicacemente. Direi che è la lingua della traduzione letteraria. La lingua della lettura. Se penso alle mie letture degli ultimi vent’anni, la parte del leone la fanno libri in lingua spagnola.

Silvia Sichel

Silvia Sichel in oltre vent’anni d’attività ha tradotto circa ottanta titoli, tra romanzi, saggi e racconti per varie case editrici (Guanda, Longanesi, Neri Pozza, Ponte alle Grazie, Sellerio, Sur tra gli altri). Ha una lunga esperienza come redattrice esterna e come lettrice editoriale. Tiene laboratori di traduzione letteraria presso l’Instituto Cervantes di Milano. Tra gli ultimi autori che le sono stati affidati: Juan Gabriel Vásquez, Clara Usón, José C. Vales e Andrés Neuman. Cura una rubrica sul blog della biblioteca del Cervantes, in cui si propone di offrire qualche spunto sulla traduzione letteraria a lettori che traduttori non sono. Insegna lingua russa e spagnola al Centro Istruzione Adulti di Parma.

 

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