D&Q

Azzardo o semplice novità? I primi 25 anni di Drawn and Quarterly

Paul Morton BIGSUR, Editoria

Un viaggio alla scoperta della casa editrice canadese di fumetti Drawn and Quarterly. L’articolo è apparso originariamente su The Millions, che ringraziamo.

di Paul Morton
traduzione di Tessa Bernardi

1.

Gli appassionati di fumetti della mia generazione avevano una reading list. Alle elementari, apprezzavamo il taglio sadomasochistico dato da Chris Claremont alla serie X-Men e le ristampe dei Fantastici Quattro di Jack Kirby. A dodici anni, passammo a Watchmen, Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Maus, che affrontavano temi che noi ragazzini vedevamo come roba da adulti, tipo il fascismo, il complesso militare industriale e l’Olocausto. Tra gli anni del liceo e l’inizio dell’università, un amico dirottò il nostro interesse verso Neil Gaiman, i racconti brevi di Adrian Tomine e, visto che guardare Betty Boop fare sesso era divertente, anche verso le ristampe delle Bibbie di Tijuana. Durante una lezione di scienze politiche, un assistente ci assegnò Palestina di Joe Sacco, con la prefazione di Edward Said. Poche altre pietre miliari del mainstream letterario suscitarono il nostro interesse: Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra, la copertina del New Yorker dell’11 settembre a cura di Art Spiegelman, Fun Home. Una tragicommedia familiare, così come due romanzi, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay e La breve favolosa vita di Oscar Wao. Abbiamo sempre tenuto le nostre copie di Eightball accanto alle uscite di Granta. E ora il resto del mondo fa la stessa cosa.

La scuderia di autori della Drawn and Quarterly – Lynda Barry, Kate Beaton, Chester Brown, Daniel Clowes, Julie Doucet, Jason Lutes, Joe Matt, Joe Sacco, Seth, James Sturm, Jillian Tamaki, Adrian Tomine, Chris Ware – rappresenta almeno un quarto del rinascimento del fumetto di qualità, di questa grande forma d’arte, nel mondo anglofono. Quest’estate, l’editore indipendente con sede a Montreal ha pubblicato un’antologia di 776 pagine per celebrare i suoi venticinque anni, Drawn and Quarterly: Twenty-Five Years of Contemporary Cartooning, Comics, and Graphic Novels. È un libro divertente, con lavori vecchi e nuovi degli artisti della casa e contributi pieni di apprezzamenti da parte di studiosi, compagni di viaggio e scrittori.

L’antologia delle opere di un editore è, di fatto, un’agiografia. E non c’è niente di male. Ci sono altre sedi per criticare aspramente i fumetti. La stampa convenzionale sta imparando a mostrare un occhio più critico verso la forma, a non proclamare che ogni nuova graphic novel di artisti più o meno famosi sia chissà quale innovazione rivoluzionaria. Su internet ci sono tanti podcast che le graphic novel le ridimensionano. L’antologia di D&Q somiglia a un annuario scolastico, con tanto di fotografie in stile album dei ricordi. I contributi di carattere personale che descrivono com’è cambiato il lavoro sono più interessanti per i loro stessi autori che per i lettori. Ciò premesso, il libro ci dona anche qualcosa di più importante. La fase iniziale del rinascimento del fumetto è finita, e la pubblicazione di questa antologia offre l’opportunità di capire cosa abbia caratterizzato D&Q, cosa abbiamo cercato noi lettori di fumetti negli ultimi venticinque anni e cosa stiamo cercando adesso.

2.

Chris Oliveros, fondatore e direttore editoriale di D&Q, era sveglio, operoso, e aveva un occhio eccellente per il talento, ma non è stato il primo né l’unico. La Fantagraphics era già attiva da qualche anno quando Oliveros diede vita al suo progetto e pubblicò The Comics Journal, sede di dibattiti esuberanti e infiammati per i giornalisti e i critici del fumetto. Gli artisti di punta della Fantagraphics, i Los Bros Hernandez, erano giovani figli ispanici della scena punk. Art Spiegelman e Françoise Mouly curavano l’edizione della rivista RAW. Robert Crumb, Peter Bagge e Aline Kominsky-Crumb pubblicavano Weirdo. Alison Bechdel e Howard Cruse si erano ricavati la propria nicchia nelle pubblicazioni queer. C’era spazio per fumettisti mordaci che presentavano storie che nessun altro raccontava, ma era uno spazio limitato. D&Q fu un gradito nuovo arrivo nel panorama fumettistico.

D&Q debuttò nell’aprile del 1990 con un’antologia di fumetti in bianco e nero. Rientrava nelle dimensioni tradizionali delle riviste da edicola (8½’’ x 11’’). Aveva 32 pagine e una copertina patinata. Con quella prima pubblicazione Oliveros, che all’epoca era poco più che ventenne, esigeva standard più alti rispetto alla media fumettistica e deplorava il «circolo chiuso per soli maschi» che caratterizzava l’industria del fumetto. Quel manifesto delineò lo stile che l’azienda avrebbe alla fine adottato.

