Quarant’anni fa Andrés Caicedo si toglieva la vita a soli venticinque anni, dopo aver ricevuto le prime copie di Viva la musica! In questo pezzo lo scrittore cileno Alberto Fuguet racconta la contemporaneità di Caicedo, la sua freschezza, la sua vitalità. L’articolo è uscito originariamente su Latin American Literature Today, che ringraziamo.
di Alberto Fuguet
traduzione di Pier Quarto
L’ho detto in passato, l’ho scritto da qualche parte: fino a poco tempo fa – be’, ormai non più così poco – non conoscevo Andrés Caicedo. Non sapevo della sua esistenza. Per forza: non sono colombiano, non sono nato a Cali, non ho studiato lì, né non sono stato giovane in Colombia. Ed è su questo che mi voglio soffermare prima di proseguire. Non ho letto Andrés Caicedo nel momento giusto, in quell’istante in cui «tutto esplode», quando sei vulnerabile e alla deriva, ma allo stesso tempo sei curioso e alla ricerca di alleati e fratelli e padri che vorresti non uccidere.
Ho letto Caicedo tardi.
Non ero più un ragazzetto, ero già uno scrittore.
Ogni tanto mi chiedo: se avessi letto Andrés (Caicedo è tra quegli autori che fai fatica a chiamare per cognome; uno tende, come fan, a chiamarlo Andrés), sarei diventato uno scrittore? Sarebbe valsa la pena fare lo sforzo? Non poteva succedere quello che a volte succede a tanti? È tale l’impressione che ti può provocare un testo (la somma di Viva la musica! + Ojo al cine + il mito di Andrés in una combo tenace) che può far crollare uno scrittore in erba e lasciarlo piuttosto nella sfera degli ammiratori che sulla strada dei creatori. Perché l’uragano Caicedo, se ti prende impreparato, può cambiarti la vita: in meglio (vuoi leggerlo tutto; ti spinge a scrivere seguendo il suo esempio; diventi assuefatto e anche un po’ groupie), o decisamente in peggio (decidi di diventare groupie e drogato; ti dedichi esclusivamente a leggere e a sottolineare i libri di Caicedo; non fai che confermare le tue insicurezze e paure, e piuttosto che pensare a scrivere, cominci a pensare a come ucciderti o, almeno, a come vivere una vita caicediana).
Ma la vita è misteriosa. O lo era prima di internet. Ciò che potevi leggere non dipendeva da te perché era cruciale la disponibilità dei titoli in libreria, cosa che dipendeva in parte dal canone. Gli autori che erano stati già consacrati formavano il canone, quindi erano gli unici che arrivavano sugli scaffali e a cui potevi avere accesso. Era impossibile leggere libri che non si trovavano, nemmeno nei negozi di libri usati.
Andrés non faceva parte della mafia e forse neanche sapeva dov’era Barcellona sul mappamondo. Sognava le riviste di cinema, sognava Hollywood, credeva che i giovani potessero essere suoi lettori e sentiva che il rock era più potente, o allo stesso livello, di romanzi e cinema. E poi, era morto. Giovane e morto.
Che futuro letterario poteva avere?
Il giorno in cui ricevette la prima copia di Viva la Musica! al suo appartamento a Cali, Andrés si suicidò, a venticinque anni. Una tragedia, senza dubbio, ma anche il più grande dei suoi atti mediatici. Andrés aveva ben presente cos’era successo a Jim Morrison e a Janis Joplin. Sapeva che James Dean era già morto quando ci fu la prima di Gioventù bruciata. È impossibile analizzare o provare a capire un suicidio. In parte ho provato a farlo studiando le sue carte personali e le sue lettere e assemblando la sua autobiografia: Mi cuerpo es una celda. Non ho una risposta. E questo, ovviamente, aumenta il mistero, incendia la morbosità. Ma una cosa è certa: oltre al tremendo dolore, all’immensa sensazione di solitudine e di essere alla deriva, Caicedo era certo che la sua fama e il suo legame con i lettori sarebbero arrivati dopo. Volle andarsene lasciandosi dietro la sua opera. Aveva provato a uccidersi molte volte. Non era un autore che voleva fare carriera; era un autore inquieto, nuovo, in erba, che non desiderava maturare o crescere o invecchiare; però, questo sì, voleva scomparire dietro il suo lavoro.
