José Muñoz, celebre fumettista argentino attivo da oltre quarant’anni: ha studiato con i maestri Alberto Breccia e Hugo Pratt, ha creato con lo scrittore Carlos Sampayo la serie Alack Sinner e ha illustrato opere di grandi autori come Arthur Conan Doyle, T.S. Eliot e Julio Cortázar. Forse l’avete incontrato lo scorso dicembre a Più Libri Più Liberi, mentre firmava le copie dei suoi Billie Holiday e Carlos Gardel, le biografie a fumetti ancora una volta frutto di una collaborazione con Sampayo. Ma se a dicembre non eravate a Roma, o se volete soffermarvi di nuovo di fronte al suo tratto leggero o ai suoi discorsi saggi e sognanti, non perdete l’occasione questa domenica 24 febbraio alla Scuola Holden: José Muñoz sarà ospite di In viaggio con Sur – Festival di letteratura latinoamericana, in un doppio appuntamento con Guido Scarabottolo prima e, a seguire, con gli altri autori del festival.
Nel frattempo, condividiamo con voi la versione integrale della splendida intervista che Virginia Tonfoni ha realizzato per Alias – il manifesto durante Più Libri Più Liberi. Ringraziamo autrice e testata per la gentile concessione e vi auguriamo buona lettura.
di Virginia Tonfoni
La sua più prolifica collaborazione, quella con Carlos Sampayo, nasce negli anni Settanta. Si tratta di un incontro tra due autori argentini, in Europa, che creano un personaggio statunitense. Come ricorda questo storico incontro creativo? Come nasce e cresce il personaggio di Alack Sinner?
«Cosmopolitani»di origine argentina, Carlos e io ci siamo conosciuti in Spagna nella primavera del ’74, grazie a un amico comune, Oscar Zárate. Io venivo da Londra. Appena ci siamo seduti, abbiamo intuito che si stava manifestando il nostro destino; deliziati nelle conversazioni che si aprivano, ci siamo messi a investigare l’altro, scoprendo le passioni narrative, politiche, estetiche, cinematografiche e musicali comuni, e anche quelle non condivise, passioni che mescolandosi nel lungo cammino ci hanno illuminato vicendevolmente, passioni creative che ci hanno pressoché immediatamente portato verso il «giallume» e la«noiritudine», verso Alack Sinner, il nostro Ahimè Peccatore.
Pur essendo profondamente legato al genere e all’iconografia dell’eroe hard boiled, Alack Sinner si definisce storia dopo storia come un fumetto di denuncia sociale. Mi chiedo se è proprio dalla «solidità» e autorità di un determinato genere – molto in voga e largamente codificato negli anni Settanta/Ottanta – che si può attuare con più successo la disgregazione dello stesso e la conseguente critica al reale.
In Dashiell Hammett e Raymond Chandler si affacciano i mali che affliggono la società; avevamo visto e sentito che in questo genere narrativo si potevano denunciare, raccontare, analizzare, sublimare catarticamente le disgrazie sociali, l’ingiustizia, l’imbecillità morale, gli inabissamenti atterriti nelle tenebre dell’animo umano e anche, volendo, i suoi eventuali patetici ma necessari antidoti: l’affetto disinteressato, l’amicizia franca, la solidarietà, la possibilità di immedesimarsi nelle altrui circostanze, di agire collettivamente. Abbiamo costruito storie e disegni con la dolente, perduta e amata gente, facendoci spazio in mezzo a un’impaurita mandria feroce, predatrice di sé stessa, che galoppa nella calca fuggendo chissà dove, attraverso i millenni, ovvero noi, l’umanità.
In Argentina, negli anni Sessanta/Settanta, Jorge Luis Borges e Rodolfo Walsh frequentavano e difendevano con il loro lavoro, questi campi narrativi. Nel ’74, quando siamo arrivati in Italia, nelle pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali, della narrativa gialla e noir si parlava quasi soltanto per perdonare la sua esistenza. C’era una specie di biancore gerarchico, «nobile» e accademico che dettava legge nella letteratura: mi ricordo di articoli che insultavano sottilmente Giorgio Scerbanenco, dandogli dell’artigiano populista, del cronista di nera o rosa, afflitto da pretese narrative. Dopo abbiamo conosciuto Marcello Ravoni, Oreste del Buono e la gente della Milano Libri e, dopo ancora, Georges Wolinski. Menomale.