La distribuzione della rivista si basava sul «mercato diretto», negozi specializzati in comic book che compravano le copie senza la possibilità di resa. A quel tempo, era l’opzione più praticabile a livello economico, ma era anche un limite per la diffusione della rivista. Poco dopo la prima edizione dell’antologia, Oliveros cominciò a pubblicare comic book di singoli artisti. Nel giro di pochi anni, la rivista antologica iniziale diventò a colori e D&Q si ritrovò a invadere i Virgin Megastore (che in Nord America sono scomparsi), i Tower Records (scomparsi del tutto) e il mercato Amazon pre-monopolio. Oliveros iniziò a pubblicare storie a puntate, in paperback di qualità e in hardback, e graphic novel autoconclusivi. I negozianti non sapevano bene cosa farsene di questi fumetti, né come venderli a clienti che leggevano romanzi letterari. Peggy Burns, addetta stampa della DC Comics, passò a D&Q nel 2003, e nel 2005 strinse un accordo di distribuzione con Farrar, Straus and Giroux. L’editore che pubblicava Jonathan Franzen ora lavorava anche con Adrian Tomine, come era giusto che fosse.

I contributi contenuti nella nuova antologia dimostrano che D&Q tiene in alta considerazione i propri artisti. Permette loro di fare ciò che vogliono, e alcuni possono rifinire i loro libri nei minimi dettagli, scegliendo il tipo di carta, la dimensione e la qualità di stampa. Sono veri e propri artigiani del libro. Gli artisti di D&Q sono cordiali con i loro ammiratori. Vanno a conoscerli alle fiere e passano ore e ore ad autografare i loro libri con schizzi e illustrazioni. Chi ha letto questa antologia è probabilmente a conoscenza delle storie più famose che negli ultimi anni circolano nell’ambiente, e sa che un editore di fumetti che concede ai propri artisti di dare sfogo alla loro genialità, non li costringe ad assumere un avvocato e non popola la propria scuderia di autori con individui misogini, è un editore straordinario.

3.

Non c’è accordo sul perché D&Q sia un così buon editore. Le testimonianze contenute nel libro sono contrastanti.

Jason Lutes, autore di Berlin e Giara di stolti: «Facevano il genere di fumetto per cui andavo pazzo – sulla scia della rivista RAW di Art Spiegelman, ma liberandosi dall’influenza della cultura underground americana, che fino a quel momento aveva eclissato così tanti “fumetti alternativi”».

Tunde Adebimpe, dei TV on the Radio, a proposito della sua iniziazione a D&Q: «Da allora non ho desiderato altro che leggere e scrivere fumetti “alternativi”, guardare e girare film “alternativi”, ascoltare musica “alternativa” e, in pratica, assorbire qualunque cosa sembrasse anche solo minimamente sovversiva».

Anders Nilsen descrive l’editore e il suo «impegno discreto e silenzioso per ottenere un lavoro di qualità».

Non sempre c’è molta chiarezza su chi sia fuori e chi dentro, su cosa sia un azzardo e cosa sia una semplice novità. Sono queste contraddizioni a caratterizzare D&Q.

Cominciamo con Kate Beaton, che utilizza il formato della striscia fumettistica e uno stile naïf per demolire i miti della cultura alta occidentale. Nel suo saggio, Margaret Atwood scrive: «Chi non ha mai disegnato braccia e baffi alla Venere di Milo che aveva sul libro di testo di latino scagli la prima gomma da cancellare». In una delle parodie di Beaton del Grande Gatsby, il nostro eroe si lamenta perché la luce verde gli fa sempre prendere un colpo. L’opera di Beaton non è così tanto sovversiva. Un’insegnante al passo coi tempi mostrerebbe quella vignetta ai suoi allievi, e sorriderebbe se le rispondessero che è migliore del passaggio corrispondente nel testo. Atwood prosegue: «È ovvio che per parodiare un’opera letteraria o un evento storico li si debba conoscere e, in un certo senso, amare – o si devono almeno comprendere i loro meccanisimi interni».

Nei primi anni Novanta, Adrian Tomine era un prodigio che scarabocchiava i suoi macabri mini-fumetti e riceveva le osservazioni di Oliveros per posta. Nel corso degli anni, i suoi lavori sono diventati più sobri e maturi, e adesso è un maestro della narrazione nelle diverse permutazioni della forma fumettistica. Françoise Mouly fornisce una descrizione dell’«estetica splendida e spoglia» delle sue copertine del New Yorker, che «formano un peana in onore del pathos della vita quotidiana nella metropoli». I momenti catturati in quelle copertine sono pregni d’ambiguità, e Tomine «trova l’umanità del piccolo centro urbano all’interno della grande città». Le sue storie ritraggono esseri umani che combattono contro la propria mediocrità. La sua opera è equilibrata. Le linee precise. La disposizione sulla pagina e l’organizzazione delle vignette non lasciano spazio alla confusione. Tomine possiede uno stile classico e delicato ed è capace di portarti a un passo dalle lacrime.