E così fece.
Ha lasciato un’opera piena di vita, forse imperfetta, ma impressionante, reale, onesta, scostumata e nuda. E, con il tempo, quest’opera ha cominciato a dividersi in modo naturale in lavori di fiction (libri per ragazzi) e non fiction colorati da droghe, cinema, ambiguità, terrore, disfunzioni familiari e periodi trascorsi in istituzioni psichiatriche. Viva la musica! è il capolavoro di un autore che è solo agli inizi; Mi cuerpo es una celda, la sua opera postuma, è la testimonianza di qualcuno che vuole arrendersi.
La cosa più affascinante di Viva la musica! è quella specie di manifesto spregiudicato di Maria del Carmen Huerta, una ragazza perbene che discende nella profonda Cali fatta di salsa e rumba. Il romanzo è narrato in prima persona e termina con una sorta di bonus track dove è annotata la colonna sonora del libro che abbiamo appena finito di leggere. Però giusto verso il finale, quando il viaggio e la storia stanno arrivando al termine, succede qualcosa di strano: la narratrice comincia a cambiare la voce e diventa più mascolina, come se il vero autore si annoiasse o non fosse capace di mantenere l’immedesimazione per scrivere con sicurezza assoluta una sorta di manifesto che parte giovanile, con una vibrazione anni Settanta, e ultracontemporaneo («Viviamo il momento più importante della storia dell’umanità») poi, poco a poco, si trasforma nel credo di Caicedo stesso. Da questo libro deriva la famosa frase: «Se lasci un’opera, muori tranquillo, confidando in quei pochi buoni amici». Molte di queste sentenze/ordini/raccomandazioni ai suoi lettori sono eccessive e hanno più a che vedere con l’autore che con la narratrice e, lette riga dopo riga, diventano addirittura contraddittorie, poiché l’autore desidera l’anonimato tanto quanto la fama. Trasforma le sue pulsioni suicide in ordini per non crescere: «Non permettere mai che facciano di te un adulto, una persona rispettabile. Non smettere mai di essere un ragazzino […] Per la timidezza: l’autodistruzione». Caicedo scrive un paio di pagine che poi potranno trasformarsi in frasi da poster o messaggi su twitter: «Il sesso è un atto tenebroso e l’innamoramento l’unione dei tormenti». Dice di scordarsi di «poter raggiungere quella che chiamano “normalità sessuale”» e raccomanda di non illudersi che «l’amore porti la pace».
Il romanzo celebra la musica e la salsa, ma il miglior rifugio è il cinema: «Il posto migliore per praticare il ritmo della solitudine è un cinema. Impara a sabotare i cinema». Esorta i figli a non ripagare i genitori perché i genitori dovrebbero supportare e alimentare i figli a prescindere, solo per averli avuti. «Non risparmiare mai».
Non è strano che Andrés Caceido si sia suicidato dopo aver scritto tutto questo: «Muori prima dei tuoi genitori per liberarli dalla spaventosa visione della tua vecchiaia». Quello che impressiona e forse mai si saprà è quanti lettori avranno provato a seguire il suo esempio.
*
La vita ha le sue svolte, sì. È misteriosa. La giustizia, è certo, non esiste, ma io credo nella giustizia artistica. Alla lunga, con il tempo, le cose si sistemano come dovrebbero. Il grande best seller del momento scompare, e un autore che nessuno sapeva fosse esistito finisce per influenzare tutti gli altri. Viva la musica!, il romanzo condannato forse a morte dal suo autore, non solo gli è sopravvissuto, ma gli permette di rinascere a ogni ristampa (adesso per Alfaguara, proprio come Vargas Llosa, il suo idolo letterario) e – perché no – ogni volta che si legge per la prima volta.