Sinner, alla lettera il Peccatore, ama confidarsi con il barista Joe e con altri personaggi. Da dove viene questa vena intimista, così insolita per i duri protagonisti del genere?
Nel corso del lavoro su Alack Sinner (il nome che abbiamo trovato è stato decisivo: un’immensa porta verso l’hard boiled mediterranean soup), i personaggi come Joe, Enfer, Sophie, Cheryl sono cresciuti nel nostro intimo, acquistando spessore, conversando fra loro… Tutto il resto è venuto a galla in modo spontaneo. Ci siamo trovati ad animarli con le nostre gioie, disperazioni alte e basse, letture, visioni, pensieri e sensazioni. Ecco: parole e disegni diversamente animati.
Com’è nata l’idea del gioco metanarrativo, al tempo davvero innovativo, con il quale lei e Sampayo vi siete raffigurati in un’avventura di Alack Sinner, La vita non è un fumetto, baby? I vostri doppi si esprimono esplicitamente in toni critici verso gli Stati Uniti in elementi che si intuiscono anche dal racconto…
Sì, prima pensavo che gli Stati Uniti nel loro complesso avessero la colpa di tutto, tranne Hammett, Chandler e i cineasti alla loro altezza ovviamente… Dopo siamo andati avanti. A volte non avevamo né case né permessi di soggiorno e cercavamo rifugio fisico nelle nostre storie e così siamo andati da Alack, il quale, ripensandoci col tempo, nel sopportare i nostri discorsi sudaca, da sudamericani, ci fece capire la sua sconsolata bontà.
Le biografie di Billie Holiday e di Carlos Gardel sono organizzate attraverso una cornice «mediatica»: la triste vita di Billie Holiday attraverso il pezzo che un giornalista scrive per il trentennale della sua morte, e la complessa e misteriosa vicenda personale di Gardel è raccontata attraverso un programma tv. Perché avete scelto questa struttura?
In entrambi i casi queste scelte narrative ci hanno dato la possibilità di guardare Billie e Gardel da una posizione esterna, i media che, come ben sapete, non fanno tutti un lavoro come il vostro, al manifesto. Qui abbiamo scelto di analizzare i media nelle loro degenerazioni scandalistiche, nella loro febbrile e quotidiana costruzione e distruzione di miti, nell’asservimento alla morbosità che una parte del pubblico chiede alle notizie per poi accettarle ipocritamente solo se camuffate.
Tutto questo aggravato dal quotidiano obiettivo capitalistico-pubblicitario di farci acquistare profumi, macchine, vestitini di stoffe iridescenti bagnati da sostanze mefitiche indossati da biondine dallo sguardo vitreo e firmati da importanti marche del mercato modaiolo etc.
Nel caso di Billie, storia uscita nel 1988-’89 sulla rivista Corto Maltese, il superficiale giornalista, nella sua ignoranza indispettita e nel suo obbligo di scrivere una necrologia, ci permetteva di navigare dal pubblico al privato. Ho sentito che i miei neri si imponevano, si addensavano nelle oscurità, attraversati da tagli di luce e di note dove i casti affetti e i soprusi della realtà diventavano una preghiera. Che vita! È meglio volersi bene, ma a volte sembra che non sia possibile.
Nel caso di Gardel (2006) eravamo rimasti colpiti e un po’ preoccupati da un programma tv, El gen argentino. Si trattava di una ricerca identitaria-competitiva nella quale i telespettatori votavano per scegliere, fra i diversi personaggi famosi, il campione dell’argentinità. Abbiamo esasperato questo modulo maschilista inventando un tiroteo amistoso, un’espressione del nostro linguaggio orale che originariamente significa «tormentosa seduzione conducente all’atto sessuale», presentando un dibattito fra due specialisti di Gardel, uno saputello e freddo, l’altro passionale, inesatto e permaloso, che lottano per possedere il mito e il corpo stesso di Gardel.
In entrambi i casi, la dimensione pubblica esalta gli elementi del mito ma stravolge quelli dell’individuo, che si nasconde nell’ambiguità e il mistero attorno alla sua vita privata – che riguarda anche la morte nel caso del cantante argentino – o nella dissoluzione più estrema, come nel caso di Billie Holiday. Vi interessava trattare il rapporto tra pubblico e privato, o la celebrazione e il bisogno di un mito per le masse? Crede che questo tipo di deificazione accada anche oggi?