Jonathan Lethem descrive Chester Brown come «un’anima dissidente, cittadino di una nazione senza tempo, un po’ come l’uomo sotterraneo di Dostoevskij. Allo stesso tempo, è anche cittadino di una nazione abitata soltanto da sé stesso: Chesterbrownopoli, o Chesterbrownlandia, un luogo desolato e al contempo saturo che sembra non poter fare altro che abitare». I soggetti di Brown spaziano dal rispettabile al limite del sovversivo. Louis Riel, il suo libro più conosciuto, oggi è argomento di studio nelle scuole pubbliche canadesi. Io le pago è un’autobiografia in cui ricorda la sua vita da frequentatore di prostitute. L’antologia include «The Zombie Who Liked the Arts», un racconto del 2007, che narra dell’infatuazione di uno zombie per una donna umana. Queste sono storie di uomini soli, di un aspirante rivoluzionario che lotta contro la pazzia, di amanti che disprezzano i propri corpi. Il legame di Brown con la cultura underground potrà anche essere meno sottile ma, a differenza degli artisti di RAW e Weirdo, e anche a differenza di Fëdor Dostoevskji, se è per quello, lui non finge di non avergli dato una bella lustrata.

Questi libri costituiscono una minaccia? Nel suo libro del 2005, Alternative Comics: An Emerging Literature, Charles Hatfield osserva che il fumetto alternativo degli anni Settanta aveva bisogno del formato tradizionale del fumetto come strumento per veicolare il proprio messaggio, e fa notare l’ironia insita nell’uso di un mezzo associato al «bambinesco» per trattare tematiche illecite, «da adulti». «L’aspetto e il formato facevano a pugni con il tipo di argomenti di cui gli artisti volevano occuparsi, ed era questo a rendere unici i fumetti underground». Non saprei dire se l’aspetto esteriore abbia ancora la stessa importanza, se l’inclusione delle storie tristi e mature di Tomine all’interno della compattezza delle pagine di un graphic novel causi ancora la stessa frattura.

La mia edizione speciale di Lève Ta Jambe, Mon Poisson Est Mort!, in cui Julie Doucet esplora la perversione sessuale, include la litografia di una danzatrice del ventre nuda sul frontespizio e una recensione sperticata di ArtForum in quarta di copertina. Sean Rogers descrive Doucet e le sue «accattivanti incursioni in un’immaginazione disinibita, piena di fantasiose esibizioni di flussi mestruali, indicibili parti del corpo recise, e oggetti inanimati messi al servizio del piacere». Doucet è una delle scrittrici più anarchiche di D&Q, e può darsi che la sua sessualità non dovrebbe trovarsi inserita in un’edizione rilegata così ben rifinita, ma forse è altrettanto scandaloso leggere Foglie d’erba o Lamento di Portnoy nelle edizioni economiche della Library of America.

L’aspetto esteriore di questi libri è importante per altri motivi. Ce lo spiega Eleanor Davis, autrice di How to Be Happy:

Amare un libro che contiene prosa è come amare una tazza piena di una bevanda deliziosa: tazza e bevanda sono legate tra loro in modo circostanziale. Amare un comic book è diverso. Il contenuto e la forma del fumetto sono legate indissolubilmente. I piccoli, singoli disegni sono tenuti insieme dalle pagine del libro in cui sono stampati, e non possono trovarsi altrove. Quando si prende in mano un comic book, si prendono in mano quei mondi. Sono nostri. Drawn and Quarterly pubblica fumetti straordinari e, essendo un editore straordinario, sa come creare libri straordinari in cui ospitare quei fumetti.

Non è tanto l’ironia a rendere belle quelle edizioni in copertina rigida di Beaton, Tomine, Brown e Doucet, quanto la maestria che porta al perfetto connubio tra mezzo e contenuto, la maestria di chi ha capito che una piccola edizione standard in copertina rigida è adatta alla sobria malinconia intimistica di Non mi sei mai piaciuto di Brown, e che un’edizione più grande e larga, simile a quella delle Avventure di Tintin, è perfetta per la sinistra fantasia di The Death-Ray di Daniel Clowes. I vari formati nel catalogo di D&Q non fanno altro che offrire un’ulteriore consistenza a ognuna delle diverse voci dei loro artisti.