Ecco cos’ha Andrés Caicedo e che pochi altri hanno: continua a essere letto, le persone continuano a leggerlo. Come mi disse un suo amico a Cali: «Finché ci saranno giovani in Colombia, Andrés avrà i suoi lettori». Ancora: fino a quando ragazzi e ragazze attraverseranno l’adolescenza ovunque nel mondo (poiché oggi Andrés è latinoamericano e globale), ci saranno nuovi lettori di Andrés.
Il ragazzo alla moda negli anni Settanta continua a essere alla moda, e ciò prova che non è un fenomeno passeggero, che quello che scrive trascende le lingue, le città, i gruppi, le tendenze. Quello che sembra essere «tipico di Cali» in realtà è molto più urbano e globale. Nell’era di Twitter e degli iPhone, le chat e Skype, Whatsapp e Youtube, Caicedo sembra essere l’autore più adatto a raccontare questa nuova generazione: persone connesse ma disconnesse; con un’overdose di informazioni ma con emozioni che non riescono a controllare o a comprendere completamente. Caicedo è dissociato e al limite, borderline e bisessuale, pop e colto, retrò e d’avanguardia. Non è strano che lo si capisca alla perfezione nel ventunesimo secolo. Non è strano che sia un feticcio per coloro che riescono a esprimersi solo usando media che li proteggono. Andrés balbettava e usava i libri, le lettere e gli articoli per collegarsi con il mondo. Andrés aveva un blog ancor prima che i blog esistessero; Andrés mandava email – lettere, tecnicamente parlando – a persone che nemmeno conosceva, raccontando loro i dolori e le pene che lo confondevano.
Caicedo è di nicchia, sì, e forse questa nicchia sono i suoi fan. Il pianeta Caicedo fonde quella che può essere chiamata la sensibilità emo e la rabbia del fanboy (i cinefili acerrimi e feticisti) con quella dell’autore letterario, una sorta di Cesare Pavese tropicale. Trionfa allo stesso modo nella fiction e nella non fiction. Conosce le droghe, i film e la musica. Si veste vintage, comprende il valore del personaggio dietro l’autore, ha pose da rocker, si spoglia davanti una telecamera 16mm, lascia tutto per iscritto affinché qualcuno rediga la cronaca, e i lettori della morale Instagram possano connettersi con lui come se fosse un ragazzo della Finlandia o di Seoul.
Caicedo è una sorta di Kurt Cobain letterario e cinefilo capace di unire i fan di André Bazin con quelli di Bob Dylan. Mentre García Márquez, lo stesso anno, si meravigliava con delle farfalle gialle, Caicedo era ossessionato da Travis Bickle e Taxi Driver.
*
Mi è ancora difficile credere di aver conosciuto Caicedo così poco tempo fa. Molto dopo rispetto a quando Andrés si è trasformato in Andrés Caicedo, la rockstar letteraria colombiana, il Kurt Cobain di Cali, il cineasta che non ha mai fatto film ma ha finito per trasformarsi nella stella cinematografica più brillante della Colombia.
L’amicizia è iniziata nel 2000. Andrés era già morto da più di vent’anni e i suoi libri erano sugli scaffali colombiani già da un po’.
E io dov’ero?
Dov’erano i suoi libri?
Più precisamente: dov’era lui quando io ne avevo più bisogno? Lo incontrai in una delle mie librerie preferite: La Casa Verde, ora scomparsa, a Lima, di fronte al parco El Olivar, in pieno San Isidro. Passavo il tempo, in attesa di prendere un aereo. Avevo lasciato la mia stanza all’hotel El Olivar e stavo aspettando un taxi per andare all’aeroporto Jorge Chávez. Così mi sono messo a sfogliare i libri; non è una brutto modo di passare il tempo. Improvvisamente la parola cinema si è impressa sul mio radar. Tra le migliaia di titoli che coprivano gli scaffali della libreria dipinta di verde, ho notato un grosso volume azzurro scuro intitolato Ojo al cine.
Ho lasciato gli altri testi che avevo in mano per prendere questo volume sconosciuto. Se scrivo che le mie mani tremavano esagero, ma non di tanto. Desideravo almeno che lo facessero (zoom sulle mani che prendono il libro). Intuivo che più che affrontare un libro, stavo per affrontare una persona.