Siamo partiti dall’ammirazione verso i due personaggi, la nera del Nord e il bianco del Sud, dall’emozione che destavano in noi le loro voci che, accompagnate da grandi parolieri e musicisti, cantavano storie della perduta gente. Sentivamo che le loro voci capivano il mistero di chi è costretto a errare per il mondo continuando a cantare per sublimare le angherie subite nel corso dei millenni nel cammino verso la dignità, nunca faltan encontrones cuando un pobre se divierte (ovvero «non mancano mai le scazzottate quando un povero si diverte», come dice José Hernandez in Martín Fierro). Si tratta di voci che, come dice Sampayo in quelle pagine che mi commuovono, sono diventate voci di noi tutti. La nostra scelta narrativa ci ha permesso di inoltrarci nei loro affetti, nell’incanto e nel dramma della loro vita intima e nelle gioie e tristezze del talento, andando dal privato al pubblico e viceversa. Eravamo molto interessati a inoltrarci nel paesaggio estetico, sociale, storico e politico dell’Argentina e degli Stati Uniti dell’epoca. La mitizzazione e la deificazione sono sempre attuali, sembra sia impossibile farne a meno, ma i mitici dèi di oggi sono re e regine di danari in forma umanoide, riempiti di muscoli, tatuati con i segni delle monete ed equipaggiati con protuberanze elettroniche. Niente di interessante: solo evidenti segni della finanziarizzazione della psyché.
Il libro su Gardel è posteriore a quello su Billie Holiday ed è tecnicamente più vario ed estremo: penso alla moltitudine di personaggi che lo abitano, alla varietà del tratto, che spazia dalla sintesi dei primi piani realizzati solo con qualche linea sul bianco, ai contrasti tra le campiture nette, alle pennellate più in stile Breccia, per arrivare a linee espressioniste, e persino alla presenza surreale di personaggi dei cartoon nelle scene ambientate a New York. Come spiega questa enorme varietà stilistica?
La nera e il bianco, l’inchiostro di china e la biacca bianca, il Nord e il Sud, NY e BS AS, il tango e il jazz… Noi americani del Sud, noi americani cosmopoliti dell’estremo occidente, noi europei impazziti in una lontana spiaggia, come amabilmente ci definì Naipaul, noi… Beh, continuerò in altra sede questo promettente incipit. L’espressionismo è la mia scuola, Pratt era un espressionista diurno, Breccia uno notturno e Van Gogh installava la notte dentro il cuore della luce. Credo che mi abbiano disegnato loro.
Sì, si possono chiamare cartoon i disegni umoristici che appaiono qua e là, rari nel caso di Billie, frequentissimi nel caso di Gardel; in questa storia i bianchi hanno preso più spazio e in questo caso «surrealtà» è la giusta parola sognante. Nelle folle di quella Buenos Aires ho fatto passeggiare cari personaggi delle rivistine comiche della mia infanzia, disegnati da Calé, Ferro, Oski e Divito.
Come ha lavorato sul testo di Julio Cortázar, El perseguidor, recentemente ripubblicato da SUR in una nuova traduzione (L’inseguitore)?
Pensando a Johnny Carter e anche a Meursault, il protagonista dello Straniero di Albert Camus… avrebbero potuto volersi bene? È possibile farlo? Dopo aver finito il disegno di Johnny, occhi spalancati e fissi, con i denti all’aria e infreddolito sotto una vecchia coperta a quadri, non ho potuto continuare per mesi, il disegno prendeva polvere sul mio tavolo e il suo sguardo mi seguiva fino a che… Blues me Jazz again.
Cosa rappresenta il jazz nella sua opera e nella sua formazione?
Jazztango e Tangojazz, l’Africa è anche qui, gli estremi si toccano, si mescolano, attraversando tutto il continente americano: Uruguay, Brasile, Perù, Colombia, Venezuela, Messico, Cuba, Puerto Rico… In ogni paese americano sono fiorite straordinarie musiche popolari maturate anche grazie ai battiti e alle armonie africane. Grazie, muchachos.
© Virginia Tonfoni, 2018. Tutti i diritti riservati.
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