Dopo venticinque anni, i metodi formalisti degli artisti di D&Q, il loro umorismo sarcastico, le emozioni umane tracciate con attenzione, la solida compattezza del comic book o del graphic novel come strumento, non solo sono diventati familiari ai lettori di fumetti, ma hanno dettato gli standard del fumetto di qualità. Il loro contenuto, nella maggior parte dei casi, non è sconvolgente, e persino le voci sovversive oggi sono molto meno minacciose rispetto al passato. La trattazione di Brown del tema della prostituzione non è più provocatoria di quella che ne fa Dan Savage. La schietta analisi della sessualità femminile di Doucet non sarà mai tanto scandalosa come lo era nei primi anni Novanta. Questi artisti non sono mai stati rivoluzionari. Non sono mai stati nemmeno reazionari. Sono liberali burkiani del panorama fumettistico.

4.

Oltre all’autocelebrazione, l’antologia fa anche dell’ironia su sé stessa, sull’industria del fumetto e sui volti noti dell’ambiente. Il libro contiene una nuova storia di Jillian Tamaki su una dipendente di D&Q che, dopo essere stata licenziata da Oliveros per aver criticato la casa editrice sul suo blog, trova fama e fortuna altrove. Include anche un appunto manoscritto di Spiegelman a Oliveros, in cui il disegnatore declina una richiesta dell’editor: «Sono un grande ammiratore delle opere di Julie e, se messo alle strette, potrei anche farmi convincere a scrivervi un paio di righe, ma gradirei che evitaste di mettermi in mezzo perché di recente ho dovuto buttare giù fin troppi stramaledetti blurb. Non saprei». Il libro si apre con una breve striscia di Chester Brown, «A History of Drawn & Quarterly in Six Panels», che ritrae il passaggio dalla giovinezza alla piena maturità di Oliveros. Nell’ultima vignetta, Oliveros è da solo in una gelida strada deserta di Montreal.

Quest’anno Oliveros andrà in pensione. Sarà Peggy Burns, l’addetta stampa che passò a D&Q dalla DC Comics, a dirigere l’azienda. Questa antologia è un tributo all’editore e alle sue imprese. Ha scoperto talenti straordinari, ampliato la platea di lettori dei fumetti non incentrati sui supereroi, ha creato una piccola istituzione canadese e ha ripubblicato opere dimenticate che altrimenti sarebbero finite in archivio (pubblicando ristampe di fumetti vintage di autori americani come John Stanley e traduzioni di classici artisti e scrittori stranieri come il finlandese Tove Jansson, D&Q è anche un po’ la NYRB Classics del fumetto). Con tutti questi successi alle spalle, il messaggio della striscia di Brown non può che essere ambiguo, ma potrebbe essere più o meno questo: l’industria del fumetto non ha il potere di cambiare alcunché. La maggior parte della gente è indifferente al vostro lavoro così come è indifferente alla poesia. Il fumetto, nella sua forma artistica, non vi porterà a chissà quale rivelazione, né saprà regalarvi grandi gioie, ma non porterà neanche sofferenza. Gli autori e i lettori di fumetti invecchieranno e si avvicineranno all’ora della loro morte come avrebbero fatto se avessero seguito qualunque altra vocazione o si fossero dedicati a qualunque altro passatempo.

Alcuni dei fumetti di D&Q possono anche aver istruito qualche mente, ma la maggior parte degli artisti dell’editore accettano la propria irrilevanza. Quando ero piccolo, leggevo Maus, Watchmen e Il ritorno del Cavaliere Oscuro perché parlavano di stermini di massa, perché erano strani, e perché trattavano il tema della violenza in un modo che credevo reale. Li tengo ancora sullo scaffale e di tanto in tanto li sfoglio, ma ora hanno un’attrattiva diversa. Oggi mi rendo conto che Watchmen ha del comico. Anche Il ritorno del Cavaliere Oscuro è abbastanza divertente. Maus parla tanto degli orrori del presente quanto di quelli del passato. Leggo Beaton, Brown, Tomine e gli altri perché, con ogni tratto ben disegnato e ogni battuta ben raccontata, mi ricordano che anche la monotonia ha i suoi aspetti piacevoli e che il fumetto non deve essere impegnativo.

© Paul Morton, 2015. Tutti i diritti riservati.

Paul Morton ha lavorato come giornalista culturale in Vietnam, Bulgaria e Lettonia. Ha inoltre completato una borsa di studio Fulbright a Budapest, dove ha svolto ricerche sull’industria dell’animazione nell’Ungheria dell’epoca comunista. La sua intervista con l’autore della Marvel Brian Michael Bendis è apparsa in Ultimate Spider-Man: Ultimatum. Attualmente vive a Seattle dove svolge un dottorato di ricerca in Studi sul Cinema alla University of Washington. La sua mail è paulwilliammorton@gmail.com. Il suo blog è My Thought-Dreams.

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