La persona che anni dopo si sarebbe trasformata in parte di me e io, nel bene o nel male, non lo so, in parte della sua famiglia.
Perché un autore che si toglie la vita attrae tanto?
Perché un cinefilo suicida ha avuto un tale impatto su di me?
Caicedo era un Pavese per fanatici del cinema? Il cinema poteva veramente uccidere? L’amore per il cinema è un’assuefazione pericolosa? E non solo un rifugio per codardi?
Ho immediatamente comprato il libro e non ho mai smesso di leggerlo: in taxi, nella sala d’attesa, nell’aereo. Non era un romanzo, ma il copione della sua vita, una mostra dei mille film che aveva visto.
Di nuovo: come ho fatto a non conoscerlo prima? Caicedo, ho capito subito, era il cinemaniaco più cinemaniaco di tutti, anche se lui non ha mai usato questa parola. Pensavo di sì e (sbagliandomi, ma dedicandola a lui) pochi mesi dopo ho fondato la mia compagnia di produzioni audiovisive, e l’ho chiamata Cinépata, come omaggio. Caicedo si considerava piuttosto un cinefago e una vittima della cosiddetta cinefilia. Il suo metodo era chiaro: divorare di tutto e, poi, scrivere di quello che aveva visto. La sua passione e la sua mancanza di misura l’avevano portato ad accumulare ogni informazione possibile fino a convertirlo, con il tempo, in un cinefago incondizionato.
Ogni tanto penso che la tecnologia avrebbe salvato Caicedo. IMDB sarebbe stato un luogo ideale dove riversare la sua cultura. Le chat l’avrebbero messo in contatto con altri freak, le telecamere digitali lo avrebbero aiutato a filmare i suoi video di terrore, e una collezione di DVD piratati l’avrebbe fatto dormire in pace: lì su una mensola, in ordine alfabetico, avrebbe conservato tutte quelle immagini che non gli entravano più in testa.
*
Caicedo è sempre stato più creatore che critico. I suoi scritti erano al limite della finzione, e quando si è messo a inventare romanzi, racconti e teatro, tutto gli usciva con un sapore cinematografico. Non sapremo mai come sarebbero stati i suoi film. La cosa più importante in Caicedo era Caicedo stesso. Sempre. Era un narcisista, insicuro, e giovane, una combinazione fatale. Il racconto della mia vita, la mia vita in un romanzo, una vita in tre atti. Io, io, io.
Mi piace immaginarlo che incarna l’idea di cinefilo come martire, il postadolescente latinoamericano alienato da Hollywood, il solitario che si immola per il grande schermo mentre gli altri ne supportavano la causa, il fratello maggiore di McOndo, il link perduto con il ventunesimo secolo, il fan che scriveva copioni western e di film dell’orrore e divorava Rosen e Truffaut nei cinema di Cali.
Andrés era un pioniere, sì, ma anche fuori fuoco, fuori sync, al limite. Caicedo non ballava salsa; voleva, ma non ci riusciva. Caicedo non parlava, scriveva. Tutto il giorno: e così come oggi esiste gente che non concepisce un giorno senza postare qualcosa, a quel tempo Caicedo scriveva a sé stesso.
Viva la musica! è la rumba che lui avrebbe voluto di ballare, il romanzo giovanile con un titolo che celebrava la vita ma finiva con un comando al suicidio, a non credere e non crescere, che predicava di non fidarsi di nessuno più vecchio e benediceva l’idea dell’autodistruzione.
E, senza dubbio, è un romanzo intensamente caleño, di Cali, profondamente rumbero ma, soprattutto, giovanile. E terminale.
Ecco perché è il romanzo finale di Andrés.
Il romanzo finale, il romanzo iniziale, il romanzo che in un modo o nell’altro ha dato inizio a tutto.
Il mito, la opera, il pianeta.
Da qui ha inizio tutto, qui tutto finisce. Scritto contro il tempo, prima di compiere venticinque anni quel marzo del 1977.
© Alberto Fuguet, 2017. Tutti i diritti riservati.
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